Premio Racconti nella Rete 2011 “Un ultima cosa” di Sara Vannelli
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2011Pioveva e lei se ne era andata.
Da qualche parte. Da qualche parte dove non vuoi sapere dove.
Da qualche parte lontano, dove non vorresti mai essere.
Il campanile della chiesa suonò per qualche minuto. Qualcuno si era appena sposato e probabilmente quel giorno, un giorno, sarebbe stato per quel qualcuno il miglior giorno in assoluto tra tutti. Il campanile suonò altre due volte. La chiesa era una chiesa piuttosto antica costruita intorno al 15° secolo, si potevano vedere le finestre dipinte con acquarelli raffiguranti immagini ispirate alla Bibbia. Lui si immaginò la giovane coppia nella chiesa. Trenta, trentacinque anni al massimo, non di più. Vestito bianco. Vestito nero. Fiori ovunque, intorno, parenti felici e commossi tutti riuniti assieme vicino la coppia. Poi un prete buffo e alla mano. Uno di quelli che ha sempre qualcosa da dire. Qualcosa tipo: e sempre e per sempre apparterrete l’uno all’altra. O qualcosa tipo: l’amore è qui, nelle vostre mani, potete proteggerlo o buttarlo via, nasconderlo o sfamarlo, dipende soltanto da voi. Solo da voi. O qualcosa tipo: qualunque cosa accadrà l’amore vi accompagnerà di qui e di là. Per sempre.
Poté immaginare quelle parole arrampicarsi su e giù per la chiesa, rimbalzare di finestra in finestra, di bocca in bocca, da un orecchio all’altro. Nella chiesa poté vedere la sedia rossa, il bicchiere d’oro, la croce sacra. E di finestra in finestra la pioggia cadere con forza, battere forte sui vetri come zoccoli di cavalli impazziti.
Alla TV era appena cominciato un telegiornale. C’era un giornalista molto elegante che parlava di un disastro enorme appena successo in Guatemala. C’erano bambini in fin di vita sullo sfondo, un’intera scuola a causa di un forte terremoto era crollata. Stavano giocando, pensò. Stavano ridendo, sicuramente, ridevano, pensò. Stavano studiando. Sullo schermo c’erano famiglie intere che cercavano ognuno i propri cari. Potevi scovare tra loro una donna disperata che piangeva sulla cartella del figlio, l’aveva appena trovata tra le macerie. La cartella era vuota e impolverata. Completamente vuota. E dall’altra parte della strada semi distrutta c’erano decine di persone che si aiutavano a vicenda nel cercare tra le macerie. Il giornalista di tanto in tanto annunciava il conto dei corpi ritrovati, al momento erano meno di quindici. Più di trenta bambini erano scomparsi. Cambiò canale. Ma poi spense subito. Così mise un po’ di musica, un CD che non riusciva a ricordare quale fosse. La prima canzone partì. Era un album di Bob Dylan, cominciò a girare nel lettore e potevi dire che quella era proprio una bella canzone. Così l’ascoltò, dolcemente, continuò ad ascoltarla fino a quando, a stento, sentì la voce di qualcuno chiamare dalla strada:
Teoooo! Teo sei in casa?
Era un amico di Teo. Ma Teo non andò alla finestra, sapeva che era Charlie, e che Charlie avrebbe voluto parlare, offrire il suo aiuto, la sua amicizia, ma Teo non andò.
Dai Teo! Urlò Charlie. Lo so che sei a casa! Dai affacciati un secondo!
E’ meraviglioso avere degli amici accanto quando sei ufficialmente solo. O terribilmente triste. O quando non riesci a muoverti. È meraviglioso avere delle persone che si preoccupano per te. Ma è terribile quando non li vuoi tra i piedi perché tutto quello che riesci a vedere intorno a te è soltanto la tua ombra. Sto ascoltando un po’ di musica, Charlie. Teo disse a se stesso con un tono basso. Vorrei che l’ascoltassi anche tu, disse. Così alzò il volume e la musica uscì fuori dalla finestra, nell’aria, liberandosi. Charlie sorrise dalla strada. Aveva un bel cappello sulla testa e veniva dritto dritto dal lavoro. Aveva comprato un paio di birre e noleggiato un film. Aveva persino una baguette che gli usciva dalla busta di cartone marrone. Solo pane. Non riuscivi a vedere nient’altro.
Teo! Strillò Charlie. Dai fammi salire! Non muori dalla voglia di bere una birra fresca con il tuo amico scricchiolante Charlie?!
Anche Teo sorrise. Poi all’improvviso un vicino cominciò a battere con violenza sulle pareti, probabilmente infastidito dalla musica troppo alta. Batté ancora. Teo abbassò il volume, poi andò in cucina e aprì il frigo. Nel frigo c’era soltanto una bottiglia di latte e alcune uova. Poi vide una bottiglia di vino bianco e l’aprì, piuttosto lentamente, guardò verso il calendario e fece un punto su uno dei giorni. 14 Aprile. Non era una croce, era un punto. Un punto nero, e c’erano altri punti su altri giorni del mese. Non molti, ma c’erano dei punti.
Sono ubriaca.
Lo vedo.
Ho bevuto troppo vado a casa.
Dove sei adesso?
Sono… sono appena andata via da una festa di compleanno, sto andando a casa, ti chiamo dopo.
Aspetta Eva, dimmi come ti senti.
Te l’ho detto Teo. Te l’ho detto. Ti chiamo dopo, per favore.
Chiama un taxi.
Sto bene, te l’ho detto, è tutto okay. Per favore, perché non mi credi?
Ti credo. Voglio solo assicurarmi che andrà tutto bene.
Sto bene, te l’ho detto, sono solo ubriaca fradicia e adesso sento che devo vomitare, quindi per favore lasciami andare, devo andare…
Ok, ma per favore chiamami appena possibile.
…
Hei, Eva sei là?
Oddio, te l’ho detto non mi sento bene, lasciami andare. Perché insisti? Perché continui a farmi domande?! Perché mi fai questo?
Non stavo chiedendo, stavo soltanto dicendo che
…
E poi lei aveva attaccato. Brutalmente. Improvvisamente, come quando le porte sbattono per la corrente.
Lui la chiamò ancora.
Hei sono io, stai bene?
Cristo Teo, non capisci. Lasciami andare! Urlò spaventosamente.
Ed era stato così che lui l’aveva lasciata andare.
Questo fu tutto quello che uscì dalla bocca di Teo in cucina. Tutto quello che riuscì a dire davanti a quella bottiglia di vino bianco gelido. Tutto quello che riusciva a ricordarsi e a ripetere costantemente come un disco rotto. Quella era stata l’ultima conversazione che lui e lei avevano avuto. Erano stati abituati ad amarsi. A fare meravigliosamente l’amore. Ad avere l’uno bisogno dell’altra e a dirselo, ripetutamente, come se quella potesse essere l’unica cosa possibile da poter dire alla persona amata.
Subito dopo quella telefonata lui non ebbe più sue notizie. Perso e confuso decise di non guidare e di salire su di un taxi per vedere il fratello, pensare ad altro, parlare di altro. Finire la serata con altro. Ma il taxi ebbe un incidente e il giorno dopo l’incidente tutto quello che Teo ricevette da Eva fu soltanto uno squillo. Lei non seppe niente dell’incidente ma sapeva di essersi comportata ancora una volta (l’ultima volta?) da ragazzina, senza alcun rispetto per se stessa o per lui. Sapeva di aver appena rotto un altro pezzo del loro amore. Sapeva che lo aveva respinto, un’altra volta. Sapeva che non avrebbe voluto che accadesse ma non poteva farne a meno. E lui non l’aveva più chiamata dopo quello squillo. E lei nemmeno riprovò più a richiamarlo, scomparse via dentro alle sue paure e a quello che già era diventato il loro passato.
A causa dell’incidente Teo perse parte del suo udito, ci sentiva molto meno ora e quando ritornò a casa dall’ospedale decise di trasferirsi in un’altra città. C’era una bellissima chiesa accanto alla sua nuova casa e una moschea appena dietro l’angolo.
Bevve tutto il bicchiere di vino bianco, in un sorso solo, poi chiamò Charlie al telefono.
Hey, sei ancora là? Disse Teo.
Sì sono ancora qua, disse Charlie, io, una specie di ombrello e un giornale di tre giorni fa che ho appena trovato su una panchina. Ma che stai facendo? Dai, fammi salire, disse. Non ci posso credere, Whitney Huston spende più di settemila dollari al mese in Cocaina…
Credevo che mi amasse davvero, Charlie. Disse Teo. Ma mi sbagliavo o forse non riusciva soltanto ad amare se stessa. E’ come se una parte di sé si rifiutasse di stare bene. Farsi del male, capisci? Questo è il punto. E Noi. Non riusciva più a fare niente per noi. Forse ogni tanto sognare.
Charlie non disse niente. Riuscì soltanto a voltare la testa quando passò una donna di colore bellissima con dei capelli neri corti e in mano dei pomodori e della lattuga fresca.
Charlie sei là?
Sì sì certo, disse Charlie. L’amore, da solo, mica basta, serve altro, bisognerebbe…
Allora vuoi salire? Chiese Teo interrompendo Charlie. Ho del vino bianco, se vuoi potremmo guardarci un film. Ma non voglio parlare Charlie. Disse Teo. Dimmi che non parleremo, non posso passare il tempo a pensarci. Non farmi domande e non darmi risposte, per favore.
Va bene. Disse Charlie. Non parleremo, nemmeno una parola, giuro.
Ok, disse Teo. È tutto quello di cui ho bisogno. Ti apro.
Ok, disse Charlie. Ma aspetta! Un’ultima cosa prima che tutti e due smettiamo di parlare…
Dimmi, disse Teo. Di che si tratta?
E’ permesso ridere di tanto in tanto?
Va bene si può ridere, Charlie. Disse Teo aprendo la porta. Ma per favore… non fare troppo lo stupido.
Mi pice come emergono le dinamiche dell’amicizia. Mi piace anche l’accento sui desideri opposti di stare lontani dal resto dell’umanità e di avere accanto qualcuno con cui non parlare; penso che tutti sperimentiamo questi stati d’animo. Mica serve parlare per sentirsi vicini!
Che dire Sara, l’amicizia è una cosa meravigliosa e come tale spesso ti “tira fuori” da momenti più o meno bui anche senza parlare. Gli amici veri, sanno come starsi vicino senza darsi fastidio. Mi piace molto come riesci sempre a far camminare parallelamente alla storia che racconti anche avvenimenti attuali.
Cara Silvia,
apprezzo davvero molto il tuo commento, soprattutto sapendo che arriva da una lettrice che non conosco.
Volevo raccontare una storia dove il non-detto raccontasse tutto il resto…
dove il dolore, le immagini appiccicate ai ricordi, potessero aprire spazi, spazi infiniti.
Sono contenta che ti sia piaciuta.
Sara
Devo dire che questo racconto è in parte una sorpresa. Avendo letto con grande piacere GUARDA CHE ME NE VADO, esordio della scrittrice, devo confessare che quest’opera non è esattamente in linea con lo stile spumeggiante che permeava la maggior parte dei racconti della raccolta edita. In questo testo ci sono meno bollicine, ma (come posso vedere dal commento dell’autrice) qui l’intenzione era tutt’altra. Qui lo stile è molto più vicino al non detto, appunto, ai silenzi e alle riflessioni più comunemente di stampo “carveriano”.
Magari è un esperimento, o magari – chissà – la Vannelli offre una prova più matura del suo stile, dove comunque i dialoghi restano inconfondibili.
Cari EDO e VALENTINA,
grazie dei commenti e delle osservazioni, sono davvero preziosi!
Siete dei veri lettori!
Volevo una storia diversa, raccontare il dolore con il suono dei pugni sui muri…
vi abbraccio forte!
Sara