Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Racconti nella Rete 2009 “I libri sono treni” di Giuseppe Autiero

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009

Ci dev’essere qualcosa di tenero ed irrisolto, tra libri e treni. Nelle stazioni, prima di un lungo viaggio, sfogliamo il libro acquistato in edicola: lo annusiamo, leggiamo quarte di copertina. Allo stesso modo annusiamo gli scompartimenti, vediamo che compagnia ci toccherà per lunghe ore: gente che si toglie scarpe o srotola involti unti di panini. Guai se ci capitasse un libro noioso, come un commesso che chiacchiera troppo, ci distrae dalla distrazione che cerchiamo nel libro.

Il viaggio è l’idea antica di vincere lo spazio col tempo, ed il tempo con un libro. Calvino direbbe di mettersi comodi (senza toglierci le scarpe, noi), di sfruttare i rumori d’ambiente (il ta-tang delle ruote sui binari) per ritmare la lettura. Sollevare un attimo gli occhi a fine paragrafo, per sbirciare un paesaggio che corre indistinto, nuvole su monti. Sarebbe perfetto che la fine capitolo coincidesse con la sosta in una stazione: passare dalla pagina al nome di una città su un cartello azzurro. Leggere è un viaggio tra parole, tra stazioni di nomi: che bello se invece di Agropoli leggessimo Pietroburgo, Kandahar, Gare de Lyon.

Libri e treni sono accomunati dalla stessa sensazione: di qualcosa che potrebbe accadere, inaspettato e decisivo. Non è il timore del deragliamento che ci dà il batticuore, a vedere partire la nostra donna: ma l’accelerazione della vita, e delle possibilità. Come se la quotidianità venisse shakerata tra la foresta degli scambi e ne uscisse la combinazione imprevista, l’incontro esiziale: quel bell’uomo tenebroso si vede piombare addosso una ragazza sballottata dallo scartamento laterale –occasione a sostegni, cortesie, chiacchiere, progetti di fuga insieme. Anna Karenina finì come sappiamo solo perché aveva sbagliato altezza dai binari: doveva vedere correre la taiga da un vagone, per inventarsi un capitolo ennesimo, una soap-opera infinita e noiosa.

Fortuna che i libri come i viaggi finiscono, che ci sentiamo tacitamente autorizzati a dimenticarli non appena finiti: anche se segniamo di circoletti e NB le pagine decisive, se sottolineiamo. Che illusione: non ci sono mai riletture, lo shaker non ridarà la stessa combinazione -quella ragazza seduta per ore di fronte a noi, che ci è sfuggita scendendo ad Agropoli (ma come si fa a scendere in un posto così? perché?) mai risalirà nel nostro scompartimento.

In un treno la vita è esposta, squadernata nei capitoli di un libro: ed a leggerlo impieghiamo a pensarci lo stesso numero di ore –una decina, da Paola a Milano Centrale, bastano a leggere Viaggio al termine della notte. Arrivati di notte, giunti alla notte dell’ultima pagina, non siamo più gli stessi. Un’altra quotidianità ci prende, appena rimesso il piede sul marciapiede: alcuni buttano via il gialletto comprato alla stazione di partenza, come un quotidiano gualcito dalle ore, dai troppi passeggeri che ci hanno chiesto “Posso dare un’occhiata?”.

Non c’è stato mai viaggio senza libro, per me. Andrej Bolkonskij è morto poco prima che il controllore mi chiedesse il biglietto; ho lasciato per qualche minuto Jorge da Burgos a mangiare l’Ars Comica di Aristotele per aiutare una coppia anziana a sistemare le valigie sulle reticelle. L’Italia intera è scorsa un metro sotto di me, tagliata dalle lame di rasoio di due binari, mentre leggevo di come Poirot si preparasse a dormire in treno, con il proteggibaffi.

Alcuni dormono, in viaggio: gli scarti laterali del convoglio, lo stridore dei freni, per loro sono solo un cambio nel ritmo del russare. Io inseguivo la vita, nei libri, mentre la vita mi scorreva accanto in stazioni e persone ed occasioni che si avvicendavano ignorate. E’ una strana sensazione: perdersi qualcosa, tutto, illudendosi di tutto comprendere ed acquistare. E quando il treno rallenta, tra le brume sottili che sfocano i lampioni, imbucandosi nella gola immensa di Milano Centrale, io chiudo un ennesimo libro: mi ritrovo in un altro posto, a dovermi inventare un’altra vita e quotidianità, con l’inutile e prezioso bagaglio di un altro libro letto. Me lo tengo stretto al petto (noi non lo butteremo, no, il Céline), indeciso se esso ci abbia caricato di una riserva d’energia (fatta di ore ed emozioni) spendibile nell’inumana frenetica città, oppure sia solo il reperto di uno spreco d’ore.

Leggendo in treno, una volta, e giuro che è successo davvero: potrei citare la presenza di almeno altri quattro maschi, nativi italiani, imbarazzati e sconvolti, le cui generalità malauguratamente non ho appuntato; è successo: che in uno scompartimento, sollevando gli occhi dal libro, vedessi che c’era una giovane donna che leggeva Il diavolo in corpo di Radiguet. E lo vidi davvero, il diavolo. Lei in gonna, unica femmina presente, aveva spalancato le gambe, l’incavo del retroginocchio (ci siamo capiti) destro accavallato su un bracciolo: mostrava l’allarmante impudicizia degli slip, così, come a volte la vita ci si presenta svergognata e sconvolgente in certi libri. Un libro aperto non mima forse la stessa postura delle gambe aperte di una donna?

E che cosa faceva, lei? Cos’altro avrebbe potuto fare, per mostrarsi devastante ed ingenua, leziosa ed intoccabile, per eccitare ma al tempo stesso tenere a distanza? Cosa poteva fare, se non leggere un libro? Quando lo chiuse, paf, osservò con deliziosa distrazione (quel leggero sfocamento e riallineamento dello sguardo) il cartello della stazione. Lesse Agropoli –prese la valigetta, uscì, scese. Senza una parola sola. Ne aveva dette anche troppe, silenziose e feroci.

La scena era durata per ore. Impossibile descrivere la tensione disumana, la sudorazione degli altri maschi; i loro continui movimenti sul sedile, ad attenuare le pressioni dei corpi cavernosi. Accavallavano le gambe, per nascondere l’imbarazzo, non ci riuscivano, si disponevano di lato, ecc. Una tortura. E per tre ore filate, tante quante ce ne sono tra Paola ed Agropoli!

Capii allora quanto è difficile l’urbanità di modi, la cortesia, il “nonsifa”, quando l’offerta della vita è così straziante, dirompente e diretta: quando il velo degli abiti, delle convenzioni civili, è ridotto al minimo –il tessuto leggero di uno slip. Ebbi pena per loro, sinceramente: si sforzavano di guardare il paesaggio, l’orologio, di sfogliare le parole crociate, di lavorare su relazioni e fatture, di scartare panini unti, di chiudere gli occhi reclinandosi sui poggiatesta. Tutto invano: d’un tratto, gli occhi si spalancavano, ed il loro sguardo tornava a calamitarsi là, all’Origine del Mondo. Come se guardare nel corridoio (altrove) sbadigliando fosse costato loro uno sforzo immane -un piccolo asteroide che tentasse di sfuggire all’attrazione di un buco nero. Ma poi, l’immensurabile gravità l’aveva vinta: e tornavano a guardare , le bocche finto sbadiglianti restavano anchilosate nell’icona classica del desiderio sbavante. Un ago che il polo nord riafferra imperioso.

Immaginavo il disprezzo che lei, leggendo, nutriva per quei maschietti infoiati ed impastoiati dalle convenzioni. Leggere libri in treno autorizza ad ogni sdegno e presunzione verso i compagni di viaggio, per chi legge la Gazzetta dello Sport o Gente.

Per anni mi sono chiesto perché mai l’avesse fatto. Una bella donna come lei, gambe lunghe e perfette, abbronzate (ripeto: è successo davvero, nel mese di giugno del 1985): non avrebbe avuto affatto bisogno di quel gesto puttanesco, per far sbavare chiunque. Voleva semplicemente quel che otteneva: una tempesta ormonale compressa e dolorosa, sangue che si ammaccava nel divieto. Era come se l’intenzione coincidesse con l’ottenimento, ne fosse indistinguibile: addirittura, era sovvertito il rapporto di causa-effetto, la successione temporale. Lo sbavamento preventivo dei maschi a vederla sedere aveva evocato ed innescato l’ulteriore provocazione. Un circolo che più vizioso non si poteva. Sospetto che fosse una studiosa di antropologia, di sociologia criminale: che stesse verificando una qualche teoria sui freni inibitori maschili. Il libro che leggeva (di cui chi mai tranne me aveva notato il titolo) era adeguatissimo: l’aveva scelto apposta, o meglio, il libro forse l’aveva ispirata. Lei era un diavolo dotato di corpo. Giocava in modo sporco con l’istinto maschile, lo scherniva.

Ma il suo piano fallì per un imprevedibile 20%. Perché c’ero io, là, tra  i cinque: io che leggevo. E non un  libro qualsiasi: leggevo Proust, Dalla parte di Swann. E sapevo, sapevo perché ce l’avevo lì scritto e spiattellato sotto il muso, che nella vita la promessa di una donna è malinconicamente vana: che “la felicità non esiste e l’amore è senza speranza”.

Leggere è difendersi da quel che ti può succedere in treno. Forse ti salva anche dai deragliamenti, dalle bombe dei fondamentalisti islamici. Ecco, una cosa così: una donna che ti esplode contemporaneamente nell’anima e nei pantaloni, una scena allucinante ed irreale persino a raccontarla, poteva succedere solo in treno.

Lei notò (sollevando gli occhi dal libro) che io non mi agitavo nei jeans, che mantenevo una perfetta postura (gambe accavallate) da gentiluomo inglese (esibivo un calzino ben attillato). Corse uno sguardo indicibile, tra noi (nessuna parola, ripeto: pensate questo: ore di silenzio perfetto in una situazione da cinema porno; pensate l’impossibilità di dire cose come “abbiamo recuperato il ritardo”). Ci scrutammo per un istante, io al di sopra del mio libro, lei al di sopra del suo -come sull’orlo di una complicità, o di un’avversione mortale. Le fiancate dei nostri libri ci proteggevano dal reciproco abbordaggio. Restai dalla parte di Swann, a leggere, e non col mio ago di bussola puntato al suo triangolo delle Bermuda. Sperai che il mio sorriso scafato, “conscio di vanità”, fosse una vendetta ed una rivalsa della povera umanità maschile torturata nei 4/5 dello scompartimento.

Allora ebbi la rivelazione decisiva di come fosse difficile tenere a bada la belva primitiva che ringhia in noi, apparentemente addormentata ma pronta a suggerire immediate violenze, stupri ripetuti come unica sensata consequenzialità a quello che non poteva che configurarsi come un attacco. (Sapete: la vita che chiede vita, il sangue sangue.) Poveracci. Ma il fatto era che, loro, non leggevano, in treno: per loro il treno era solo una cosa che li portava velocemente (a volte: lentamente, in ritardo) da un’altra parte. Non un’ordalia ed una possibilità, quelle cose che ci aspettano spalancando un libro, delle cosce.

E’ dura, lo so, senza un libro, senza la sublimazione della letteratura: come resistere a quel che la vita ci presenta di drammatico ed irridente, senza  il rifugio, la vigliaccheria e la forza di un libro dietro cui nascondersi e barricarsi? Che poi col libro si capiscano cose, diventiamo più colti, è tutto sommato irrilevante rispetto alla sua funzione primaria: vincere il tempo che sta vincendo lo spazio. Distrarci dalla gola immensa della morte che ci aspetta in fondo ai binari. Accompagnarci in quella corsa sferragliante e sballottante che è la vita.

Il treno è come un libro. In esso avvengono eventi magici, incredibili (l’immagino, starete dicendo: non è vero, ha fatto letteratura). Eventi tutto sommato inutili il più delle volte, incompresi ed indicibili. Non li si può dire, ma raccontare, così: a distanza d’anni (di ventiquattro anni) e per iscritto. Con un altro racconto, quello che state finendo di leggere. Tra poco richiuderete il libro, indecisi tra una rivelazione ed una delusione. Allo stesso modo si scende qualche volta ad Agropoli, lasciandosi dietro possibilità inutili e misteriose.

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1 commento »

  1. Non mi dispiace certo tornare quest’anno tra le pagine del Premio, del resto non potrebbe esser altrimenti quando questa stessa gara, che mi ha visto tra i vincitori 2008, ha saputo regalarmi tanta soddisfazione quanta buona esperienza.
    E certo non mancano anche in questa nuova edizione 2009 quelle belle scoperte che fanno del portale un forziere aperto.

    Nella fattispecie, “I libri sono treni” è davvero quel che si dice un bel racconto: originale e capace di far scivolare piacevolmente il lettore dalla prima all’ultima parola passando per la spontaneità della narrazione e la ricchezza della letteratura che si cerca di esaltare. Così ci si ritrova da lettori della storia a lettori impassibili su un treno o, da maschi, eccitati alla stessa maniera di quelli dai calzoni agitati per una ragazza della quale, tornando fuori dalle righe, si finisce per desiderare di conoscerne il volto.
    Mi piace molto questa “analisi” del viaggiare in treno, del leggere, mischiata ad un piccolo “caso”, quasi Maupassant… Altro ciclope francese – tra gli altri citati ci sarebbe stato bene – che dall’arte del racconto seppe ricavarne capolavori.
    Bravo Autiero 🙂

    Giuseppe Sanalitro

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