Premio Racconti nella Rete 2011 “L’uomo di pongo” di Rita Banci
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2011Dalla finestra della sua casa l’uomo di pongo vedeva Parigi. Non tutta Parigi, solo uno scorcio d’angolo. Oltre i tetti d’ardesia blu e i comignoli rosa puntellati di canne fumarie che spuntavano come denti incerti in una bocca sdentata, poteva vedere, nitida, in lontananza, la ragnatela metallica della Torre Eiffel fendere il cielo come una lama. Non era una veduta speciale, perché migliaia di altre persone condividevano quella stessa ragnatela da ogni parte della città. E quello dell’uomo di pongo non era neppure uno scorcio felice, perché la Torre a momenti faceva i capricci e sfuggiva alla sua vista: rispetto al rettangolo vuoto della finestra, rimaneva così a sinistra che, se l’uomo di pongo si spostava per la stanza, la grande ragnatela spariva, lasciando il cielo sgombro e il blu dei tetti d’ardesia e l’uomo di pongo a barcamenarsi per trovare la posizione perfetta, alla destra della finestra. Certi giorni, però, anche quando l’uomo di pongo aveva scovato il punto ideale, la Torre si rifiutava di farsi vedere, scomparendo dalla visuale, nascosta dalla fitta coltre di nebbia nelle umide, grigie giornate d’autunno. Nonostante i capricci aristocratici della Torre, l’uomo di pongo era felice di quella silenziosa compagnia e lasciava sempre la finestra aperta per fare entrare l’immagine nella sua casa, ogni giorno dell’anno, con qualunque condizione climatica. Con il sole, con la pioggia, con il vento gelido dell’inverno, sempre la Torre poteva buttare un occhio e fare capolino.
L’uomo di pongo aveva solo quella finestra per vedere Parigi e, sebbene fosse un paesaggio monotono (cielo e tetti e la Torre), non si annoiava mai. Aveva scoperto la magia del cielo parigino cambiare colore ad ogni minuto del giorno, ad ogni ora, ad ogni stagione. Il rosa del mattino, l’azzurro intenso del giorno, l’oro del pomeriggio, il viola della sera; il bianco accecante del cielo d’inverno gravido di neve, i grigi infiniti delle giornate di pioggia, i rossi violenti dei tramonti, i verdi pallidi dell’alba in quella zona fredda in cui il giorno non è ancora giorno e la notte tarda a morire. E poi il giallo marcio carico di pioggia e gli azzurri in tutte le loro sfumature di celeste e di blu. Così l’uomo di pongo passava le sue giornate, davanti alla finestra, nel punto in cui poteva vedere la Torre Eiffel, e sedeva di fronte al suo cavalletto di pongo, cercando con i suoi pennelli di ricreare la tavolozza dei colori del cielo di Parigi.
In effetti, l’uomo di pongo era un discreto artista. Aveva imparato a stendere le tinte molto velocemente, perché si era reso conto, con un certo disappunto, che i colori del cielo mutavano forma sotto il suo naso ad ogni minuto. I primi tempi in cui aveva iniziato a dipingere, impiegava giorni e giorni prima di terminare un quadro; ma, nonostante ci mettesse tutto il cuore e l’impegno, il risultato non si avvicinava mai a quello che i suoi occhi vedevano. Quando, dopo un po’ di tempo passato in religiosa osservazione dei fenomeni coloristici atmosferici, era arrivato a comprendere il motivo per cui la sua resa pittorica era così fallimentare, era riuscito ad organizzarsi in modo tale da poter lavorare su più tele contemporaneamente. Aveva approntato, con infinita pazienza, una tela per ogni quarto d’ora del giorno: iniziava a lavorare su una, poi, passati quindici minuti, la sostituiva con la successiva che avrebbe rappresentato i colori del cielo un quarto d’ora dopo l’altra, e così via, fino a fare notte. Purtroppo, però, dopo i primi giorni, si accorse, con dolore, che questo metodo ingegnoso non poteva funzionare. Oltre ad invadere la sua piccola casa di pongo di un’infinità di tele ammezzate, non poteva contare neppure sulla costanza del clima parigino. Così, se la tela del mezzogiorno aveva dei meravigliosi colori azzurri intensi, e gialli dorati, e bianchi di nuvole cotonose, il mezzogiorno del giorno dopo poteva essere una giornata grigia e uggiosa perché la pioggia aveva spazzato via gli azzurri del sole. Sconsolato per il bizzoso tradimento del cielo di Parigi, aveva tentato l’impresa con i colori ad olio, conscio di poter apportare mutamenti al lavoro in caso di variazioni climatiche, ma, purtroppo, neppure l’olio di lino poteva nulla contro gli improvvisi temporali primaverili o la foschia novembrina. Alla fine, sconfitto e scoraggiato, aveva dovuto ingegnarsi a dipingere nel più breve tempo possibile, per essere sicuro di riuscire a cogliere l’attimo su cui i suoi occhi bramosi si erano posati, ed era diventato così abile che aveva finito per riempire ugualmente la sua casa di tele, ma tutte di opere finite. Così, sulle pareti arancioni e viola e verdi della sua piccola dimora, spiccavano affastellate infinite Torri Eiffel, tutte nello stesso punto, tutte grandi uguali, ciascuna immersa nel suo arcobaleno atmosferico di sfumature: rosa, gialle, blu, rosse. Qualche volta, per dare un tocco di imprevisto, aggiungeva al rettangolo della finestra le piante di pelargoni rossi che teneva sul balconcino, unica presenza vegetale nel paesaggio architettonico umano.
Nel corso degli anni, l’uomo di pongo era arrivato così a dipingere ben millesettantaquattro tele, tutte diverse. Essendo così tante, aveva smesso di contarle, ma le teneva tutte registrate sul suo taccuino, aggiornandolo volta volta con l’ultima opera, il titolo e la data di creazione. La Torre era la sua cattedrale di Rouen e lui poteva compiacersi inorgoglito di quanta maestria avesse acquisito tra quelle quattro mura.
Per quanto fosse ossessionato dal colore delle cose e dalle forme della luce – circostanza, questa, che gli faceva provare un’empatia mistica con l’uomo Monet – l’immane mole di lavoro che gravava sulle pareti domestiche era dovuta in realtà al fatto che l’uomo di pongo non era mai uscito dalla sua casa. Come Monet, che aveva ossessionatamente affittato una camera d’albergo di fronte alla cattedrale, l’uomo di pongo si trovava tra quelle mura da così tanto tempo, che, a dire il vero, non ricordava più da quanto fosse lì né se mai fosse stato altrove. E in verità, la cosa aveva assai poca importanza. Nella sua casa di pongo aveva tutto il suo mondo. E la lavorazione dei suoi quadri occupava così freneticamente la totalità del suo tempo, che eran diventate consuetudine le volte in cui si dimenticava di mangiare: non sentiva fame quando dipingeva e non avrebbe avuto neppure bisogno di pause, se il miagolio di Baptiste non gli avesse ricordato che – ahimé – i gatti non sono altrettanto rapiti dall’estasi della creazione come lo sono gli artisti.
Il gatto Baptiste era a tutti gli effetti l’unica compagnia di cui godeva l’uomo di pongo, se si eccettua quella ben più raffinata della Torre Eiffel che faceva capolino dalla finestra. Oltre a non saper più da quanto tempo soggiornava in quella casa, l’uomo di pongo non ricordava nemmeno se mai avesse conosciuto persone. Non parlava con nessuno, se non con Baptiste, e non vedeva nessuno. Sapeva di avere un vicino di casa che gli portava la spesa, ma di lui non conosceva che il nome: Ramier. Monsieur Ramier bussava una volta al giorno alla porta dell’uomo di pongo, quando lasciava sullo zerbino la sporta con la spesa. L’uomo di pongo attendeva il rumore della porta di casa di Monsieur Ramier che si chiudeva, apriva l’uscio, ritirava la busta e lasciava sullo zerbino i soldi della spesa del giorno e la lista delle cose per il giorno dopo. Era un tacito accordo che i due signori avevano stipulato, ma, in tutta onestà, l’uomo di pongo non rammentava proprio come ciò fosse accaduto né da quanto tempo andava avanti. Doveva essere molto, se ne aveva perso memoria.
Probabilmente l’uomo di pongo doveva anche aver avuto una famiglia, dei genitori, perché questo è un incidente che in genere accade alle persone, ma su tutto ciò aveva preso piede l’oblio e, dopo giornate passate a sforzarsi di ricordare, l’uomo di pongo si rassegnava e, sospirando confuso, scrollava le spalle e riprendeva a dipingere. Non sapeva dire se fosse vecchio né quale fosse la sua età precisa, benché dovesse averne una: l’uomo di pongo, da che rammentava, era sempre stato così. Di pongo. Le sue pastose manine verdi avevano modellato tutto ciò di cui si era circondato, compresa la sua stessa casa: le mura stondate, i soffitti, i pavimenti, i mobili e persino il grande tappeto rosso a fiori viola che campeggiava in salotto. Oltre a dare un tocco di vivace colore, la morbida consistenza del pongo esercitava un grande fascino sull’uomo di pongo: era soffice, malleabile e poteva modificare la forma delle cose a suo piacimento, perché non seccava mai. Era l’equivalente plastico della pittura a olio. Ovviamente, quando non era occupato a dipingere la Torre Eiffel – cosa che in realtà rubava quasi tutto il suo tempo – si dilettava a mutare di forma e di dimensione le cose della casa: un divano più lungo, una cuccia più morbida per Baptiste, un cavalletto più alto per dipingere tele più grandi. Non solo, la malleabilità del pongo gli impediva di farsi male quando sbatteva per casa. Sì, perché l’uomo di pongo era sempre stato un tipo un po’ sbadato: vuoi perché si riteneva d’animo artistico, o forse semplicemente perché era stato baciato da uno scarso senso dell’equilibrio, fatto sta che l’uomo di pongo inciampava e sbatteva spesso in ogni dove. Per questo motivo aveva creato la sua casa come un piccolo scrigno di pongo dove, se anche cadeva, le mura tonde lo facevano dolcemente rimbalzare senza farsi male. Egli stesso aveva beneficiato dei vantaggi dell’essere un uomo di pongo, poiché, non indurendosi mai, era diventato insensibile ai dolori fisici delle persone normali, o a quelli di Baptiste (povero, gatto! il suo padrone aveva più volte invano tentato di ricoprirlo di pongo, ma la bestiola pelosa se la svignava non appena ne annusava l’odore fresco).
Tutto sommato l’uomo di pongo si riteneva felice. Nella sua casa di pongo, tra le morbide mura e le tele dipinte, con la compagnia noncurante del gatto Baptiste e della Torre, aveva tutto ciò di cui aveva bisogno. Solo a momenti il suo passato, sospeso come un’ombra di mistero nella sua vita, tornava a fargli visita sotto forma di una sensazione fastidiosa. La notte in special modo, quando si stendeva sul suo lettino di pongo dopo aver rimesso via i colori a olio, gli capitava sovente di essere attanagliato da una terribile quanto inspiegabile angoscia. Proprio nel momento in cui stava per addormentarsi, in quello spazio intangibile in cui la ragione cede il passo all’oblio del sonno, immagini di un sogno ricorrente lo accompagnavano danzanti verso il cammino buio della notte. Passeggiava, l’uomo di pongo, in un luogo che non aveva mai visto. Un luogo grigio, arido, informe. Non c’era niente in quel posto. Solo un pavimento di cemento e pareti, forse. L’uomo di pongo camminava incerto, si guardava intorno, spaesato, smarrito, ma non vedeva null’altro che una nebbia grigia che copriva tutto. Allora allungava il passo cercando di uscire da lì e trovare la strada per la sua casa; si affrettava, marciava, correva. Correva veloce – com’era possibile, si domandava nel sogno? lui non sapeva correre! – correva senza sapere verso dove. Poi a un tratto – cos’era? – un sasso. No, una protuberanza. Un avvallamento. Qualcosa nel pavimento. No, le sue gambe. Le sue gambe cedevano, le ginocchia si piegavano. Una forza sconosciuta lo tirava giù e lui cadeva, cadeva. E nell’attimo in cui stava per toccare il suolo, sapeva che avrebbe urtato qualcosa di duro, che non c’era il suo pavimento di pongo a proteggerlo. Che avrebbe provato dolore. Ma non era possibile, perché l’uomo di pongo non aveva mai provato dolore. Era di pongo, era morbido. Era malleabile e indistruttibile. Eppure, nel sogno conosceva quella sensazione, quella paura razionale poco prima dell’impatto. Cercava di tirarsi su, allungava le braccia tentando di afferrare qualcosa in quella nebbia pesante, alzava i piedi, ma non poteva impedirsi di cadere. Cadeva giù e non poteva farci niente. Il dolore lo avrebbe colpito violento e impietoso. Allora si svegliava di colpo, proprio un istante prima di cadere, in un bagno di sudore, ed era sul suo letto di pongo, avvolto dalla sua coperta viola a quadri gialli e rossi, Baptiste che dormiva nella cuccia ai suoi piedi, le infinite Torri colorate che lo sorvegliavano dalle pareti e le luci di Parigi di notte che lo rassicuravano con il loro caldo sfavillio.
“È solo un sogno, Baptiste. Non ti preoccupare”, sussurrava al suo gatto che, indifferente e sornione, non aveva mai smesso di ronfare beato.
La Torre da lontano lo guardava, illuminata come una regina dalle mille luci della città. Era bella a quell’ora della notte, dorata contro un cielo viola, mentre i tetti d’ardesia intorno diventavano tutt’uno con il colore del firmamento stellato. Solo le luci dei lampioni per le strade e quelle di qualche finestra ancora accese facevano l’occhiolino nel buio della notte, come piccole stelle artificiali sui tetti della città. “Eppure mi manca un quadro della Torre a quest’ora”, si disse l’uomo di pongo mentre scostava la coperta viola. “Devo dipingerla.” E, così dicendo, una notte si alzò dal suo letto, vestito di un pigiama anch’esso viola, appostò il cavalletto, prese una tela intonsa dalle infinite affastellate in un angolo, ve la sistemò sopra, approntò i colori, avvicinò lo sgabello, si mise a sedere. La Torre lo guardava altera in lontananza, abituata alle loro solitarie conversazioni. Un musico per strada suonava un violino nel silenzio notturno, unica delicata compagnia in mezzo al brusio meccanico delle automobili sui boulevard. L’uomo di pongo contemplava fuori dalla finestra sospirando, seduto al suo sgabello. Aveva preso il pennello in mano e si apprestava a sfiorare la tela vergine, quando si accorse di aver dimenticato la lampada che aveva lasciato sul tavolo giallo. “È troppo buio”, disse. “Così non vedo i colori.” L’uomo di pongo si alzò – al buio per non svegliare Baptiste – e si diresse verso il tavolo. Ma quando fu al centro della stanza, la punta del suo piede urtò qualcosa di morbido che non ricordava fosse lì: il tappeto rosso a fiori viola. Gli bastò un attimo per realizzare quello che stava accadendo. Il suo piede aveva inciampato nel bordo del tappeto e, agganciandolo, lo aveva trascinato via con sé. La stanza buia intorno a lui ruotò, l’uomo di pongo piroettò su se stesso, le mani in aria tentarono di afferrare qualcosa. Cadde. Un tonfo sordo e il rumore netto e attutito di qualcosa che si rompeva. L’uomo di pongo aprì gli occhi: il soffitto arancione era nero nel buio della notte. Di fianco a lui, due punti gialli lo fissavano miagolando: Baptiste si era svegliato e lo fissava sinistro. “Oh, non è niente, Baptiste. Io sono di pongo.” In quel momento, una scarica elettrica lo attraversò da parte a parte. Il cuore dell’uomo di pongo si fermò un istante ad ascoltare: il suo corpo, una parte del suo corpo, pulsava impazzita. Sentì caldo e un brivido di freddo. Poi una cosa incontrollabile, una sensazione che lo paralizzò. Un grido squarciò la stanza nera. E il dolore che provò lo fece tremare di paura. Sollevò la testa, sollevò le braccia, sollevò una gamba e poi l’altra. Un altro grido, un altro strazio. Baptiste miagolò spaventato. E in quell’istante, l’uomo di pongo realizzò cos’era quel dolore: la sua gamba era rotta. Era andata in mille pezzi e non si poteva aggiustare. Ma com’era possibile? si domandò mentre le lacrime rigavano le sue guance verdi. Guardò fuori dalla finestra aperta, ma non c’era niente al di fuori del velluto buio della notte. Della Torre, non era visibile nemmeno la punta. Anche il suo amore lo aveva abbandonato. Baptiste era tornato tranquillo a dormire, miagolando infastidito. Dalla penombra delle pareti, le millesettantaquattro riproduzioni lo scrutavano impietose. E mentre il dolore lo faceva piangere, solo, lì su quel tappeto rosso a fiori viola, l’uomo di pongo finalmente capì il triste gioco della sua finzione. Non era morbido, non era eternamente malleabile. Si era seccato, come le tempere su una tela. E l’illusione così a lungo cullata di essere immune alle sofferenze del mondo si abbatté su di lui ancor più dolorosamente della sua gamba rotta.
Non era fatto di pongo. Era fatto di argilla.
Un racconto altamente metafisico, leggibile sotto molti aspetti e profondamente inquietante: è l’individuo che plasma la propria vita o è la vita che ci plasma?
Da leggere magari un paio di volte per cogliere il rapporto fra le cose e l’importanza della creatività.
Non solo Monet stava chiuso a dipingere, ma soprattutto lo fece Morandi che dipinse il suo cortile bolognese decine e decine di volte. Perché ogni momento della vita illumina il proprio orizzonte e ne dà un senso…..perché no? Anche vivere è un’arte.
Grazie Alice per questo tuo commento. E’ davvero intenso e profondo. In un certo senso volevo che trasparisse il dolore latente di chi è costretto a vivere chiusi in un piccolo mondo, potendosi rifugiare solo nel proprio mondo auto-costruito. L’arte è espressione, espressione anche del dolore e della sofferenza. Ma è soprattutto consolazione. In una vita fatta di piccoli dolori e privazioni, solo l’espressione artistica e la creatività consentono una via di fuga metafisica. Bella l’immagine di Morandi nel suo cortile. Ha reso bene il senso di ciò che volevo rappresentare.
Un bel modo di raccontare il dolore dell’ alienazione.
Sicuramente è uno dei racconti più belli che ho letto. E’ scritto con una cura e un ritmo tale da avvolgere e sorpendere continuamente il lettore. Complimenti
Grazie Ivano per il tuo commento. Mi ha particolarmente commossa.
Cara Rita,
trovo che il tuo racconto sia una splendida metafora della precarietà della condizione umana e della forza delle illusioni. Sei riuscita ad emozionarmi profondamente!
Grazie mille, Michela, per questo tuo commento. È davvero bello (anche se so che bello è un aggettivo un po’ inflazionato, non mi viene in mente un termine più appropriato…). Mi dispiace averlo letto solo ora, ma è stato un periodo un po’ caotico e non sono più riuscita a visitare il sito. Mi sono persa un sacco di racconti nel frattempo, ma cercherò di rimediare leggendone un po’, a cominciare dai tuoi!