Racconti nella Rete 2009 “Il tempo suona sempre la sua musica” di Martino Sgobba
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009Era quasi l’una del mattino quando l’orchestra smise di suonare e le luci si affievolirono. Il palco cessò di essere una macchia di luce e la piazza, di colpo, disperse ogni suono. Per qualche minuto restarono soltanto le voci fragili dei pochi vecchi, che erano rimasti ad aspettare il crollo delle note dell’Aida. La piazza era un grande rettangolo segnato da querce prigioniere in ovali di terra. Gli alberi avevano gli occhi bassi, abituati a fissare lo scorrere dei destini, fermi sulla direzione dell’andata e ritorno dei passi perduti.
Anna e Enrico si erano confusi fra la folla per spiare le imperfezioni delle esistenze, per inventare storie partendo da un naso, da una bocca, da una gamba fuorilegge. Collezionare gli sbreghi dei corpi era un loro vecchio gioco.
Terminata la musica, erano rimasti soli in quella notte di fine agosto, col primo fresco alle braccia. Per un momento soli, come pesci a cui è stata tolta l’acqua dal vaso. Lentamente tornarono a occuparsi di se stessi. Camminavano vicini, quasi a sfiorarsi, ma non era ancora tempo di toccarsi. Nemmeno di prendersi per mano: era il tempo del racconto.
Nelle parole, come un’ombra, il sospetto di aver consumato molto e il meglio della provvista di tempo a loro riservata. Il gioco di luci e di buio di quella piazza li aveva visti adolescenti e poi giovani, colorati e grigi, a seconda delle giornate, dei desideri, dei sogni, delle paure, delle labbra incontrate. Sorridendo, si fermarono vicino al loro albero, il loro “ufficio”, dove ogni sera avevano aspettato gli altri amici. Arrivavano prima e andavano via per ultimi. Prima e dopo esistevano insieme. Ma nel gruppo prendevano altre strade. Quando avevano bocche da baciare e fianchi da cingere, o anche un’immaginazione di volto da attendere, si sentivano soltanto amici. Quando le loro mani erano vuote, le riempivano di parole, non capendo che era il loro modo di fare l’amore. Le parole. Avevano avuto una lunga storia di parole. Una coppia di trapezisti della discussione, del nulla ben argomentato.
Parlarono anche quella notte, quando la festa era ormai diventata silenzio. Ciascuno presentò la propria vita raccolta in qualche data, in poche vicende, in dubbie interpretazioni. Lei sistemò in frasi amare figli diventati grandi, figli rimasti piccoli, figli non nati, amori mandati via, rincorsi, persi. Lui elencò con solenne meraviglia le donne che avevano creduto alla sua finta fragilità. Poi, cambiando tono, accarezzando le parole, nominò tutti i figli che lo avevano schivato e tacque sul grande rimpianto di non aver potuto sciogliere alla parola almeno uno di loro.
Un albero dopo l’altro, la luce di un lampione, poi il buio e poi di nuovo la luce. Si guardarono intorno e si accorsero di essere davvero soli. Lui le prese il braccio e si appoggiarono l’uno all’altra. Dopo la piazza, li aspettava il porto, ma prima si fermarono sotto il palco dell’orchestra. Rimasero a osservare quel tempio scrostato, sporco di bianco; salirono i pochi scalini e si ritrovarono sopra, al posto degli orchestrali. Lei avrebbe voluto ballare, ma sapeva che lui avrebbe sorriso un rifiuto. Non sarebbe stato capace di ritmare nemmeno gli occhi. Uno degli enigmi di Enrico. Anna sapeva che era stato un uomo molto amato perché le sue parole sapevano diventare corpo. Quel corpo in pubblico, tuttavia, era sempre stato controllato, refrattario ad ogni ritmo. Inutile chiedergli di ballare. Non lo avrebbe fatto e, di rimando, le avrebbe chiesto di danzare per lui. Ma Anna non ne aveva voglia, perché temeva l’ironia degli anni e già Enrico le aveva afferrato le mani per poter raccontare meglio, per togliere ogni umidità alle frasi, per evitare che qualcuna sgusciasse via.
Scesero dallo spettacolo malinconico di se stessi e percorsero in fretta la diagonale di uscita dalla piazza, mentre la linea più breve fra i loro pensieri era l’arabesco di un antico desiderio che cominciava a riemergere. Era il loro antico segreto: una sera, un desiderio, che aveva ben nascosto l’etichetta di amore, li aveva invasi, spogliandoli di ogni parola. Forse per un sorriso chiuso fuori tempo, forse per una mano liberata con ritardo, i loro diciotto anni erano divenuti gemito nell’auto dove stavano giocando a sillabare — sì no sì no sì no sì — la dispettosa luce del faro. Quella volta si erano lasciati prendere dal desiderio, ma non avevano saputo riconoscerlo. Lo avevano invitato a non tornare più, temendo di perdere molto e, forse, avevano rinunciato a troppo. Avevano recuperato la schermaglia delle parole, ma avevano disertato l’occasione di capire che nessun discorso ha più senso del gemito.
Il molo vecchio era rimasto uguale, con i pescherecci allineati uno accanto all’altro a formare una preghiera di nomi di sante, di madri, di padri. Anna si strinse a Enrico, gli ricordò di quando era stato bravo a inventare d’aver visto un’imbarcazione chiamata Edvige, con un profilo di schiena disegnato appena sopra la linea di galleggiamento. Gli amici si erano precipitati al porto per vederla e trovarono le solite Assunta, Addolorata, Concetta.
Cosa resta nella memoria, se non il gioco, la delusione, l’ironia, gli imbarazzi gravidi di rossore? Enrico le chiese se avesse notizie di Federica, la loro amica lesbica. Era sempre a Torino a psicanalizzare donne frigide? Anna custodiva ancora, da qualche parte, un bacio di Federica, improvviso, lungo e feroce, come il bacio che sa di essere il primo e l’ultimo. Era stata corteggiata a lungo da Federica e si era ritrovata ad aspettarla la sera per non deluderla. Ma quel bacio aveva aperto e chiuso la porta.
Dopo Federica, quando il molo cominciava a diventare faro, i loro ricordi accolsero Giorgio. Lo avevano intravisto poche ore prima, seduto su una panchina. Guardava niente e pensava tutto, come capita a chi ha perso se stesso dietro tanti pensieri. Non si erano fermati. La pietà è anche evitare di sentirsi in salvo a poco prezzo, con inutili parole di conforto. Enrico aveva conosciuto Giorgio in treno. Stava leggendo Le parole di Sartre. Giorgio gli si era avvicinato e, mostrando le cicatrici ai polsi, gli aveva chiesto se la filosofia servisse a imparare a vivere. Cominciarono a parlare e smisero due o tre anni dopo, quando l’amico fragile, una notte, fu accusato da Dio di non saper vivere e chiese di essere accompagnato in clinica. Viaggiarono in auto fino a Roma, senza dire una parola. Il rumore del cancello trasformò Giorgio in lettere sempre meno frequenti e infine soltanto attese. Anna era andata con loro e, durante il ritorno, pianse a lungo tenendo la mano di Enrico.
Arrivarono al faro e, per quella sera di vacanza dal presente, non c’era più tempo per le altre vite che bussavano alla porta della memoria. Sì no sì no sì no… no. In silenzio, ripresero a distillare i passi sulla via del ritorno. La piazza riapparve di colpo, grande, con i lecci addormentati, con le luci sempre più perse nel buio. Solo Giorgio ancora seduto: per lui, un musico assente continuava a battere sempre la stessa nota.
…L’assordante battito del tempo diventa musica nei ricordi….
Commoventi le immagini, in particolare quella del molo che diventa faro…
Bello, molto…