Premio Racconti nella Rete 2011 “Ultime notizie dalla California” di Chiara Sessa
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2011Tutte le mattine lo stesso rito: faccio la doccia, mi preparo il tè bollente, metto di fianco alla tazza quattro biscotti ai cereali e guardo le notizie del giorno. Comincio con le foto sulle pagine del Corriere: Berlusconi appisolato in parlamento, la Moratti che inaugura una mostra, un paese di nonsopiùdove cancellato da un torrente di fango. Leggo le didascalie, raramente gli articoli.
Prima di iniziare a lavorare, apro un’altra finestra sul mondo. Accendo il pc e passo in rassegna i siti dei quotidiani stranieri. The Guardian, Le Monde, Liberation, New York Times, El Paìs… Stesso rituale della carta stampata: guardo la foto, leggo titolo e didascalia. La notizia è tutta concentrata in quel grumo di colori e lettere. Perdersi nelle paginate scritte è inutile. A volte dannoso. Confonde, fa nascere dubbi che devi risolvere. Non ne esci più. Passi da un sito all’altro alla ricerca di chiarimenti fino all’ora di pranzo con la testa come a un frullatore alla velocità massima. Non mi posso permettere di sprecare tempo. Le traduzioni le pagano (poco) a cartella: più produco, più guadagno. La catena di montaggio della cultura.
Stamattina, però, mi sono fermata un po’ troppo sulla prima pagina del Los Angeles Times. Da 30 secondi ho gli occhi appiccicati a una foto e non riesco a staccarli: c’è qualcuno che conosco, regge un cartello durante una manifestazione. Dietro vedo le palme di West Hollywood. Zoom sul viso: un ragazzino che ha passato i 40 anni. Qualche ruga in più, gli occhialini da intellettuale, il cespuglio di capelli è diventato un ordinato prato all’inglese. Leggo lo slogan sul cartello.
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Avevo conosciuto Sergio sui banchi del liceo, ma me ne ero innamorata all’università. Io avevo scelto lingue, lui filosofia. Eravamo diventati inseparabili: cinema, teatro, concerti, cene in trattorie da pochi soldi. Stessi interessi, grandi speranze. Una coppia perfetta. A parte il fatto che non stavamo insieme. Sergio mi cercava in continuazione, io cercavo lui, ma la scintilla non scoccava.
Per scintilla intendo il contatto fisico, il bacio, la notte di sesso selvaggio o qualcosa di simile.
«Che devo fare?» chiedevo affranta alle amiche.
«È timido, abbi pazienza». «Ha paura di rovinare un’amicizia di lunga data». «Saltagli addosso tu, siamo quasi nel 2000, non deve mica essere sempre l’uomo a prendere l’iniziativa». «Cercati uno con più muscoli e meno cervello».
Tra dubbi e consigli era arrivato Capodanno, il Capodanno del 1989.
Eravamo in dieci, nella casa sul lago di Anna, inseparabile compagna di avventure dalle elementari. Ma non eravamo una comitiva di vecchi amici. Come capita spesso la sera del 31 dicembre, alcuni si conoscevano bene, altri si vedevano per la prima volta. Davanti al camino, accendevamo una sigaretta dietro l’altra e chiacchieravamo in attesa della mezzanotte. Simona si lamentava perché aveva le lenti a contatto e il fumo le faceva bruciare gli occhi; Giulia, che non la sopportava, anche se si erano presentate solo un paio d’ore prima, gettava piatti di plastica sul fuoco con costanza e perfidia. Uno ogni cinque minuti.
Le voci di Antonio e Luigi, infervorati in una discussione sul crollo del Muro, mi arrivavano attutite. Sergio era seduto accanto a me sul divano e conversava pacatamente con qualcuno di fronte a lui; la sua gamba ogni tanto faceva una leggera pressione sulla mia. Per caso o per calcolo? Alle 23.30 avevo già bevuto tre bicchieri di prosecco, una quantità imprecisata di un rosso siciliano ad alta gradazione ed ero certa che quella sarebbe stata la volta buona.
Un paio d’ore dopo il brindisi eravamo seduti per terra, abbracciati alla stufa del primo piano, unica fonte di calore, oltre al camino, nella cascina di pietra. Sergio mi accarezzava la mano e io farfugliavo qualcosa su quanto lui era importante per me.
«Anche tu conti molto per me, sei la mia più cara amica». Cominciai a piangere. Le lacrime mi riscaldavano le guance, le mani erano ghiacciate. Benvenuto 1990.
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Avrei dovuto capire, avrei dovuto abbandonare l’impresa. Ma allora pensavo che la forza di volontà potesse piegare tutto, come lo sguardo magnetico di Uri Geller deformava i cucchiai in televisione.
Quindi, ecco le vacanze di Pasqua. A Napoli, a casa di Antonio, il ragazzo di Simona. La finta doppia coppia va in gita a Capri. Siamo in piazzetta e ci atteggiamo a ricchi habituées con villa sui faraglioni. Parliamo con la erre moscia del party che abbiamo «ovganizzato» per quella «seva». Ridiamo, camminiamo, sudiamo un po’. Poi tutto scompare, anche Antonio e Simona. Nella scena successiva sono sdraiata su un muretto con la testa appoggiata sulle gambe di Sergio. Silenzio, cinguettii lontani e all’improvviso qualcosa tra i capelli. Scrollo la testa come per allontanare un tafano o una foglia secca.
«Che cosa stai facendo, stupido?!?». Con quella frase ironica, mormorata con la voce di una ragazzina stizzita, Sergio dà la sua interpretazione del mio gesto; solo in quel momento mi rendo conto che tra i miei capelli c’era la sua mano. C’era, ma è stata ritirata in fretta e furia. Come ho fatto a pensare che fosse una foglia secca? Siamo pure in aprile… Nel mio cervello c’è un tumulto, ma dalla bocca non esce una parola. Le mie corde vocali riprendono servizio solo sul traghetto di ritorno.
Ho rivisto la scena alla moviola un migliaio di volte, ho pensato centinaia di risposte diverse, ma era tardi per modificare qualcosa. Per Woody Allen forse quello sarebbe stato il match point. La pallina, però, era rimasta sospesa sulla rete.
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Riporto la foto del Los Angeles Times alla dimensione 100%.
Sono dieci anni che Sergio vive in California e insegna italiano alla Ucla University. Non sono mai andata a trovarlo e a un certo punto si è interrotta anche la corrispondenza via mail.
Per un periodo piuttosto lungo mi sono chiesta come mai tra di noi non fosse successo niente. Le risposte più frequenti erano due: «Ti sei lasciata sfuggire la Grande Occasione di Capri» e «Lui è un pavido, che getta il sasso e ritira la mano». Poi la mia vita ha accelerato il suo corso. Matrimonio, divorzio, niente figli, un lavoro precario, ma l’unico che voglio fare… La non-storia con Sergio è finita archiviata sotto la voce «amori sfortunati di gioventù». Dimenticata senza nessuna postilla di spiegazione. Almeno fino a oggi.
Non avevo mai preso in considerazione l’ipotesi che ora è davanti ai miei occhi, in quell’immagine che arriva dalla California. È stata scattata durante una manifestazione per sostenere il diritto di matrimonio tra gay. Sergio cinge le spalle di un ragazzo allampanato con il sorriso aperto e bianchissimo; il suo sguardo è una sfida a chi è dietro l’obiettivo o davanti al pc. Il cartello dice «Non ti innamori di un uomo o di una donna, ti innamori della loro anima».
Il frullatore mentale si è avviato improvvisamente e ora è in piena attività. Apro la mail, da qualche parte ho ancora l’indirizzo di Sergio. Se lo trovo, gli scrivo così gli chiedo se era la mia anima o il mio involucro che non andavano. Vorrei chiudere definitivamente il fascicolo aperto più di dieci anni fa come in Cold Cases e allontanarmi dall’archivio con il sorriso soddisfatto di chi ha una soluzione qualunque in mano. Guardo l’orologio, sono già le 11 e non ho ancora tradotto una riga. Vabbè, mi metto un post it elettronico e gli scrivo domani.
Trasmette perfettamente un dolce rimpianto
amarezza… : /
Spesso le donne difficilmente colgono gli scricchiolii più o meno grandi che talvolta manifesta il comportamento dell’uomo di cui esse si sono innamorate.
Donne che forse addirittura adorano crogiolarsi dentro false speranze, raccontano piccole bugie a loro stesse, come per rassicurarsi che quello li è
imposssibile non sia l’uomo giusto!
Mi sembra un bel racconto che ci ricorda quanto sia difficile orientarsi nel labirinto delle emozioni che l’amore, più o meno ricambiato, suscita nel nostro animo.
La lettura di quell’articolo sul giornale rievoca una girandola di ricordi.
Emozione, speranza, delusione e amarezza sono stati descritti molto bene.
Certo che Woody Allen avrebbe detto bene: quella “grande occasione di Capri” era effettivamente la pallina del match point: è rimasta sulla rete e quella partita è andata persa.
Nel racconto se ne percepisce bene il rimpianto.
Così, alla fine, resta una domanda irrisolta e la voglia di chiudere definitivamente quel fascicolo.
Ma il finale è abbastanza aperto e lascia la possibilità che si possa iniziare un’altra partita, da giocare forse su un terreno diverso, rispetto a quello a lungo immaginato.
Nikki Simonetti
Gioacchino De Padova
Quel mare mai navigato che, perlomeno su una determinata rotta, la protagonista non poteva oggettivamente navigare, avrebbe potuto solcarlo attraverso una via alternativa, quella dell’amicizia e delle affinità elettive. Ma così non è stato ed ecco che arriva fatalmente il momento in cui si tirano le somme, che inducono all’amarezza, ma forse lasciano anche un piccolo spazio alla speranza. Domani chissà, forse si potrà riannodare nel modo giusto quel filo. Il racconto, ben costruito, comunica rimpianto ed una diffusa malinconia.
Le storie raccontate bene spesso diventano più vere di quelle accadute e anche di quelle immaginate