Premio Racconti nella Rete 2011 “Sull’importanza di avere ragione” di Bruno Della Queva
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2011Nessuno sceglie mai niente
Mentre lui si infila le mutande, i jeans e una maglietta nera di cotone, lei resta sdraiata sull’asciugamano, ancora nuda, a fissare la luce del sole che filtra dalle cinque dita della mano destra sollevata in aria; poi cerca di abbracciare il cielo con uno sguardo, alla ricerca di un qualche segnale. Ma il cielo è straordinariamente limpido. Vorrebbe imprimere sulla retina questa immagine: un cielo limpido e sgombero, del tutto privo di segnali. Vorrebbe inscriverla nella memoria a lungo termine e conservarla per sempre.
– Allora, guarda un po’ cosa ho trovato gironzolando di casa in casa – dice lui tirando fuori dallo zaino una grande tovaglia bianca piegata .
Lei volta la testa di lato, poggia l’avambraccio destro sulla tempia e chiude gli occhi; il goffo entusiasmo di lui la infastidisce, lo trova fuori luogo, grottesco e soprattutto inutile.
– Wow, una tovaglia – gli risponde con voce atona e continuando a tenere gli occhi chiusi.
Lui ammutolisce, inspira una grande quantità d’aria dalle narici e la butta fuori dalla bocca, poi inizia a stendere la tovaglia sull’erba secca. Come reagire? Gli sembra di avere solo due possibilità: la prima è ignorarla: tirare fuori la roba dallo zaino, iniziare a mangiare e restare in silenzio fino alla fine, fino all’ultimo frammento di tempo disponibile; la seconda è attaccarla: scaraventare lo zaino in lontananza, aggredirla verbalmente, insultarla, e – perché no? – picchiarla; afferrarla per i capelli con una mano, serrarle il polso destro con l’altra e poi trascinarla via da quell’asciugamano e buttarla in mezzo alle sterpaglie. Chi potrebbe dargli torto?
Di nuovo inspira una grande quantità d’aria dalle narici – E chi potrebbe dare torto a lei? – pensa mentre le guance si sgonfiano spingendo via l’aria attraverso gli incisivi.
No. Lei ha ragione e io ho torto, ecco tutto. Lei ha tutte le ragioni.
Finisce di stendere la tovaglia sul terreno, ne tira gli angoli; con le due mani ne appiattisce la superficie bianca per eliminare le pieghe. Desidera che tutto sia perfetto, oggi. Lei intanto si è sdraiata su un fianco, liberando una striscia di spazio sull’asciugamano. Lo legge come un invito a sedersi lì, vicino a lei. Lei è così: parla col corpo, e col corpo ha lanciato un segnale. Ora sta a lui: sedersi o non sedersi?
– Togliti i jeans, – dice quando lo sente avvicinarsi – non voglio che ti siedi con i jeans sporchi sull’asciugamano.
– Oh, certo – risponde lui sollevando la gamba sinistra finché il collo del piede non arriva all’altezza del ginocchio – non metterei mai a rischio la nostra salute violando le santissime norme dell’igiene – e si toglie la prima scarpa.
Ora lui è seduto, in mutande e maglietta, sul bordo dell’asciugamano; ha le piante dei piedi poggiate sul terreno, anche se non è igienico, e le ginocchia all’altezza del petto. Le volta le spalle.
Riavvicinarsi non è mai cosa semplice, bisogna saper dosare i silenzi, le parole e i gesti; bisogna saperli comporre.
Il silenzio: il denso silenzio che li separa – rappresentato dall’immagine delle due schiene, una nuda e una coperta, contrapposte e mute – crea lo spazio vuoto in cui un gesto può assumere significato.
Il gesto: lui si sdraia su un fianco facendo aderire il suo petto alla schiena nuda di lei, il suo bacino al bacino nudo di lei, le sue gambe alle gambe nude di lei; le poggia una mano su un fianco, mentre con l’altra si regge la testa.
Le parole: – Cerchiamo di stare bene per il tempo che ci rimane. Possiamo ancora essere felici, sai? Possiamo ancora scegliere: passare la giornata a deprimerci, compiangerci, strapparci i capelli, pregare Dio o chissà cos’altro; oppure provare a stare bene ancora un po’, prenderci cura l’uno dell’altro. Almeno per oggi. Possiamo scegliere.
– Non è vero – dice lei – Noi non scegliamo mai niente – e mentre gli prende la mano e la fa scivolare dal fianco verso il ventre morbido per poi farla salire fino al seno, e lui sente il suo membro gonfiarsi e indurirsi, e premere attraverso le mutande contro le natiche di lei; mentre lui prova vergogna per un’erezione che giudica assolutamente inopportuna; mentre la vergogna non fa che aumentare l’eccitazione e irrorare altro sangue nei corpi cavernosi del suo pene, costringendolo ad allontanare il bacino; mentre lei spinge indietro il suo di bacino fino a quando lui non sente il pene piegarsi verso il basso e scivolare lungo il solco che le separa le natiche; lui capisce che è vero, che lei, ancora una volta, ha ragione: nessuno sceglie mai niente, le cose vanno semplicemente come devono andare.
2. Un quieto senso di soddisfazione
Nonostante fosse ormai certo che le cose sarebbero andate per il peggio – e che peggio! –, il professor X, fisico controverso, discusso e discutibile, votato a un roboante sensazionalismo che lo faceva apparire agli occhi dei suoi autorevoli colleghi più simile a un insetto troppo ronzante e molto fastidioso che non a un loro pari, era al culmine della felicità; ed era al culmine della felicità per il solo e semplice fatto che lui, il professor X, lo aveva detto, lo aveva previsto che le cose sarebbero andate per il peggio.
La felicità del professor X, così simile all’estasi del profeta che non si cura tanto del contenuto catastrofico quanto dell’esattezza della propria profezia, aveva alcune conseguenze: la prima era che ogni cosa gli appariva ammantata di una gradevole e limpida sfumatura di azzurro: i calzini color salmone che portava ai piedi quando aveva letto la mail inviatagli da un collega del CERN; le dita ingiallite dal fumo che picchiettavano frenetiche sulla tastiera nel preparare messaggi da spedire alla stampa, ai colleghi, al mondo intero (perché tutti dovevano sapere che lui lo aveva previsto, che lui, il professor X, aveva sempre avuto ragione); il grigio malinconico con cui lui stesso anni prima aveva tinteggiato le pareti spoglie del suo studio; lo smalto bianco del fornello a gas su cui ogni mattina si raccoglievano, stratificandosi in differenti gradazioni di marrone, macchie di caffè di forma squisitamente irregolare. Sì, tutto appariva azzurro al professor X.
La seconda conseguenza era un’ipertrofia dell’ego che gli si gonfiava a ritmi tali da fargli immaginare di poter fagocitare la terra molto prima di quanto non avrebbe fatto il buco nero.
Infine, terza conseguenza, lo colse una certa irrequietezza motoria che gli impediva di star fermo nel godere della sventurata precisione dei suoi calcoli, costringendolo a rimbalzare da una parete all’altra del suo studio come quelle macchinine che incontrato un ostacolo non se ne curano, girano di centottanta gradi su se stesse e continuano a disegnare traiettorie rettilinee fino all’esaurimento delle batterie.
Quando gli oggetti tornarono del loro colore, l’ego all’interno dei suoi confini e le gambe a riposo, quando insomma la felicità si consumò, il professor X lasciò scivolare il sedere ossuto sulla seduta di pelle della sua poltroncina da ufficio fino a farlo arrivare sul bordo. Distese la schiena, si sgranchì le gambe e incrociò le dita delle mani sul ventre asciutto. Si chiese cosa provasse. E si rispose. Non aveva paura, non provava terrore, non sentiva rabbia. Tutto il suo sentire era concentrato in un corpo minuscolo e di straordinaria densità, nascosto tra le pieghe e le circonvoluzioni dei circuiti cerebrali, e da lì inviava ad ogni cellula un quieto senso di soddisfazione e nient’altro. Non provava nient’altro.
Così, le parole della mail, che pure continuavano a scorrergli nella mente come i titoli in sovrimpressione di un programma televisivo guardato per noia, finirono per perdere di significato. D’altra parte niente avrebbe più avuto significato. Ma quel quieto senso di soddisfazione – ne era certo – si sarebbe inscritto nel suo corpo fino al livello più infimo e sconosciuto della materia, e avrebbe lasciato in questo modo una traccia nell’universo.
E solo questo aveva importanza per il professor X.
Due storie solo apparentemente slegate, si fondono in un unico quadro; due facce dello stesso mondo: uno ordinario, l’altro complesso. Modi diversi di avere ragione, ma interconnessi tra loro, legati dal fatto che quest’ultima, con poche eccezioni, non può che stare da una sola parte che a volte non ci piace. Tifiamo allora per l’altra, quella contraria, perdente, lo facciamo pur sapendo che il nostro è un tentativo vano di cambiare una dura realtà, ma la ragione ha a che fare col reale e pertanto, sfortunatamente, questo finirà per imporsi al di là del sentimentio e dei nostri irrazionali desideri.