Premio Racconti nella Rete 2011 “Il mio tempo non è altrove” di Flavia Barsotti
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2011Sono fiamme, queste, che mi lasciano dentro il gelo; sono graffi da cui esce bile; tintinnii nella testa di una povera vecchia. Gli anni si materializzano, come illogiche forme di geometrie irrazionali, e mordono quel poco del tempo che ci è rimasto insieme. Fa male.
Mi concedo la sigaretta mattutina. Quella roba, in fondo, è sempre riuscita a mettere a tacere, senza fatica, i campanelli d’allarme che mi tormentavano; a stendere a tappeto il dolore, almeno per quei pochi minuti, e a liberarmi. Per qualcuno è un vizio, per me è solo sfogo.
Mi sforzo di attaccarmi all’amore che c’è anche quando Lui riesce a muoversi a stento, anche quando vorrei urlargli in faccia che non è un bambino, ha 78 anni e dovrebbe sapere che per mangiare si usa la forchetta e non il telecomando! Mi sforzo di non tremare, quando lo vedo sgretolarsi, di giorno in giorno, dimenticare il passato, dimenticare la vita con me.
Ascolto qualche attimo il respiro della casa prima di dare inizio ad un’altra instancabile giornata. E’ sottile e fresco a tratti, per altri angusto, ma avvolgente ed il profumo è quello di sempre, quello intatto, inconfondibile a cui mischiare il mio. Dopo aver spalancato le finestre al mattino, come un polmone pulsante, mi dà l’ossigeno quando mi sento affogare, un ossigeno camuffato, un ossigeno che sa di luogo sacro. Il mio nido.
Nascondo la paura nelle vene e vado a svegliarlo, di buon’ ora, come di consueto. Lo aiuto a vestirsi, lo aiuto. In realtà, mi racconto di aiutarlo e basta, ma come posso darla a bere a me stessa? Lui non muove un dito. Si lascia fare di tutto, come se il pudore e la vergogna di un tempo con cui mi diceva “spegni la luce, non stanno bene certe cose”, si fossero sminuzzati in un climax discendente di illusa dignità.
Con pazienza, lo aiuto ad alzarsi. Già, lo “aiuto”, di nuovo. Lo calo in poltrona e gli parlo. Alcune sono parole al vento, altre mi muoiono in gola, altre ancora mi strozzano fino a mozzarmi il fiato. Qualcuna gli piace, sembra che gli sia familiare. Non so esattamente cosa lo colpisca: forse il suono, forse l’enfasi con cui le pronuncio. Sono quelle che sanno di noi. Gli racconto quasi sempre di come ci siamo conosciuti, di quanto facesse freddo quel pomeriggio di novembre e di come, in un istante, Lui mi avesse scaldato il cuore.
Mi guarda. Di tanto in tanto ripete l’ultima parola che pronuncio e poi sorride. Chissà se sia davvero felice? Chissà.
Tiro fuori l’album invecchiato dal cassetto e glielo cedo fra le mani, come al solito. Volto le pagine, come sipari di un mondo che non esiste più, e, dalla prima all’ultima foto, lo esaminiamo tutto.
Una routine che non mi stanco di fare. Una routine che sa di speranza. Temo che il tempo si dilati, che le distanze si allunghino e la memoria scada. Temo che finirà per dimenticarsi di me, come ricoperta da uno strato compatto di polvere. Quando la realtà sfuma, diventa ricordo, ma quando il ricordo sfuma, diventa buio.
Gli prendo le mani. La fede abbraccia il suo anulare fino a stringergli un poco. Mi smuovo. Non è un sussulto, è piuttosto una sensazione affabile quanto penetrante, come una carezza che mi entra dentro, un gesto che, frattanto, mi porta via le viscere e mi lascia vuota. Allora gli fisso gli occhi un po’ d’ambra, un po’ di smeraldo, gli unici che le rughe non abbiano offuscato, quelli che ritrovo sempre, quelli che il filo di seta fra passato, presente e futuro, ha unito ai miei.
Un nuovo giorno, l’una di fianco all’altro.
Guardo le nuvole zingare fuori dalla finestra combinarsi in una lattiginosa schiuma arancione. Si danno un’anima e se la tolgono, la riprendono e la cacciano di nuovo fuori. Lascio che le allucinazioni guidino la mia fantasia indisciplinata con sapienti giochi di prestigio; vedo convergere draghi, orsi di panna montata e fenicotteri di velluto che si nascondono fra le loro piume. Subito si sfilacciano nelle ali di una morbida libellula, abbandonata ad una danza misteriosa. Questo vetro grigiastro che non pulisco da tempo, mi separa dall’accarezzarla. Sul bordo della mia bocca compare una smorfia, un peccaminoso, malinconico sorriso raro, come se, per un attimo, mi sentissi un po’ nuvola anch’ io. Libera.
Ci sono giorni, in cui il desiderio di evadere è talmente forte da struggermi il cuore. Mi prende dentro, il vuoto si allarga e, ingordo, mi mangia l’anima dalla testa ai piedi. Allora, un tremito violento, quasi uno spasmo, solitamente mi scuote ed io rinsavisco, come se in un attimo tutto ciò che quella malattia ha consumato, possa rigenerarsi e, in questo modo, io riprenda fiato.
Prigioniera forse del dolore. Schiava di una sorte ostile. Eppure, è il mio dolore, è la mia sorte a farmi scivolare fra le sbarre, a farmi apprezzare l’ “ora d’aria” in cui lo vedo più sereno e partecipe. Dico che, frattanto, sia questa la mia libertà, prerogativa di pochi.
Offro il mio sguardo al passato. Nostalgia sterile, come quella di un’anziana signora che ritrova le sue bambole di pezza.
Quando ero piccola, mi tempestavo di domande sulla mia esistenza, quasi cercassi la mia origine, quasi bramassi di sapere il mio futuro. Non ho mai saputo molto della mia famiglia, Lui è sempre stata la mia famiglia.
Mio padre non parlava di mia madre. L’ho capito che se l’ha fatto è stato solo per salvarsi la vita, per non morire quel giorno, anche perché era lo stesso in cui, grazie a me, per la prima volta, viveva davvero. La fine di una vita, l’inizio di un’altra.
Ha detto di avermi chiamata come mia madre perché, in realtà, il 20 novembre lei non moriva, aveva solo iniziato ad esistere in un altro corpo, il mio. Oggi dunque, sono Sofia anche se questo non è il nome che avevano scelto insieme. Avrei dovuto chiamarmi Giuditta o forse Caterina. A volte sono felice di essere Sofia, mi affascina per il suo significato, “saggezza, sapienza” e me ne faccio forte, altre mi sembra di guardarmi dentro uno specchio opaco.
Mi torna alla mente quando ero io una piccola donna col pancione e attendevo fremente di vedere nostra figlia. Decido di raccontarlo a Lui, di quando, a sua volta, attendeva fremente.
Mi ricordo quel tempo, seduto sulla panchina appena fuori dalla stazione, Lui mi fissava dall’altro lato della strada, come se fossi arrivata da molto lontano. Portavo in grembo la nostra bambina.
“Già allora tu eri sicuro: sarebbe stata una bambina”.
<<…“Quant’è bella, è la mia donna e quella è la mia bambina. Non ho mai visto tanto come quando le guardo, sono la mia salvezza” andavi dicendo, fiero. Adoravi la rotondità della mia pancia e sorridevi raggiante. Sorvegliavi i miei occhi – custodi di un intimo mistero – affondandovi i tuoi, come alla ricerca di qualcosa, come se ci fosse stata dentro un’altra vita. Fu la volta in cui, il tuo silenzio mi parlò di tutto. Tu tacesti, ma io capii.>> Non puoi nascondere qualcosa ad una donna, ti scopre sempre, soprattutto se è la tua donna e se è incinta, di un’altra donna.
E’ di nuovo mattina. Ho già fumato la sigaretta, l’ho già vestito e siamo entrambi seduti. Mi fissa.
Io lo cerco. Crudelmente mi pugnalo il cuore quando me ne accorgo. Non è più Lui.
Non sono stata in grado di salvarlo. Avevo promesso di prendermene cura, quel giorno. Lui, aveva promesso di fare mio tutto quanto possedesse. Così ha fatto, mentre io non sono riuscita a liberarlo dalla sua malattia. L’ho incolpato, troppo spesso. Gli ho dato ordini e gli ho urlato parole forti quando gli domandavo di portare l’acqua in tavola e non trovava la porta della cucina. L’ho sgridato con virulenza quando non ricordava il proprio nome o confondeva uno dei nipoti con un estraneo.
“Stamani ti lascio riposare. Sono solo una vecchia egoista che non ha mantenuto una promessa.”
Abbasso lo sguardo e lo attacco al pavimento violaceo. Quanti screzi abbiamo avuto per il colore di quelle mattonelle! Io volevo il viola, mi ricordava la mia casa natale; Lui, un più classico legno di quercia. Alla fine, cedette, me la dette vinta, dicendo “Sembra essere così importante per te..”.
E lo era.
Stamani sono qui, ho il mio pavimento violaceo, ma non ho più Lui. Mio marito.
Gocce di tempesta estiva, di quelle che non ti aspetteresti mai, si increspano fra le rughe del mio volto spento. La prima volta.
Ossessivi i ricordi solcano il mio corpo, li sento freddi. Si diffondono come fa una macchia su una camicia. Partono dalla punta del piede e si accavallano nel collo. Si ammazzano fra le mie labbra che tormento mordicchiando, ferocemente affamata di un’altra possibilità, di una nuova vita da rifare.
Eccoli. C’è tutto, anche i singhiozzi, il naso che prude, quasi informicolito e gli occhi tanto imbevuti che guardano senza vedere.
Come la tela di Penelope che di giorno tesseva e di notte disfaceva, allo stesso modo, il tempo tesse la trama della vita perdendo via via qualche maglia. Ed è così che funziona, in un attimo te la trovi davanti, quella vita, come un girasole che si volge a mezzogiorno, come se volesse farsi vedere meglio e tu, che a lungo te l’eri portata addosso, solo allora, la senti davvero.
In un grande pinzimonio di emozioni aguzze e disgraziate, una donna fissa il pavimento violaceo.
Poi esce fuori il legame in una voce, indissolubile, impermeabile ai pianti, al tempo e a quel che sarà… Una vibrazione acuta e, al contrario, flebile, ma schietta; un movimento estraneo, una capriola all’indietro, un risveglio dopo un’anestesia.
Un desiderio che avvera un sogno: è lì che lo ritrova. Lui. “Ti è sempre piaciuto quel pavimento, amore..”
Le strappa un sorriso limpido, così come la sua emozione, leggiadro. E’ allora che capisce.
E’ una guerra, questa, uno scontro epico che si consuma fra bene e male. A lungo, quell’ostile nemico, si è accanito su di Lui. Ha cercato di togliere significato al suo sentimento, di soffocare il giudizio e infilzarne la dignità; ha cancellato, con una passata, fette di una vita intera, come fa una cimosa su una lavagna scritta; ha divorato, sminuito e negato sacrifici e passioni, anni fecondi e paure, ma non è riuscito ad estirpare il nobile fiore che Lui aveva cresciuto in sé, in quella dimensione incontaminata, oasi felice del suo cuore. Quanto è inciso dentro, profondo e radicato, nemmeno il più terribile dei mali potrà mai fare proprio: comunque vada, ha già perso in partenza.
<<Nemmeno la morte.>> Si risponde Lei.
Intenso e reale. Violentemente rappresentativo della vita.
Racconta molto nell’immobilità di un quotidiano pieno di coraggio, ma è positivo.
Un modo coinvolgente, efficace ed istruttivo per parlare di decadimento cognitivo. La storia ripercorre tutte le tappe di un tragico evento spartiacque che cambia profondamente la vita e i sentimenti delle persone. Sia di chi prova direttamente, sulla propria pelle, i ogni giorno, in un crescendo sempre più drammatico, che i propri pensieri ed i ricordi, progressivamente lo stanno abbandonando; sia di chi ne ha condiviso una significativa parte dell’ esistenza e si ritrova infine a fianco qualcuno che non sembra più la stessa persona di un tempo. Nel momento in cui un nostro caro entra nel tunnel dell’Alzheimer ne veniamo scossi sin nel profondo. Allora è un susseguirsi di sentimenti diversi e cangianti. All’inizio ci arrabbiamo, attribuiamo volontarietà a quelle che ci appaiono come colpevoli trascuratezze o pigrizie; non accettiamo che siano gli ineluttabili sintomi della malattia. Conosciamo poi momenti di profondo sconforto. Infine può però anche accadere, come nella bella storia descritta, che ci si riconcili con se stessi e con chi si è amato , che si continuerà ad amare adattandosi a quella sua nuova modalità di essere. Tutto ciò può succedere allorché il sentimento risulta più forte del più grande dei mali, vince su di esso aiutandoci ad affrontare quotidiani e gravosi impegni. Un grazie all’autrice per aver saputo raggiungere i nostri cuori e le nostre menti.