Premio Racconti nella Rete 2025 “Il fantasma di Perugia” di Elena Ezhova
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025Io non ricordo che occhi avevi
L’ultima volta che ti ho parlato;
Ma io sono stato.
Era il primo giorno di primavera. Le date, i periodi dell’anno, le stagioni – tutte sono solo concetti inventati dalla gente. E il tempo quel giorno non era d’accordo con il calendario: il cielo era grigio, come d’autunno. Stavo camminando da sola in città di mattina. Il tempo, come gli abitanti della nostra città, non si era ancora svegliato, passava lentamente, assonnato, a malincuore.
Sentivo che io e la città eravamo diventati una unitaria essenza. Per la città ero una piccola foglia, portata dal vento casualmente ed ero atterrata sulle pietre fredde del ponte medievale. E la città per me era un cappuccino, versato diritto nel mio cuore e mi riempieva di caldo.
Credo che esiste una relazione tra l’uomo e la città – amicizia, inimicizia, simpatia, amore. Quella mattina la città ed io ci siamo conosciuti meglio, ci siamo avvicinati l’uno all’altro. La città mi ha vezzeggiato coccolato e mi ha rallegrato, nonostante il cielo fosse coperto dalle nuvole.
Ho sentito il cinguettio degli uccelli, qui gli uccelli sono insoliti: cantano di notte, cantano quando c`e la pioggia, cantano quando fa freddo, cantano anche quando non vogliono cantare. Il cinguettio degli uccellini è il primo regalo della mia città amata. Andavo su e giù per le scale interminabili, che ho tante volte sognato prima. In un piccolo cortile carino il melo ha allungato i rami sottili e aggraziati, già decorati con delicati fiori rosi. Improvvisamente il vento è venuto, ha toccato tutti i rami, correva attraverso di loro come una mano di pianista corre sotto i tasti, è stato meraviglioso! I piccoli petali come le barche da pesca, ondeggiavano in aria come tra le onde, lentamente cadevano sui miei capelli. Mi sembravo che io fossi una principessa dal “La danza di fiori” di Tchaikovsky. Questo è il secondo regalo della mia città amata.
Io camminavo per le strade strette senza alcun intento, ammiravo il panorama – una favolosa vista di una valle dalla collina che ha dato un ricovero alla città.
Il giocoso vento non riusciva a smettere, confondeva i miei capelli, buttatava le foglie di acero e gli annunci strappati sotto i miei piedi. Sentivo l’odore del mare. Sembrava che apenna girata la strada si potesse vedere il mare.
La sera ho deciso di andare al bar per un concerto del gruppo locale.
All’inizio le cose sono andate male. Non avevo nessuno con cui potessi parlare, la musica era come una cacofonia, pero il cantante piaceva molto la sua canzone, a volte ha anche chiuso gli occhi e godendo della bellezza della sua stessa voce. Un gruppo di studenti celebrava la laurea, o il compleanno di uno di loro. Gli studenti correvano sempre avanti e indietro, non ascoltando il musicista poveretto, chiacchierando e ridendo.
Il mio amico barista Alessandro flirtava con due ragazze davanti a me. “Certo, in Italia questo è normale ma non sono ancora abbastanza abituata ai modi di fare italiani ” – mi ha detto il mio senno.
Non so se sono riuscita a nascondere i miei pensieri, sulla mio viso scorrevano i sottotitoli: “Esattamente dalla prossima volta non verrò più in questo bar!”
Sorridente, battevo le mani per i cantanti che si esibivano; ma, dentro il mio cuore geloso piangevo.
Stavo per tornare a casa, quando è arrivata la mia amica. Purtroppo nemmeno la chiacchierata “terapeutica” mi ha aiutato. Per alleviare il dolore, ho bevuto un po’ di vino.
Sì, un bicchiere di vino non ti fa ballare, non ti fa neanche impegnare in una lotta; però, forse, siccome non ho ancora mangiato, siccome ho bevuto un bicchiere tutto d’un sorso ( una vera signora non lo farebbe mai!), allora tutte le cose sono nuotavano davanti ai miei occhi.
Ora, dunque, non sono stata al bar, bensì sono stata su una nave; e, durante una brutta tempesta. Dentro il mio cuore non mi sento meglio. Fare in questo modo non aiuta mai!
La mia amica avrebbe dovuto alzarsi presto la mattina successiva, io, anche ubriaca, non potevo essere così egoista, lei avrebbe avuto bisogno di dormire, dunque è meglio tornare a casa.
La mia amica ha chiesto di inviarle un messaggio quando sarei arrivata a casa, questo per assicurarsi che stessi bene. Ma non andai a casa, non volevo e non potevo. Avevo bisogno di parlare con me stessa, di convincermi che la mia “libertà interiore” esiste ancora. Scrissi alla mia amica: “Sono a casa” e poi sono andai al belvedere (?), dove si può ammirare tutta la città, le sue luci strizzano l’occhio provocatoriamente e donano sempre allegria.
Sono stata sul bordo, come sulla poppa di una nave, la città ha stravaccato (?) di fronte a me, e la notte l’ha coperta con un velo nero. La città era come il mare, le luci alle finestre delle case erano come le luci delle barche da pesca. Penso: “Non posso essere attaccata ad un’altra persona, i buddisti hanno ragione, come sempre. Forse dovrò rileggere “Lamrim Chenmo”!” Sentivo lo solitudine insopportabile. “Qui sono solo io e questa città nella valle. Siamo reali solo io e Dio, e il resto è un’illusione, una pseudorealtà mutevole e incostante”.
Mi sono appoggiata al muro freddo, perché l’alcol non è ancora svanito, e io sono ancora un po’ scossa.
Appoggiata a un muro, mi sono quasi addormentata. Il residuo di coscienza sobria mi ha implorato: “Andiamo a casa!”. Però io volevo da morire il cioccolato. “Va bene! Prima puoi mangiare cioccolato e poi torneremo a casa!” Quando il “Twix” non c`era piu, ho inaspettatamente scoperto che in realtà non sto tornando a casa, ma sto camminando in direzione opposta, in direzione del bar. Il bar sta per chiudere. Il barista con i capelli ricci portava dalla strada i vasi di fiori e le sedie, Alessandro anche, era vicino.
Improvvisamente ho sentito la mia voce spaventata e preoccupata: “Io … io … io … quando tornavo a casa ho visto … ho visto … il fantasma!” Mentre nella mia seconda mente, quella seconda, l’io sobria ha esclamato con orrore: “Dio mio, che cosa stai dicendo?” A questo punto, l’io pazza, occupando tutto lo spazio della mia testa (che è molto), ha fatto gli occhi più spaventati e più aperti e continuava il suo romanzo di fantascienza: “Ho accompagnato la mia amica e quando tornavo a casa ho visto… ho visto… ”
Forse qualcuno indossava un costume- ha suggerito il secondo barista – domani sarà Carnevale, i ragazzi stanno preparando “. No, no – continuavo balbettando – era qualcosa come un’ombra “. Proprio questa settimana ho imparato la parola “ombra”. Che utile questa parola!
Hanno scherzato sui fantasmi. Sono “entrata” nel ruolo di chi ha avuto una grandissima paura e non c’ha capito niente.
“T’accompagno”. “Davvero? Grazie! ” Sospiro di sollievo, davvero avevo paura dei fantasmi.
Anche se credo che i fantasmi esistano, ho un po’ paura che ora possano sentire la mia bugia sfacciata e che stiano pensando di vendicarsi, ma tutto questo non era importante per me, perché lui mi stava accompagnando a casa. Mi sono subito resa conto di cosa devo dire, dove ho visto il fantasma: sulle scale dell’ Ostello. Buona cosa che non ha chiesto com’era il fantasma, perché non ho avuto il tempo di elaborare i dettagli. Qualcuno lo ha chiamato. Il mio italiano è molto lontano dall’essere ideale, ma avevo capito il punto della questione. Ha detto che “accompagna Elena dalla Russia, perché lei ha visto qualcosa sulle scale dell’ Ostello”. Così è stato strano di sentire le mie bugie come verità. “Questa assurdità raccontala a qualcun altro! Vergogna? Putroppo, no.” Gli ho chiesto se ha mai visto i fantasmi. No, ma ha visto un UFO. Ma non ne è spaventato.
A volte mi nascodeva dietro di lui, come se avesse paura che il fantasma fosse in attesa dietro l’angolo. A volte mi ha preso per un braccio, pensando che avessi paura (mi sforzavo di recitare queso ruolo come una professionista, piu o meno credibile). Sarebbe stato interessante chiedergli se credesse al mio gioco, se fossi riuscita a ingannarlo.
Vicino alla porta, l’ho pregato di parlare con me un po ‘di più sui temi non legati al “mondo invisibile”. In realtà, ho voluto che stesse un po’ più tempo insieme a me, non mi ha lasciato. Ha detto che “domani è un nuovo giorno, dopo pranzo, si andrà a lavorare”. Vedendo un manifesto per il carnevale, mi ha consigliato di andarci, “sarà utile e interessante per te”.
In me si è risvegliato la buona “io”: “Domani deve lavorare, ma gli faccio fare l’attore nel mio spettacolo. Devo lasciarlo andare.”
Questo è solo un frammento della sua vita e un unica pagina del mio libro. La vita – è “ora” è il momento, non è importate quello che è successo in passato, non è importante ciò che accadrà in futuro. In questi pochi minuti “reali” abbiamo camminato insieme per la città e abbiamo parlato. E ‘stato il terzo regalo della città.
Sì. Da questo giorno non bevo più. Spero che i fantasmi non si offendano e non abbiano intenzione di vendicarsi.
i legami con le città sono davvero di amicizia o inimicizia o entrambe le cose… la città è forse ( vuole essere?) il terzo personaggio di questo racconto, che e’ un po’ un flusso di coscienza… la città in questo racconto mi appare inizialmente un luogo estraneo, sconosciuto, dove si parla una lingua che la protagonista non padroneggia, dove i ragazzi flirtano in modo più sfacciato di quanto lei sia abituata,, poi basta un incontro, vero o immaginario, un contatto umano ( umano?…) e la prospettiva cambia , scopriamo dinuovo di non essere solii…