Premio Racconti nella Rete 2025 “Tappezzeria” di Diambra Mariani
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025I.
È mattina presto, c’è ancora silenzio, la luce è dorata. Attraverso il vetro della portafinestra vedi qualcosa di lucidissimo, lungo e nero strisciare sulla soglia della cucina. Poi, velocemente, scompare.
È un hierophis viridiflavus, facile da riconoscere per il colore e le dimensioni: un serpente piuttosto grande, molto comune nella zona e soprattutto innocuo – lo sai, te l’hanno ripetuto diverse volte, eppure una parte di te non si fida. Così controlli su Internet e scopri che sì, è vero, non è velenoso, ma se si sente in pericolo può “dispensare rapidi morsi”. E “in caso di fuga impossibile cerca un varco lanciandosi contro l’aggressore”.
Non riesci proprio a immaginare come un serpente possa lanciarsi contro qualcuno, ma per prudenza decidi che non ti avvicinerai più al fitto cespuglio del rosmarino -– un perfetto nascondiglio per un serpente, o almeno così credi – e che non andrai in giro per il prato a piedi nudi fino a quando l’erba non sarà stata tagliata. Per qualche minuto ti senti a disagio, presti attenzione ad ogni minimo fruscìo nella stanza, hai la sensazione di essere osservata e maledici la vita in campagna. Passa un’ora e non ti sembra più così importante, ti dimentichi perfino di raccontarlo a Luca, in macchina, nel tratto di strada che percorrete in silenzio.
State andando da Giovanni e Antonia un po’ controvoglia. Non che non vi interessi vedere il loro nuovo appartamento, ma è un periodo strano, e uscire di casa, vedere persone, vi affatica fino a demoralizzarvi.
“Avremmo dovuto comprare dei fiori, o almeno delle birre”, dici a Luca dopo aver parcheggiato, sapendo che è troppo tardi per rimediare; lo dici apposta, lui lo sa benissimo e non ti risponde neanche. Tu ti offendi.
Attraversate il vialetto che vi separa dall’ingresso tenendovi per mano nonostante il caldo; non lasci quella stretta sudata, eppure non senti nessuna tenerezza nei suoi confronti.
Vedi Giovanni che vi viene incontro nella luce accecante del primo pomeriggio, ha gli occhi stretti e uno di quei larghissimi sorrisi che non riesci ancora a classificare -– gli danno un’aria cordiale o da idiota?
Ha le mani sporche di pittura bianca, i pantaloni da lavoro arrotolati alle caviglie e minuscoli grumi di cemento che gli pendono dalla barba. Pare di ottimo umore.
Come sempre.
È strano, pensi: gli uomini abili nei lavori manuali di solito ti sembrano attraenti, mentre Giovanni ha l’aria di un personaggio da libro per bambini; potrebbe avere un cappellino di carta sulla fronte, adesso, di quelli a forma di barca, e il suo aspetto non cambierebbe poi molto.
“Dov’è Antonia?”, gli chiedi per prendere tempo, per prendere fiato, prima di entrare e affrontare le loro avide domande -– vi piace? È abbastanza luminosa? Cosa ne fareste di questa vecchia cassapanca?
Sono gli unici amici che avete, al momento, non potete sottrarvi. Lo sai, lo accetti.
“Adesso te la chiamo”, ti risponde gentile, “è da ore che si è nascosta in mansarda perché non ha voglia di svuotare gli scatoloni ed è convinta che non me ne sia accorto”.
Non ha nessun risentimento nella voce, nessun rimprovero. Si porta alle labbra le parole leggere di chi constata un fenomeno naturale, quando parla di lei, come se stesse osservando l’acqua sul fuoco e a un certo punto dicesse solo: “Sta bollendo”.
Invidi quell’armonia che hai sempre intuito tra di loro, quella familiarità tiepida ma rassicurante, la granitica stabilità emotiva delle persone che si conoscono a fondo e ciononostante non si detestano.
Antonia appare all’improvviso, teatrale, tenendosi una mano sulla fronte per proteggersi dal sole. Cammina verso di voi lentamente, fa scricchiolare la ghiaia sotto alle ciabattine da elfo, e i capelli le coprono la schiena e le spalle come un ampio scialle scuro. Sono gonfi e spettinati, ma non mancano di conferirle una certa grazia, seppure un po’ sinistra.
“Tutti gli altri sono al mare, mentre noi…”, dice strascicando appena le parole, leggermente lamentosa, e poi vi invita a entrare.
Visitate una stanza alla volta, senza fretta, e tu fai il tuo dovere: chiedi informazioni sui colori delle pareti, sui bastoni delle tende, sul mosaico della doccia; alterni i complimenti alle domande. La casa è davvero molto bella, l’atmosfera è serena e c’è un buon profumo di calce, di legno di pino, di polvere da cantiere e detersivi.
“Che belli possono essere gli inizi, i traslochi, le case nuove”, ti lasci sfuggire a voce alta, anche se si tratta di un pensiero segreto.
Giovanni racconta aneddoti sugli operai che hanno fatto i lavori, Antonia offre delle lattine di birra ormai tiepide, Luca sembra finalmente a suo agio, contagiato dal buon umore altrui. Gli è rimasta un po’ di schiuma sui baffi, gliela pulisci con la punta delle dita, gli sorridi e piano piano ti rilassi anche tu.
La stanza che più ti colpisce è quella di Antonia: è la più grande, la più isolata, si trova in fondo al corridoio ed è lontana da quella di Giovanni -– ti stupisce moltissimo che dormano separati, ma ti sforzi di non darlo a vedere.
Rimaste sole, Antonia si siede sul materasso nuovo, ancora avvolto nella plastica, ti guarda dritto negli occhi e ti chiede cosa ne pensi della tappezzeria. Tu allora ti metti a fissarla: ha un disegno floreale molto ricco su un fondo così nero che ti ricorda il velluto. Pensi che sia molto bella -– ha un che di sensuale, di barocco -– ma non c’entra niente con tutto il resto. Ti fa girare la testa, a guardarla bene è lussuosa e stomachevole.
All’improvviso ti ricordi di aver visto un serpente nel tuo giardino, questa mattina, e finalmente lo racconti a qualcuno. Della tappezzeria non si parla più.
II.
Più tardi Luca controlla una ricetta sul suo quaderno e inizia a preparare gli ingredienti per la cena; mette l’acqua sul fuoco, lava le verdure, le pela, le taglia e le lascia sgocciolare sul tagliere di legno, lucide e perfette, poi si asciuga le mani grandi sul grembiule e si avvicina alla finestra per fumare una sigaretta. È silenzioso e concentrato, ha il viso disteso, lo sguardo lontano; ti sembra che stia osservando il movimento degli alberi nel vento che si alza sempre verso sera, ma chissà invece dov’è, chissà a cosa sta pensando.
Cerchi di fare conversazione, gli chiedi cosa ne pensi delle camere separate di Antonia e Giovanni, ma a lui non piace mettere il naso nelle vite altrui, è contrario al “pettegolezzo”.
Allora gli racconti del serpente, ma non sembra particolarmente colpito, e subito riabbassa lo sguardo sul suo quaderno, inaccessibile.
Sei inquieta. Ti alzi, torni a sedere. Fumi mezza sigaretta. Prendi un pezzo di carota e lo addenti, e nel silenzio della stanza il tuo piccolo gesto fa troppo rumore.
Luca finalmente si volta, ti guarda, è irritato: “Ma cosa fai, non vedi che serviva per la cena, non potevi aspettare?”.
Lui odia che tu tocchi “le sue cose” e tu lo fai di continuo, non te ne accorgi neanche; ti è difficile imparare l’esistenza di quell’invisibile barriera.
Non sopporti che lui prenda così seriamente cose che a te sembrano irrilevanti: che pesi gli ingredienti, che rispetti i tempi di cottura, che si concentri tanto da non rivolgerti la parola – fosse per te, questa sera mangeresti davanti all’anta aperta del frigorifero, in piedi, chiacchierando.
Rimetti al suo posto la carota addentata — è così brutta, adesso, rispetto alle altre — poi guardi Luca con aria di sfida, come a dire: eccolo qui, il tuo prezioso tesoro. Lui si indispettisce, alza la voce. “Adesso mangiala”.
Fai no con la testa e resti in silenzio. Lui dapprima ti guarda stupito, poi prende il pezzo di carota dal tagliere, torna alla finestra e lo scaglia in giardino con una violenza che ti spaventa, ma è una sensazione quasi piacevole, come lavarsi la faccia con l’acqua ghiacciata.
A quel punto potreste scoppiare a ridere.
Invece pensi: è così che ha inizio la violenza domestica, pur sapendo che non è vero, e al solo pensiero ti metti a piangere, sapendo che le tue lacrime non serviranno a niente, sperando comunque, intensamente, che servano a qualcosa.
III.
Ti sembra sia passata una vita dall’ultima volta che hai visto Antonia, invece è ancora estate.
Ci sono stati i problemi al lavoro, il giardino da sistemare, la spalla lussata di tua madre, un fine settimana in campeggio.
Sei appena uscita dal fioraio con una pianta di dracaena che ti pesa tra le braccia, quando, attraverso le foglie appuntite, la vedi camminare dall’altra parte della strada. Sarebbe impossibile non notarla, Antonia occupa tutta la piazza con i suoi occhi spiritati e le lunghe braccia pallide, tanto più che in giro non c’è quasi nessuno, fa davvero troppo caldo. Oggi porta i capelli raccolti in una crocchia spessa che le ondeggia sul capo ad ogni passo, come le ceste delle donne africane. Quando la raggiungi cerchi di abbracciarla senza riuscirci — hai bisogno di entrambe le mani per sorreggere il vaso — e va a finire che le porgi la guancia per essere baciata, un gesto che ti fa sentire terribilmente goffa.
Vi sedete nell’unico bar del paese rimasto aperto, all’ombra di un platano con le foglie già secche. Senti il sudore nella scollatura diventare fresco, un brivido di sollievo nella calura insopportabile.
Ordinate da bere e date un’occhiata ai titoli dei quotidiani ancora intonsi; Antonia si guarda intorno come se avesse paura di qualcosa, è nervosa.
“Io non ci vado, a vivere nel nuovo appartamento”. Lo dice come se tu stessi cercando di convincerla del contrario.
Adesso potresti chiederti se l’abbia già detto a Giovanni, se sia un colpo di testa o una decisione ponderata, potresti pensare al mutuo, essere incuriosita dalle sue ragioni. Invece il primo pensiero che ti si affaccia alla mente è: “Che ne sarà della sua camera con la tappezzeria?”.
“Io e Giovanni stiamo insieme da vent’anni. Tu lo sai cosa vuol dire stare per così tanto tempo con la stessa persona?”, ti chiede con una smorfia, mescolando il ghiaccio. Non si aspetta una risposta, riprende subito a parlare.
“No che non puoi, tu e Luca siete ancora una coppia. Giovanni è come un parente, per me. Sappiamo tutto l’uno dell’altra, tutto, non litighiamo neanche più. Ma io sono ancora giovane, lo capisci?”
Nella breve pausa di silenzio che ti concede prima di ricominciare la sua invettiva sei assalita da un pensiero terribile: ma non era quella, la felicità?
IV.
L’estate sta finendo e ti si stringe il cuore, proprio come quando eri bambina. Tornavi a casa dopo le vacanze ed eri investita di colpo da suoni e odori così familiari che ti sembrava impossibile averli dimenticati per due settimane— il profumo della pioggia sul pavimento di pietra del balcone, le campane della chiesa alle sei e mezza di sera, le grida dei gabbiani che volano bassi sul fiume.
Che strabiliante scoperta, lo struggimento.
Adesso è fine agosto, le giornate si sono accorciate e il temporale di ieri sera ha rinfrescato l’aria.
State andando alla sagra del paese, avete invitato Giovanni “per distrarlo un po’”. Luca lo vede spesso, ultimamente, e dice che non se la passa bene.
Lo incontrate nel parcheggio, sta armeggiando con il casco e quando se lo sfila noti le occhiaie, i capelli sporchi, la barba in disordine, l’aria cupa. Nessuna traccia del suo sorriso idiota, anzi.
Anche tu ti senti triste, questa sera: ti sembra di aver accumulato tanti piccoli rimpianti, negli ultimi mesi. La musica vi raggiunge da lontano, hai l’impressione che tutti gli altri si stiano divertendo e che voi non ci riuscirete. Soffia un vento che preannuncia l’autunno.
Vi incamminate verso l’ingresso tenendovi tutti e tre a braccetto, vi fate largo nella ressa, superate il banco della pesca di beneficenza, trovate una panca di legno su cui sedervi e vi mettete a bere.
Luca e Giovanni parlano tra loro, tu guardi le coppie che ballano il liscio: hanno facce antichissime, le donne hanno la permanente, gli uomini le basette.
Cosa ci faccio qui?, ti chiedi.
Sul palco è salita una bambina strizzata in un vestitino di paillettes che intona una canzone di Céline Dion e quando raggiunge gli acuti sembrano tutti impazziti: battono le mani, fischiano. “È un fenomeno”, dicono. “È la figlia dell’allenatrice di mia nipote”.
Luca si alza per prendere dell’altro vino e tu e Giovanni, rimasti soli, per un attimo non sapete cosa dirvi. Vi guardate intorno, la musica si è interrotta, la band si è presa una pausa.
Ti accendi una sigaretta, gliene offri una, lui ti afferra la mano, ti guarda negli occhi e ti dice: “Grazie per questa sera”. Ha la pelle morbida, è ubriaco, è commosso.
Ti fa impressione immaginarlo vivere in quella casa da solo, con la stanza di Antonia in fondo al corridoio, vuota e perfetta come la camera di una figlia morta. Ti chiedi come reagirebbe se gli proponessi di aiutarlo a smontarla, a grattare via la carta da parati. Sarebbe divertente, liberatorio, intimo? Luca torna prima che tu abbia deciso se possa essere una buona idea, prima che abbia fatto in tempo a immaginare, anche solo per un istante, come sarebbe, trasferirti nella stanza con la tappezzeria.
La bambina mostruosa adesso sta cantando La isla bonita, fa roteare il bacino, scuote i capelli. Non puoi fare a meno di fissarla, e intanto pensi al dolore di Antonia, un segreto che non si può nominare. Pensi che tua madre sta invecchiando, che Giovanni ti ha appena preso per mano e al brivido che hai sentito. Ti sembra tutto così assurdo che vorresti solo urlare.
Invece ti avvicini lentamente a Giovanni e quando sei molto vicina, molto, molto vicina al suo collo sudato, quando sei sicura che nessuno ti potrà sentire, stacchi la tua mano dalla sua e gli sibili nell’orecchio, gelida: “Non ti azzardare, non toccarmi mai più”.
Ho trovato molto interessante questo racconto. Ha uno stile di scrittura che gli conferisce una particolare, dinamica immediatezza: ti fa sembrare lì, a fianco dei protagonisti, ti fa partecipare da vicino alla loro vicenda umana. Potrebbe essere un film, una di quelle commedie dal sapore un poco amaro che il cinema italiano sa realizzare così bene, tutte incentrate sul gioco di coppie, sentimenti, delusioni e forse illusioni. Bello