Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2025 “Il bacio di Arianna” di Franco Ossola

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025

Poco ricordo del giorno in cui fui tratto qui la prima volta.

Che siano stati i vapori, subito fattisi padroni della mia mente, delle drogate misture che in copia mi fecero assumere o a cagione dello stato di prostrazione in cui mi trovavo, per il senso di abbandono che avvertivo, o altro ancora, a farmelo scordare, poco importa, questa diventò ed è la casa in cui ho vissuto e vivo. Sola, di quel giorno, mi è rimasta l’eco di un trambusto, un barbuglio di suoni, lamenti di donne, voci maschili, clangore di metalli, null’altro.

Mi ci volle tempo per riprendermi, ma un immediato pensiero mi apparve limpido, come suggeritomi da un dio: da lì, da dove ero stato condotto, non ne sarei più uscito. Non che non ne avessi o tuttora non ne abbia la facoltà, ché varchi per farlo in questa mia dimora ne ho contati tanti, solo che il sacrilego intento di una fuga, sovrastato da un fato superiore al mio stesso volere e al pigro scorrere del tempo in questo luogo, premeva e preme, come un chiavistello inviolabile su me.

Ci provai a uscire, con cautela, una notte, scordandomi chi ero. Mi bastò scorgere il terrore che lessi negli occhi del passante cui cercai di volgere una parola – ma sarebbe stata tale, l’avessi pronunciata ? – o il lesto celarsi, l’appiattirsi a ridosso di un muro di una giovane prostituta, se non per confermare l’inutilità del gesto, di certo per trattenermi dal riprovarlo. Tale fu lo sconforto che mi prese da non esser mitigato neppure dalla visione di un cielo che mai avevo visto così stellato e di cui pure ero stato assiduo osservatore.

Non fu un banale desiderio di avventura a spingermi a uscire, quanto il desiderio di un incontro, la curiosità di provarmi, di vedere quale frutto avessero maturato le lunghe, solitarie ore trascorse a modulare il roco muggito che mi sortiva dalla gola in quel suono armonioso che dicono essere la parola. Giudice di me stesso, consumai giorni e notti intere – la fatica è debolezza che non mi appartiene – a provare, tentare, sfinendoni. Quando un affannoso pensiero stava ormai suggerendomi la vanità di ogni tentativo per quanti ne potessi mettere in atto, ecco uscirmi dalla gola come un sospiro, una liberazione, che, rimbalzando sulle pareti tutt’attorno, mi restituì quello che era il suono del mio nome: Asterione.

Caddi a terra con tutto il mio peso.

Rimbombarono le tante stanze di questa mia casa, grande come il mondo, vacillarono stipiti e architravi, si schiodarono dal cardine le grandi porte: forse su, nel palazzo, dove mia madre regna, immaginarono chissà quale tremore della terra inquieta. Stordito, non so per quanto restai inanimato, come morto. Sogni confusi mi agitarono. Rividi gli stupefatti volti, lo sguardo inorridito delle levatrici, insanguinate le mani, risentii le indicibili bestemmie e gli urli strazianti, le maledizioni scagliate al cielo, rivissi il dramma della mia nascita. E poi ancora i concitati conciliaboli, le furiose liti, le arcane decisioni; le impietose sentenze mi tornarono all’orecchio, poi il buio.

Non fosse stato per il lamentoso pianto di un gruppo di giovani, donne e uomini, inoltratisi negli sterminati corridoi in cui vivo, ragnatela inestricabile di marmi e pietra, forse ancora ora starei steso a terra, preda di sogni irriverenti. Poco sapevo del perché, con ritmo regolato, la mia casa dovesse accogliere quegli stranieri, sempre eguali nel numero, ché tali mi apparivano per fogge e aspetto. Dapprima, incuriosito, mi peritai di tenere a mente tale intervallo– che ebbi a stabilire in un anno, ammessa esatta l’interpretazione che davo al modularsi degli astri che nel buio osservavo percorrere i cieli dalla torre più alta della mia dimora – ma poi, annoiato, smisi di occuparmene. Mi accorsi che meglio lo ingannavo, il tempo, lasciandolo scorrere, libero da ogni mia costrizione astronomica o mentale che fosse.

Per un certo periodo mi compiacqui, soddisfatto, di corse sfrenate, che mi piaceva portare al limite estremo del respiro, per poi lasciarmi scivolare sul freddo marmo di un corridoio o nel confortevole tepore di una stalla. La smania di quelle sfuriate pericolose e insensate non mi sottraeva però all’attenzione di evitare i tanti inganni che la mia casa nasconde. Vasche colme di acqua buia di cui non si scorge il fondo, chiazze untuose che sorgono improvvise e scivolose, alimentate chissà da quali sotterranee vene, ma soprattutto spaventevoli vuoti. Mancanze di continuità che si fanno voragini, abissi per il Tartaro.

È in uno di essi, nella sua muta imperscrutabilità, che un giorno, non scorto, vidi far precipitare da sgherri senza cuore e volgarmente armati uno di quei gruppi di giovani che sogliono con regolarità approdare alla mia dimora. Col tempo scoprii trattarsi di un bieco rituale la cui impellenza non mi era nota, ma che, avvertivo, in qualche modo aveva a che fare con me. Doveva, dunque, valere a tal punto il pegno della mia espiazione per il solo peccato di essere nato – perché certo di questo si trattava – da sottrarre alla vita un numero così elevato di giovani, quand’anche per il mio sentire già uno soltanto sarebbe stato di troppo?

Per molto non me ne diedi pace.

Finché un giorno mi imbattei in uno di loro. Un appiglio inatteso gli aveva impedito la catastrofe e, ferito, si era sollevato fin sul bordo del precipizio, estremo baluardo di vita. Al vedermi ammutolì, ma non ebbe a spaventarsi, come mi sarei atteso. Da parte mia lo scrutai con una tale intensa curiosità che pur senza nulla dirgli gli feci intuire il mio desiderio di comprendere. Quando con una faticata mossa del capo, orribilmente mutilato, fece cenno di aver inteso, senza fatica alcuna lo portai al sicuro, sollevandolo dal vuoto. Mi accorsi dal rantolio del suo respiro che il filo della sua vita era sul punto di essere reciso, tuttavia non ci fu bisogno di spronarlo perché parlò. Pur consapevole che la cagione della sua condanna ero io, non mi maledisse né ebbe per me brutte parole. Anzi, parve compatirmi quando mi rivelò che fuori da lì, nel mondo, era convinzione che l’offerta di loro poveri giovani costituisse l’alimento per i miei truci banchetti.

Una vertigine di disgusto mi riempì la bocca, come se un fiele mortifero avesse preso ad avvelenarmi. La mia natura, singolare e unica, non necessitava di cibo alcuno e poi, quand’anche ne avessi reclamata la necessità, come avrei potuto macchiarmi di delitti così orrendi.

Il pianto, mosso più da rabbia che da commozione, mi sorprese. E mentre, piangendo, cercavo di alimentare ancora di un poco la fiammella di vita che soffiava in quel giovane al fine di conoscere da lui quanto più fosse possibile, mi giunsero le sue ultime parole. Rivelò che a breve uno di loro, bello e prestante come lui era stato, avrebbe messo fine all’orrenda mattanza. La mia morte per mano sua avrebbe posto il sigillo definitivo su ogni cosa, sepolto con il mio cadavere un mondo di falsità. Inutile da lui pretendere altro. Con un ultimo sforzo, d’impulso, si precipitò a capofitto in quello stesso vuoto da cui poco prima l’avevo tratto.

Dunque su di me solo ignominia: la mostruosità non bastava, la si doveva condire con il sale della menzogna. Un muggito ringhioso quasi mi squassò il petto. Da quando articolavo parole, non mi era più successo di tornare a concedermi alla belluinità. Tempestai con i duri zoccoli lanuti un tratto di pavimento fino a farne frantumi; conficcai le ossute corna della mia orrenda testa nel tronco di un acero; graffiai, fino a snaturarlo, con gli artigli acciaiosi delle possenti mani, l’affresco di una delle tante sale; dimenando la coda taurina, infransi vasi preziosi, atterrai erme propiziatorie; mi venne, improvviso, il desiderio di defecare in spregio al mondo, per ricambiare con quel gesto sguaiato il male che pativo.

I sensi mi abbandonarono. Fu un giorno orribile, quello.

Per molto tempo venni come inseguito da un timbro di passi, cadenze inesistenti, che risuonavano mortali nel vuoto degli infiniti anditi e assumevano il tono del rombo nella mia testa confusa. Sapevo essere quelli profetati del mio giustiziere, di colui che avrebbe affondato il ferro, rubandomi la vita. Ci furono momenti in cui, insonne, tendevo l’orecchio, li percepivo, quei passi, ne contavo il numero, ne valutavo la frequenza, e quando parevano arrestarmisi accanto avvertivo lancinante la fitta che mi avrebbe spaccato il cuore: temevo la mia ignavia. Infausti giorni di sofferenza per i quali però ebbi poi piena compensazione.

Già ho detto come la mia casa non conosca impedimenti all’uscita e, in tale condizione, risulti libera a chi, al contrario, si periti d’entrarvi.

Fu così che un giorno accadde.

Destatomi da un sonno convulso ma senza sogni, ebbi la sensazione di cogliere nell’aria una fragranza insolita che mi spinse a muovermi, come agito da una volontà superiore che non riconoscevo mia. Fui costretto – e dico così perché non mi fu possibile farne a meno – a spingermi fino a quello che, nell’idea che mi ero fatto del labirinto, ne stabiliva la propaggine più estrema, quella che, dai suoni e dai vocii che ne provenivano, mi immaginavo sottostasse al palazzo reale. Venni preso da un’eccitazione insolita, via via più intensa col progredire dei miei passi, che cercavo di mantenere morbidi, nell’impatto degli zoccoli col suolo, per non suscitare sgradevoli suoni.

Laggiù la vidi, affacciata con timidezza a uno dei tanti liberi ingressi. Nivea, radiosa e unica, come unico mi sentivo io in quel momento, pieno di grazia. Infatti, quando mi scorse, sfumata forse per un attimo ai suoi occhi la parte bestiale del mio aspetto, non palesò segno di spavento, anzi diede il senso di avanzare il piede per venirmi incontro. Tanta decisione mi indusse a pensare che fosse arrivata fin lì con il preciso intendimento di incontrarmi.

Ed era così. Mi venne accanto, mi accarezzo una guancia irsuta; mi commosse, ne restai pudicamente affascinato e seppi perché. Disse di chiamarsi Arianna, di sapere di me e di essere una delle mie tante sorelle, progenie di Minosse e Pasifae. Felice di poterlo fare, pronunciai con soggezione il mio nome, cogliendole un sorriso di gioiosa sorpresa.

Si era spinta a farmi visita per un supplica che io solo avrei potuto esaudire.

Proprio in quel giorno si sarebbe replicata l’oscena offerta dei giovani – che mi disse ateniesi – erede di uno scellerato patto voluto dal padre crudele. Trepidando, aggiunse come una pizia le avesse predetto una sorte avversa qualora avesse concesso a uno di quelli di posare i suoi occhi infedeli su di lei. Lo sconosciuto, un nobile di nome Teseo, l’avrebbe concupita e, dimentico del suo amore, presto abbandonata. Volendo sottrarsi a tanta umiliazione, mi incaricava, per il bene fraterno che ci univa, di fare in modo che ciò non avvenisse uccidendo il giovane e mentre così mi sussurrava, affidava alle mie mani uno stiletto di morte. Ci avrebbe pensato lei, dopo averlo falsamente lusingato e spronato a sbarazzarsi di me, a condurmelo fin nel cuore del labirinto, badando a non smarrirsi nel dedalo di stanze grazie allo svolgersi di una matassa di robusto filo che le avrebbe consentito di tornare sui suoi passi.

Senza esitare, afferrando la breve arma, diedi segno di accettare.

Sorridendo se ne andò, lasciandomi come stordito.

Fedele alla consegna, eccitato, mi disposi all’agguato.

Non passò molto.

Inatteso, il mio balzo lo sorprese e affondargli la lama nel cuore palpitante non mi fu difficile. Cadde e spirò subito, incredulo. Lo trascinai alla più vicina voragine che lo inghiottì silente.

Arianna, il filo fra le mani, si avvicinò, mi bacio il labbro e fuggì via.

Ero felice per la prima volta da quando abitavo il labirinto.

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4 commenti »

  1. È il momento delle rivisitazioni mitologiche!
    Prima Orfeo ed Euridice, adesso il Minotauro: stili diversi, stessa eccellenza.

  2. Eh sì, retelling a tutto spiano.
    Qui, per pura casualità, abbiamo due esempi così diversi: questo è proprio un ribaltamento del mito, Arianna trova modo di scampare al suo proverbiale destino. E si vorrebbe un sequela, per sapere che ne è stato poi del Minotauro, dell’annuale sacrificio.
    E soprattutto la chiave qui è comunque aulico, classico.
    O&E invece è un sequela che non smonta il mito, lo preserva; e il retelling lì vira in chiave ironica e moderna.

  3. la voce del mito è immortale e la sua fascinazione ci accompagna nel tempo modulando sempre nuove suggestioni e facendosi in questo modo “contemporanea”. E’ quanto accade in questo sorprendente racconto che osa capovolgere la vulgata del crudele Minotauro offrendoci il ritratto inedito del solitario Asterione, vittima innocente delle paure e delle colpe i di chi vive nella superficie ambigua del mondo . Un ritratto inoltre non mediato, ché l’ immediatezza dell’io narrante ce lo fa balzare nitido e potente nella sua tragica identità, nella odiosa e odiata condizione del perenne recluso. Ma c’è un colpo di teatro che dà ragione del titolo, e che scompiglia ancora i disegni del fato: la sorella Arianna, “nivea, radiosa e unica” lo sospinge verso un differente destino e gli regala un’improvvisa, fuggevole felicità .

  4. Una sorpresa e una scoperta la passione che traspare dal racconto del più documentato storico del Torino calcio e non solo.
    Preziosa la rivisitazione mitologica e l’accuratezza nella scelta del lessico che non si preoccupa della nicchia dei possibili lettori, ma che insegna non solo il mito ma anche che è possibile raccontare con eleganza.

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