Premio Racconti nella Rete 2025 “Garfield” di Michela Di Renzo
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025A volte ripenso alla mia vecchia vita. Anche se ultimamente non mi capita più spesso come una volta. Di solito mi succede quando il sole che entra dalla finestra colpisce di prima mattina la mia cuccia, costringendomi ad andare sul divano, dove posso proseguire indisturbato il mio sonnellino. Tanto lui è talmente di corsa che non mi guarda nemmeno per un secondo. E fino al pomeriggio, quando lui torna e comincia la manfrina delle coccole e “Garfield di qua e Garfield di là”, la casa è tutta mia. E’ allora, dicevo, in quelle mattinate, in cui l’aria è così tiepida che non ho bisogno di andare sotto al piumone per scaldarmi, che mi tornano in mente alcune cose.
Ad esempio penso a quando con i miei fratelli giocavo a rincorrere le lucertole sull’aia, alla sensazione che provavo quando affondavo gli artigli nella pelle di rettile dura e spessa. Una sensazione che a volte mi sembra di provare ancora quando graffio il tronchetto che lui ha comprato per le mie unghie. O a quando ci arrampicavamo tutti insieme sul grande albero di fronte alle stalle; l’odore di resina della corteccia a volte mi sembra di sentirlo nel bagno, dove la mattina aleggia un certo profumo. Era su quel pino che ogni anno facevano il nido i colombi. Di solito ero io, Garfield, il più grosso di tutti, che arrivavo sul ramo più alto e davo la zampata ai pulcini in modo che cascassero a terra. Solo che spesso arrivavo troppo tardi per mangiarli, perché ci mettevo tanto tempo a scendere. Ma quando ne avanzava uno che era caduto lontano, e che solo io avevo visto dall’alto, era tutta mia quella carne morbida e fresca intorno agli ossicini croccanti. Ora il mio stomaco non brontola più come allora, perché ho la ciotola sempre piena di croccantini, eppure ogni tanto ripenso al sapore di quegli uccellini, un sapore da leccarsi i baffi, un sapore che a volte riprovo quando lui mi allunga qualcosa sotto al tavolo mentre fa cena. Tra l’altro è iniziato tutto così, con lui che arrivava, apriva la casa e si guardava intorno.
Mi mise un nome strano, Garfield, su consiglio di lei, o meglio di una lei, una delle tante, perché il nome Garfield la faceva sorridere ogni volta che lo pronunciava. E quando mangiava sotto al gazebo, se io accorrevo appena mi chiamava, mi allungava un pezzetto di carne alla brace o una fettina di prosciutto. Quando poi ho iniziato a strusciarmi o a farmi prendermi in collo, allora sì che mi sono abbuffato. E quando lui mi ha messo dentro una cassettina per portami in città io l’ho lasciato fare, e ho fatto bene, me lo ripeto spesso, perché se restavo al Podere Giungarelli, a quest’ora ero già morto. Invece sono arrivato a vent’anni, e venti anni non sono pochi per uno come me. E quella lei che mi ha messo il nome che porto, dopo poco non si è più vista per casa, mentre io sono rimasto.
C’è un altro odore a cui ogni tanto ripenso, un odore intenso, inebriante, che la prima volta ho sentito su una gatta più vecchia, quella con cui mi sono grufolato un’estate intera nell’erba alta e morbida del prato davanti al Podere, il mio corpo incastrato dentro al suo: a ripensarci ora l’estate più bella della mia vita. Però quando l’anno dopo sono ritornato in campagna, è successa una cosa strana. Intanto lui mi teneva rinchiuso in casa, come fa in città. E già questo non mi piaceva tanto. Quando poi ho rivisto quella gatta e ho sentito di nuovo quell’odore, una notte mi sono calato lungo la grondaia fino all’aia, rischiando di rompermi l’osso del collo. Però appena mi sono avvicinato provando a montarla, lei è scappata via. Ci ho provato di nuovo, e di nuovo ancora, correndole dietro tutta la notte, finché la gatta non mi si è rivoltata contro graffiandomi il viso. La mattina lui mi ha trovato davanti alla porta di casa, ad aspettare che aprisse, con la coda tra le gambe. E da allora in campagna non ci voglio più andare e mi nascondo in fondo all’armadio dei vestiti quando lui parte. Tanto viene sempre qualcuno a darmi i croccantini. Chissà come mai è successa questa cosa. Forse perché, anche se ho ancora il mio bel pelo rossiccio lungo e morbido come una volta, sono ingrassato parecchio: deve essere colpa del veterinario, perché dal veterinario lui mi ci porta spesso, e mi capita sempre qualcosa di poco simpatico. Una volta mi hanno addormentato, e al risveglio avevo un grande fastidio nella parte bassa della pancia, dove al posto di due protuberanze c’era una cicatrice. E dove ogni tanto mi fa male, soprattutto quando la pioggia batte forte contro le finestre.
A volte lui entra in casa con un passo baldanzoso: nove volte su dieci è di buon umore perché dietro la porta si affaccia una lei, una a cui mi presenta pronunciando il mio nome “Garfield” in modo altisonante: e a volte lei mi accarezza dolcemente mentre io mi chiedo quanto durerà più delle altre. Quando lui lascia aperta la porta di camera ed io acciambellato nella mia cuccia li vedo avvinghiati uno sull’altra, è allora che ripenso alla mia estate di fuoco. E la notte sogno quell’odore, quell’odore inebriante, un odore che mi sveglia e mi fa venir voglia di affondare gli artigli nel divano di cuoio del soggiorno, scalzando la guaina che lo riveste. O di aggrapparmi alla tenda di camera, finché non casca a terra. O di saltare sul tavolo della cucina, rovesciando l’orchidea e sbarbandone le radici. Lui la mattina mi rimprovera, ma sento che è solo per scherzo, perché allo stesso tempo mi prende in collo e mi coccola con fare rassicurante.
Ma che odore sarà mai questo che mi manca e che mi butta fuori di testa? Forse lui mi risponderebbe che è l’odore…l’odore della libertà.
Ma che ne so io? Io sono solo Garfield.