Premio Racconti nella Rete 2025 “Ad occhi aperti” di Marcello Luberti
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025A casa non aveva detto che l’indomani avrebbe preso la direzione di Sulmona anziché quella solita di Chieti, non faceva differenza. Il cattivo umore del padre dipendeva dal fatto che lui si allontanasse da Popoli e non rimanesse a bottega.
Il povero Emidio resisteva al sordo risentimento del padre che non si era arreso alla sua decisione di frequentare l’università.
E dire che Camillo Di Pietro, fabbro del ferro battuto da tre generazioni, aveva scelto per suo figlio proprio il nome del bisnonno, colui che aveva intrapreso la produzione di meravigliosi letti matrimoniali con testiera, una vera e propria arte. Anche perché Camillo, dopo Emidio non aveva generato altri maschi, bensì due belle e spiritose fanciulle, Assunta e Maria Rosaria, adatte a tramandare altro dal ferro battuto, purtroppo, che frequentavano la prima e la terza magistrale a Sulmona.
Camillo lo aveva addestrato sin da bambino e diceva che il figlio era portato, aveva una grande mano e una sensibilità da artista, un talento sprecato, aggiungeva.
Il capostipite Emidio Di Pietro, all’epoca, aveva lavorato perfino per Casa Savoia, i Torlonia, il Vaticano e per Gabriele D’Annunzio, che pretese per il Vittoriale un enorme tavolo da lavoro in ferro battuto con piedi finemente, baroccamente lavorati con sopra un ripiano di ardesia. Un capolavoro pesante ben 450 chili, un unicum.
Il giovane Emidio, pur schiacciato dall’ineludibile eredità, si alzò quel giorno di buon umore, alla consueta ora dei giorni feriali, in tempo per prendere il regionale delle 7 e 12 per Chieti, e rimase in stazione ad aspettare il treno per Sulmona delle 8 e 45, sul quale avrebbe incontrato il Professore e gli altri adepti.
La sala d’aspetto disadorna era deserta, umida fredda, orfana dell’inverno delle fatiche e dei disagi della povera gente, i muri color crema diventati ormai grigi, le solite scritte di fascisti e comunisti a rimbeccarsi. Aveva paura a sedersi su quegli spogli sedili marroni, ad appoggiare la schiena: per non pensarci tirò fuori il primo libro dell’Ars Amatoria di Ovidio che avrebbe portato all’esame da lì a due mesi, nel giugno del ’76, per la precisione A.D. MCMLXXVI, come li costringeva a scrivere il cattedratico che aveva insegnato dappertutto nel mondo, ma era originario proprio di Chieti, eletta a sua ultima stazione.
Era una giornata particolare.
A Ettore Paratore, il più grande cultore di lingua e letteratura latina della Penisola, professore straordinario emerito della neo-costituita università di Chieti, era venuto lo sghiribizzo di portare i suoi nove studenti in giro per Sulmona, a coronamento del corso monografico su Publio Ovidio Nasone, nativo della bella capitale della Valle Peligna. E avrebbe offerto il pranzo ai giovani, anime benedette che studiavano latino in una società ormai sconsacrata destinata a finire nelle grinfie dei comunisti.
A ogni scampanellio della viabilità, Emidio chiudeva con una mano il libro e con l’altra agguantava lo zaino per affrettarsi sul binario, ma ci furono ben tre falsi allarmi. La timorosa inquietudine del giovane aveva a che fare con Franca, la possibilità di vedere Franca, parlare con Franca, scherzare con Franca, una sua collega di Pescocostanzo, un paesino in mezzo alle montagne, con una cesta di capelli neri ricci e occhi fondi dalle venature olivastre, bella ragazza scherzosa e più libera di Emidio rispetto alla famiglia. Lei viveva da fuori sede a Chieti in collina, in una camera ammobiliata nei paraggi delle vecchie carceri e della Facoltà di Lettere. Per una volta, Emidio non era pessimista.
Rimase a riflettere, rileggere più volte un passaggio di Ovidio sulle donne, “Ingannate loro che vi ingannano” e quale sinteticità in latino: fallite fallentes. Rimase strabiliato da quella raccomandazione troppo cinica per uno come lui. Si mise a parlare da solo, tutto crucciato, meno male che non c’era nessuno.
«Come si può arrivare a tanta lucidità di fronte alle donne che comunque erano oggetto d’amore del poeta? Ma guarda Dio, questo signore era nato a 17 km dal mio paese, era un abruzzese anche lui. E gli abruzzesi, non sono così…»
Ma poi gli venne a mente il detestato D’Annunzio, sciupafemmine ingannatore manipolatore nella scrittura e nella vita, e capì che forse aveva torto.
Finalmente arrivò il treno. Emidio esitava a salire, cercava quel volto impertinente di cui si era innamorato, ma Franca non era al finestrino come pensava. Dovette percorrere due carrozze prima di trovare la comitiva con in mezzo il professore in gran forma, in piedi, ciarliero e sorridente, che raccontava dei certamen all’impronta in cui aveva trionfato dappertutto in Italia.
Salutò Paratore con deferenza e dovette inoltrarsi nello scompartimento per capire che Franca si trovava in un sedile di spalle all’intera compagnia e parlava con un fricchettone di Pescara, uno che veniva saltuariamente a lezione e oggi si presentava per scroccare il pranzo.
«Ciao Franca» disse a malincuore mentre lei, interrotta la conversazione, si alzò per una sciapita stretta di mano e dirgli benvenuto.
Trovò posto due sedili dopo, vicino a due anziani, che parlavano sommessamente delle piccole cose quotidiane e fu subito assalito da pensieri nefasti.
«Aveva ragione Ovidio, e pure D’Annunzio» disse ad occhi aperti, con lo sguardo da dissociato in pasto ai due vecchietti allibiti mentre il treno entrava lentamente in stazione a Sulmona.
Era una giornata fredda e rigida di aprile, soleggiata, la neve rimaneva vigile sulle pendici del Morrone e della Maiella che formavano un’unica muraglia bianca a delimitare la conca pianeggiante.
Emidio seguiva ciondolando, per ultimo, la brigata dei ragazzi diretta al centro cittadino. Non era protagonista, forse non lo sarebbe stato comunque, non voleva parlare con nessuno, Franca stava appiccicata al pescarese in atteggiamento inequivocabile. Con le donne non cambiava nulla, che illusione la sua. Si sentì tradito anche dalla vita di studente, per quello che gli costava di fronte alla famiglia.
Ma il Professore quel giorno avrebbe attirato l’interesse anche di un pubblico abulico e ignorante, era veramente convincente, i suoi discorsi non erano confinati alla nostalgia per i tempi passati e i classici. Le citazioni a braccio in latino erano brillanti, a volte sbalorditive. Era una miniera, deragliava solo se qualche ragazzo lo portava a ragionare sui tempi correnti, ad esempio, facendo confronti tra il rispetto per gli anziani nella cultura classica rispetto a oggi. Si arrivava a Dio, Patria e Famiglia in un attimo.
Paratore, arrivato davanti alla statua di Publio Ovidio Nasone raffigurato in atto pensoso, salì inaspettatamente di giri. Franca si avvicinò ad Emidio per commentare ironicamente gli occhi spiritati del Professore, che parlando dell’esilio del sulmonese prese le difese del poeta.
«Ragazzi, le motivazioni della cacciata di Ovidio a Tomi sul Mar Nero non le conosciamo. Si fanno ipotesi. Lui stesso nel Tristia dice: Due crimini mi hanno perduto, un carme e un errore: del secondo debbo tacere le mie colpe. Una cosa mi sento di dire, il Principato di Augusto non fu certo il paradiso terrestre dipinto da Virgilio e da tutta la storiografia encomiastica, né vi regnavano libertà e giustizia per tutti i cittadini. Non a caso, Cesare Ottaviano Augusto nelle sue Res Gestae ricorda tutte le opere e gli accrescimenti, le donazioni da lui portate a Roma, ma non spende una parola sui diritti garantiti ai cittadini dell’Impero. Il Principato fu anche una restaurazione del mos maiorum, una dittatura illuminata diremmo oggi»
Gli studenti rimasero a bocca aperta davanti alle affermazioni controcorrente del Professore, noto come democristiano tendente al fascistone.
«Chissà cosa successe veramente per meritare a Ovidio l’esilio ai margini dell’impero fino alla sua morte. Non lo sapremo mai», disse il professore sconfortato per qualcosa che non avrebbe potuto scoprire consultando le sue amate fonti.
Anche Emidio si ravvivò per un attimo dal suo scontento, cercò gli occhi di Franca ma non li trovò, era ancora indaffarata con quel bellimbusto, ma che ci trovava?
Caffè e confetti, la specialità di Sulmona, fu l’insolita colazione offerta da Paratore al famoso Gran Caffè situato proprio dietro la magnifica poderosa statua di marmo scuro con venature bronzee, posta su un grande basamento con inscritte le frasi di Ovidio riferite alla sua città.
Ma qualcosa il poeta doveva aver presagito della sua fine, argomentava il professore minuto e segaligno con grandi occhiali di corno nero e una parete di denti ben sgranata davanti a chi lo ascoltava, quasi sempre con un sorriso prossimo al ghigno.
Risparmiando il latino, ma sempre a braccio, l’anziano cattedratico, seduto in un angolo appartato del bar, riportò una specie di profezia che Ovidio lanciò ne Le Metamorfosi, prima della condanna all’esilio: «Ho compiuto un’opera che non potrà cancellare né l’ira di Giove, né il fuoco, né il tempo ingordo … il mio nome sarà indistruttibile … dovunque si estende sulle terre assoggettate la potenza romana, mi leggeranno le labbra del popolo e grazie alla Fama vivrò per tutti i secoli. Ragazzi che ne dite? Non è incredibile? Come se Nasone sapesse di aver già commesso il misfatto, l’errore fatale, che indusse Augusto, Augusto in persona, su questo le fonti sono univoche, a decretare l’allontanamento dall’urbe, da tutti suoi affetti e dalla vita letteraria ufficiale».
Proprio allora, da un vertice del grande tavolo dove stava in disparte, Emidio alzò la mano, come faceva alle elementari, e disse qualcosa di confuso ma profondo riguardo all’aspettativa di Ovidio e di qualunque scrittore sulla faccia della terra: salvarsi con i propri scritti dalla caducità della vita, dalla morte, dall’oblio della realtà. Paratore si alzò addirittura in piedi e annuì vistosamente, in maniera quasi caricaturale, alle parole del giovane che finora aveva visto un po’ fuori dal gruppo. Sfoderando un mezzo ghigno di assenso disse è vero è così.
Anche Franca, seduta a fianco di Marchetti, era questo il nome del pescarese, seguì con stupore e approvazione le parole di Emidio, ma lui non se ne accorse, non confidava più in lei, aveva aperto gli occhi ormai.