Premio Racconti nella Rete 2025 “Il Sacerdote” di Lucio Gatto
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025Le campane della chiesa di Sixt – Fer- à Cheval cominciarono a suonare.
Il Reverendo era un ometto nerboruto con un paio di occhiali dalla montatura dorata, capelli ricci, rossi, con alcuni fili bianchi disseminati qua e là.
Aveva un’età indefinibile, compresa tra i trentacinque e i cinquanta anni.
I suoi fedeli in quella domenica mattina erano tutti in su con gli anni.
Ne contai in tutto trentuno, Reverendo e organista compresi.
Dato che ero in vena di calcoli, presi a contare gli anni, quanti ne erano passati dall’ultima volta che avevo messo piede in una chiesa:
“Saranno all’incirca venti, anno più, anno meno …” dissi tra me.
La chiesa era bella, con il soffitto a volta, banchi e pavimenti di legno scuro, otto finestre con vetri colorati.
Quando il custode ebbe preso il posto in ultima fila, il Reverendo, in tonaca nera, si alzò e rivolse ai fedeli il benvenuto, tutti si dovevano sentire a casa propria. La sua voce era potente e nasale e non aveva bisogno di microfono.
Nella sua preghiera ringraziò Dio per la neve e l’inverno, tutto aveva un senso nell’ordine delle cose, per le stagioni che servivano a ricordare che era sempre il Signore a governare le faccende del mondo.
Tutti pregarono e cantarono.
Quando il Reverendo iniziò a predicare, si accorse di me, l’unico estraneo seduto in ultima fila.
Ci scambiammo un sorriso e per un momento temetti di venir presentato alla piccola congregazione.
Il tema del sermone fu incentrato sull’esaltazione, un argomento bizzarro, considerata l’età media dei convenuti.
Faticai parecchio a prestare attenzione distratto com’ero da un turbinio di pensieri che mi stimolavano a ripercorrere tutta la mia vita.
Un aspetto mi colpì. In quella chiesetta si stava veramente bene e avvertivo salire dentro di me un senso di benessere che non provavo da parecchio tempo.
La serenità interiore mi fece affiorare un sorriso sulle labbra.
Quando ebbi finito di coccolarmi all’interno di quel dolce abbraccio, sollevai lo sguardo e vidi che il Reverendo mi stava sorridendo.
Dopo la benedizione, i fedeli passarono davanti al Pastore sulla porta della chiesa, complimentandosi con lui per il sermone e scambiandosi brevemente le ultime novità riguardanti la vita parrocchiale.
Le persone in coda procedevano lente in quel rito quotidiano.
Attesi in fondo a tutti e non avendo niente da fare speravo di cavarmela con un semplice saluto.
“Benvenuto” mi salutò il pastore stringendomi la mano.
La stretta fu così energica che mi ricordò quella del mio istruttore militare.
“Il mio nome è Marco Di Giovanni e vengo da Milano”, omisi di dire tutto il rimanente e mi sentii in colpa per la prima volta dopo tanto tempo.
“È stato bello vederla con noi stamattina” esclamò il pastore, e i suoi occhi brillarono dietro le grosse lenti. Da vicino le rughe tradivano un’età che non poteva essere inferiore ai cinquanta.
E in testa aveva più riccioli grigi che biondi.
“È per caso parente di Luigi Di Giovanni?”
“Sì!”
“Ah, ma senti!
Curo questo gregge da oltre quindici anni, ma non mi sembra di averti visto prima.”
“Da piccolo venivo qui solo durante l’estate. Era mio padre a portarmi, poi appena sono diventato grande ho smesso di venire e da allora sono iniziati a sommarsi i miei errori..”
“Commettiamo tutti degli errori, siamo esseri umani.
Ma dimmi: come sta tuo padre?”
“Non è più tra noi.”
“Mi dispiace. Pensa che ancora in paese le persone più anziane ricordano l’uomo, nei loro racconti,e soprattutto il partigiano.”
“Quando sei arrivato?”
“Stamattina.”
“Sei solo?”
“Sì!”
“Allora devi farci compagnia a pranzo.”
La sua spontaneità e la sua irruente ospitalità mi fecero ridere.
“Be, ma …, non mi aspettavo questo invito …”
“Insisto, tutte le volte che nevica mia moglie prepara stufato d’agnello.
Sta cuocendo adesso.
Ci capita così di rado d’avere ospiti.”
“Ero entrato per vedere come si era mantenuta la chiesetta dall’ultima volta, ricordo che mi accompagnava Martin, la mia tata … e ho provato una forte emozione nel constatare che tutto è rimasto identico a come lo ricordavo. ”
“Sarà per noi un onore” esclamò il reverendo trascinandomi verso il pulpito.
“Dimmi cosa fai di bello a Milano”
“Sono un insegnante precario e …
Mi interruppi perché una risposta più completa sarebbe stata troppo complicata.
E per la seconda volta nel giro di pochi minuti provai il secondo senso di colpa.”
“E cosa ti ha portato qui in questo eden adagiato ai piedi del Monte Bianco?”
“È una lunga storia.”
“Splendido! Paola ed io adoriamo le storie e se sono lunghe ancora di più.
Ci metteremo comodi a tavola e se vorrai ce la racconterai.”
Il suo entusiasmo era irresistibile.
“Perché no?” mi chiesi. Al cottage non avevo nulla da mangiare e tutti i negozi erano chiusi.
Passammo dietro al pulpito e uscimmo sul retro della chiesa.
Paola stava spegnendo le luci:
“Ti presento Marco Di Giovanni e viene da Milano” esclamò il reverendo rivolto alla moglie.
“L’ho convinto a rimanere a pranzo.”
“Paola sorrise e mi strinse la mano.”
Era una signora piacevole, con i capelli neri con qualche striatura grigia, tagliati corti, e dimostrava vent’anni meno del marito. Se si era sentita presa alla sprovvista da un ospite inatteso, non lo lasciò vedere.
Ebbi l’impressione che fosse un’abitudine.
“Chiamatemi Marco, vi prego.”
“E Marco sia” decretò il pastore togliendosi la tonaca.
2)
La canonica era proprio accanto alla chiesa, affacciata su una via che portava direttamente verso il ghiacciaio. Camminammo in fila indiana a causa della neve che ricopriva la maggior parte della sede stradale.
Ogni imbarazzo riguardo l’invito svanì non appena entrai in casa, perché venni avvolto dal profumo inebriante dello stufato di agnello. Il reverendo attizzò il fuoco nel caminetto, mentre Paola si metteva ai fornelli.
Nell’angusta sala da pranzo, incuneata fra cucina e soggiorno, c’era un tavolo apparecchiato per quattro.
Mi rallegrai all’idea di non essere il solo invitato.
“Sono così felice di averti qui” esclamò il Reverendo mentre si sedeva accanto a me.
“Avevo la sensazione che avremmo avuto un ospite oggi.”
“Quel posto per chi è?” chiesi indicando il quarto coperto,
“La domenica apparecchio sempre per più persone” rispose Paola e non aggiunse altro.
Ci tenemmo per mano mentre il Reverendo ringraziava di nuovo il Signore per tutto quello che donava loro giorno dopo giorno, e quel semplice gesto che sapeva di un rituale antico,ebbe il dono di attivare la mia memoria e i ricordi adolescenziali legati a momenti felici iniziarono a presentarsi.
Fu allora che Paola se ne uscì dicendo:
“Mio marito mi ha detto che sei un insegnante, mi piacerebbe sapere come vive un docente in tempi tumultuosi come questi in una città come Milano.”
Colto alla sprovvista fermai per alcuni secondi la masticazione, deglutii, bevvi un sorso d’acqua e risposi:
“Innanzitutto cerco di sopravvivere e per quanto riguarda la mia sfera privata, in questo momento credo d’aver toccato il fondo.”
Meravigliandomi, iniziai a parlare di me. E più raccontavo, più sentivo crescere dentro un inaspettato senso di benessere. Era la prima volta che mi trovavo a raccontare ad estranei la storia della mia vita e mi resi conto che quella sorta di confessione serbava dentro di sé effetti così prodigiosi che ma avrei immaginato.
Erano quasi le tre quando mi incamminai verso la porta.
Il Reverendo e sua moglie sarebbero stati volentieri seduti a tavola o sul divano a parlare fino a sera, ma sentivo l’impellente bisogno di fare due passi e quando li lasciai intenti a salutarmi con la mano dalla veranda, portai con me l’impressione di conoscerli da sempre.
Impiegai più di un’ora per attraversare l’abitato, le vie erano strette, costeggiate da abitazioni vecchie ; però nulla era fuori posto, non un cane randagio, non un auto parcheggiata fuori dalle strisce.
Perfino la neve era pulita, ordinatamente spalata in modo che i marciapiedi fossero percorribili.
Avevo in programma di trascorrere la mattina leggendo e scrivendo.
I miei piani furono cambiati da una telefonata del Reverendo.
“Sei occupato?” mi chiese con voce stentorea.
“Beh, per la verità, no” ammisi.
Infatti me ne stavo sprofondato in una poltrona di pelle sotto una trapunta davanti al caminetto, e guardavo le fiamme scoppiettare mentre sorseggiavo caffè.
“Dici sul serio?”
“Certo!”
“Io sono nella sacrestia a fare qualche lavoretto di restauro e avrei bisogno di una mano.
Ho pensato che magari ti stavi annoiando.
Sai, qui non ci sono molti svaghi oltre il praticare gli sport invernali e tu mi hai detto che non scii, quindi….”
Ricordai il profumo dello stufato di agnello.
Ne era avanzato parecchio.
La sacrestia stava a fianco della chiesa.
Sentì picchiettare di martello dal momento che avevo aperto la porta della chiesa.
La sacrestia era un’ampia stanza dal soffitto a volta, dove si stava realizzando un’opera di ristrutturazione, iniziata da chissà quanto tempo e destinata a durare parecchio.
L’intenzione, a giudicare dai lavori già effettuati, doveva essere quella di ricostruire l’intonaco alle pareti.
Il Reverendo si trovava su un ponticello a circa quattro metri di altezza, intento a scrostare le pareti.
Aveva un cappello di carta di giornale in testa, le spalle ricoperte di croste di tinta e calcinaccio e un comune martello nella mano destra.
Indossava una camicia di flanella e un paio di jeans, la tenuta tipica del muratore.
“Grazie per essere venuto” mi disse con un sorriso smagliante.
“Vuoi sistemare la sacrestia per qualche motivo?”
“Vorrei adoperare questo spazio per il catechismo.
Ho iniziato due anni fa, ma i fondi che abbiamo a disposizione non ci lasciano scialare, così me la devo cavare da solo. Posso consolarmi nel dire che questo lavoro mi serve per tenermi in linea.
Evidentemente il Reverendo Luca non si rendeva conto che la sua linea era un bene che aveva perduto da tempo.
“Dimmi pure quello che dovrei fare, ma tieni presente che ho sempre fatto tutt’altro nella vita, e non mi sono mai trovato a fare lavori manuali.”
“Su quella panca troverai una spatola, uno scalpello e un martello. Picchia con la parte che ha le due punte, quella che si adopera per levare i chiodi e fai come faccio io.”
Detto ciò il reverendo picchiò sulla parete facendo saltare pezzetti d’intonaco.
“Vedi com’è semplice? Tu che sei alto stai a terra e inizia dalla parte opposta alla mia, così eviterai di riempirti i capelli di croste.”
Andammo avanti ininterrottamente senza parlare per oltre due ore, il chiasso che facevamo in quella sacrestia era infernale.
“Abbiamo fatto un buon lavoro e questo per merito tuo” disse dopo essere sceso a terra.
“Vieni che ci andiamo a prendere una boccata d’aria pulita.”
Rimanemmo in silenzio a contemplare il candore abbacinante del ghiacciaio.
“Dove hai imparato a fare il muratore?” chiesi rompendo il silenzio.
“Non ho mai imparato e non lo so fare, lo faccio.
Mi piace invece fare il falegname. Le porte e le finestre di casa le ho fatte io con le mie mani.”
“Come Giuseppe il padre di Gesù.”
“Leggi la Bibbia, Marco?”
“Negli ultimi tempi ho letto solo testi di storia e saggi dei più noti rivoluzionari del passato: da Lenin a Mao, i quali mi hanno procurato diversi guai, ma mi sembra di avertelo già detto.”
“Sì, ci hai aperto il tuo cuore e quello è stato un primo passo.
Comunque dovresti trovare anche il tempo di leggere la Bibbia, perché in quelle pagine ci sta scritto molto di ciò che quotidianamente ci chiediamo senza trovare risposte soddisfacenti.”
“Tu non mi conosci, non sai ancora tutto …, ho fatto cose di cui mi vergogno.”
“Hai uno sguardo buono e sono convito che tu sia una brava persona.”
“Ho tentato di uccidere un mio simile, un ragazzo che stava dall’altra parte della barricata: un fascista.”
“Ma non lo hai ucciso, avevi l’intenzione, ma Dio ha evitato che tu commettessi un peccato mortale e vi ha salvati entrambi.”
“Inizia a farsi sentire il freddo, vieni andiamo nel mio ufficio.
Riempì due tazze di caffè e cominciò a esplorare i libri sugli scaffali.
“Questo è uno splendido breviario” disse sfilando un volume, lo ripulì dalla polvere e me lo porse.
“È uno dei miei preferiti.”
Ne prese un altro e me lo consegnò: “Questo è un saggio sulla Bibbia, troverai il contenuto leggermente diverso da quelli che finora hai letto.”
Ci dilungammo in chiacchiere fino all’ora di pranzo, poi ci trasferimmo in canonica a banchettare di nuovo con gli avanzi dell’agnello.
3)
Il Reverendo sapeva ascoltare, come in gran parte sanno fare i preti, e fu grazie a quella virtù indotta o innata che finii col mettere parzialmente a nudo me stesso.
Il mio soggiorno a Sixt – Fer stava iniziando ad esercitare su di me benefici effetti, tanto che alla fine di ogni giorno mi sentivo meno angosciato del giorno prima. Perché la vita in quella comunità era semplice, scorreva lenta e senza complicazioni; il campanile della chiesa scandiva le ore a cui gli abitanti si adeguavano come degli scolaretti disciplinati. Rientravano nelle loro case a sera quando le campane suonavano il vespro e sul paese fino al mattino del giorno dopo calava il silenzio della notte.
Fu a causa di quella vita così disciplinata, ma soprattutto alla mancanza di zucchero, che una sera fui costretto a mettere fuori la testa dal guscio in cui mi ero rintanato e, attraversare furtivo la strada.
Le luci che filtravano dalle imposte, alcuni rumori provenienti dall’interno del cottage di fronte al mio, mi dettero il coraggio necessario per decidermi a schiacciare una volta per tutte il pulsante del campanello.
Dopo alcuni istanti comparve sulla soglia una signora in età sinodale, che appena seppe di cosa avevo bisogno, mi invitò ad entrare e ad attenderla seduto davanti al fuoco dove ardeva nel camino una brace scoppiettante.
Susan, che viveva sola da alcuni anni da quando il suo Pierre aveva lasciato questa terra, iniziò a parlare della sua vita e fu grazie ai suoi racconti inframmezzati di aneddoti divertenti che venni a sapere la storia del Reverendo e che Susan asseriva di custodire segretamente.
Venni così a sapere che Luca era diventato un pastore per uno strano gioco del destino, la vocazione, se mai c’era stata, gli era venuta in seguito, sorretta anche dalla consapevolezza di non poter fare niente di meglio nella vita.
Il periodo della sua formazione spirituale gli era servito soprattutto per rendersi definitivamente conto del suo orientamento sessuale. Se prima c’erano stati dei dubbi, dei momenti di incertezza, Albert, il suo maestro spirituale, glieli aveva fugati a uno a uno tutti.
Con il gruppo di studio formato dagli amici più fidati e da Albert, erano soliti riflettere spesso e volentieri sul concetto dell’amore e la definizione salomonica alla quale giungevano il più delle volte era suppergiù questa: L’amore nei confronti di un altro essere umano non è mai da considerarsi un peccato, anche se dovesse trascendere, in alcuni casi, l’aspetto più completo che il termine in sé determina.
Ma, secondo il senso comune, gli uomini di chiesa dovevano vivere la missione che erano chiamati a svolgere nel secolo in solitudine, o al massimo poteva esser concesso loro amare una donna, sposandola regolarmente, benedicendo perfino la nascita dei figli.
Ma un pastore gay, con il suo rapporto di coppia vissuto alla luce del sole, non sarebbe mai stato ammissibile.
La vicenda umana che si trovava a vivere Luca si svolgeva sul finire degli anni Settanta; in quel periodo nella congregazione delle chiese Luterane di Ginevra, iniziarono a venire alla luce i primi casi di pedofilia e i nomi dei religiosi coinvolti furono gettati nel tritacarne mediatico.
Albert, che si trovò al centro di uno scandalo gigantesco, non resse alla umiliazione e si tolse la vita.
Non fu semplice per Luca ricominciare da solo, ma credette che fosse opportuno tentare di rifarsi una esistenza in un luogo più appartato.
A Sixt-Fer giunse in un freddo mattino di gennaio, correva l’anno 1979 e aveva compiuto il suo ventinovesimo anno.
Appena quindici giorni prima della sua nomina, i fedeli di quella piccola comunità avevano dato sepoltura al vecchio pastore il Reverendo Roland.
I fedeli di Sixt-Fer erano per la stragrande maggioranza anziani e questo fu per Luca il primo aspetto positivo, tenersi alla larga dalle tentazioni. Ma in un radioso mattino di luglio, quando, seduto in seconda fila vide un uomo che mai aveva visto prima, a stento giunse alla fine della funzione in un crescendo continuo di altalenanti emozioni. Nel saluto di commiato apprese da quel distinto signore di mezza età che si chiamava Alfred Stuart, che era un colonnello dell’esercito inglese in pensione, che era divorziato e che aveva una figlia ventenne al seguito.
Paola, la figlia del colonnello, nonostante la sua giovane età era stata dimessa da un centro specializzato in disintossicazioni da droghe e alcol ed era già al suo secondo tentativo.
Sixt-Fer divenne quindi il rifugio, l’estremo tentativo per il colonnello di voltare definitivamente pagina, cambiare radicalmente la sua vita e quella di sua figlia.
Fu l’operazione più brillante della sua carriera, perché lontana dalle tentazioni delle grandi metropoli, Paola poté scoprire i valori fondamentali della vita, valori che quella piccola comunità possedeva e che sapeva donare indiscriminatamente.
L’incontro con il Reverendo fu per entrambi determinante e appagante.
Le giornate di Paola, così vuote e inconsistenti prima, si riempirono per incanto di contenuti, prese a dedicare sempre più tempo alla vita della chiesa, a partecipare alle discussioni che il Reverendo teneva con alcuni giovani.
Luca iniziò con affidarle piccole incombenze che divennero sempre più impegnative con il trascorrere del tempo. A ogni compito risolto corrispondeva una adeguata gratificazione e quella fu la chiave di svolta che la condusse verso una piena riabilitazione.
Scomparsi definitivamente tutti gli spettri dalla sua mente, Paola iniziò a vedere con altri occhi il Reverendo e a capire che lui era stato l’artefice della sua rinascita.
All’inizio si trattò solo di gratitudine, poi con il passare del tempo la riconoscenza si trasformò in amore. Così mentre Paola si scopriva innamorata del Reverendo, Luca finì con l’innamorarsi di suo padre, il colonnello.
Ho letto 2 volte questo racconto. L’ho trovato molto descrittivo, e sono entrata perfettamente nelle atmosfere rimanendone affascinata. Mi è sembrato un racconto di età vittoriana. La vera natura delle cose non può cambiare: solo in superficie avvengono certi cambiamenti, nella profondità tutto rimane immutato.
Che scrittura fluida e confortevole! Il racconto è volato via, anche se i temi che si intravvedono, più o meno esplicitamente, non sono proprio leggerissimi. Complimenti!
Questo racconto mi è piaciuto, la scrittura scorrevole e chiara. Mi permetto solo di notare che la terza parte ha una velocità diversa, sembra anche scritta più in fretta, forse perché l’autore sentiva la necessità di veicolare tante informazioni; usando un gergo da sceneggiatori direi che la parte finale ha un po’ l’aspetto dello spiegone. Sono certo che con un po’ di tempo in più anche questa parte avrebbe avuto l’atmosfera e il ritmo dell’inizio.