Racconti nella Rete 2009 “L’amore resta” di Martino Sgobba
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009Quella mattina, Carlo avrebbe preferito sentire la lama del gelo e della luce sibilargli negli occhi al posto di tutta quella insolita nebbia densa che penetrava fin dentro le ossa. Non aveva desiderio di nascondersi, di confondersi con i muri, di stare attento ai passi: avrebbe voluto camminare speditamente, con lo sguardo duro, fissare tutti in faccia e guardare oltre. Era giorno di rabbia e di tristezza. Gli sarebbe piaciuto anche sentire il ghiaccio crepitare sotto le scarpe.
Grigia e cupa, Belluno l’aveva sorpreso: era domenica, le strade ancora deserte, le chiese ancora vuote, Piazza dei Martiri ancora ritirata sotto i portici. La nebbia confondeva ogni cosa e impediva di allineare i pensieri. Risalendo dal Piave, Carlo si accorse di essere giunto in via Garibaldi. La stazione non era distante: due pizzerie e due semafori più avanti. Si era sempre sentito a suo agio in quella stazione, sui suoi stretti marciapiedi, nelle piccole sale d’aspetto, e il grande spiazzo antistante, ricoperto di autobus, gli era sempre sembrato aperto ad ogni possibilità, ad ogni direzione. Ma quella mattina tutto era fermo. La densa foschia aboliva lo spazio e il tempo; nascondeva anche il cratere rosso della pizzeria Vesuvio.
Francesca sarebbe arrivata entro qualche minuto. Carlo non la vedeva da quando l’aveva abbracciata nella calda luce di aprile della Valle dei Templi. Non ricordava se quattro o cinque anni prima, in occasione di un viaggio scolastico. Gli alunni si erano stupiti del lungo abbraccio, delle lacrime, della carezza scambiata come fossero stati due vecchi innamorati un po’ a disagio. Si erano emozionati. Non s’incontravano da quindici anni e avevano l’età in cui, pur fingendo di non declinare, si sa perfettamente che i ricordi accumulati non potranno più essere superati da quelli in attesa. Un incontro breve: quasi nessuna parola e poi un distacco secco, fuggitivo, con la bocca serrata e gli occhi lacrimati da un malinconico sorriso. Era stato il suo ultimo viaggio di istruzione. Dopo l’amicizia di quell’abbraccio, la rumorosa inimicizia degli studenti verso quel luogo di splendore lo aveva definitivamente convinto a non prestarsi più alla pena di accompagnare giovani corpi senza memoria e senza futuro.
Il treno di Francesca era in ritardo. Carlo passeggiava nervoso, cercando vanamente di scorgere in lontananza il Ponte degli Alpini, ma la nebbia era un muro denso. Era stanco. Dopo aver viaggiato per molte ore, dall’Adriatico pugliese a quello veneto, aveva ritrovato il monte Pelmo. In albergo aveva dormito poco. Il sonno aveva lasciato la scena ai tanti ricordi, alle tante parole di un’amicizia in cui i ruoli erano stati subito rovesciati: il meno saggio, il naufrago di ogni certezza, il nomade del sesso, aveva dovuto guidare l’amica travolta dalla passione, da un amore per un ragazzo troppo giovane. L’aveva ascoltata per intere notti e per intere notti aveva maledetto quell’amicizia. Alla fine, sfinito, aveva acconsentito e messo a tacere le perplessità di tutti gli altri amici con la favola di Eros che soffia dove e come vuole, anche fra i capelli di una professoressa aggrappata al ventre di Sergio, un motociclista suo ex studente.
Francesca era stata felice una primavera e un’estate. Poi la moto si era fermata, con le gomme forate da una siringa trovata dietro un libro. A Sergio non era bastato il dono di un amore eslege, di labbra che avevano imparato a baciare nell’arsura del sole, di occhi brillanti come arance e limoni, di mani calde e forti come lava. Francesca si era accorta di correre sulla corda, di silenzi che sfrigolavano fra le risate, di frenate sempre più dure e sempre più al limite, di baci sempre più ruvidi e sempre più brevi. Un libro stranamente fuori posto: forse una confessione. Così Francesca aveva capito che avrebbe dovuto raccogliere i lunghi capelli e il coraggio.
Dopo le grida e i pianti, Francesca diventò una seconda giovane madre: prese Sergio per mano, lo guidò per comunità e tante volte lo inseguì, raccattandolo sempre più stremato. Infine, un nuovo amore aveva accolto Sergio. Un amore giusto, non di confine, non da chiacchiera provinciale. Carlo riprese ad ascoltare Francesca, la sua gioia e la sua rabbia, a tacerle le labbra con le mani, quando il suono delle parole sarebbe stato troppo doloroso, a distrarla da se stessa, a cullarla come una bimba, e ricordò che mai che gli era riuscito, anche una sola volta, di baciarla e donarle il suo desiderio. Quel desiderio era apparso improvviso, quando una carezza si era fermata per un istante, per poi seguire il filo delle labbra. Avrebbe voluto chiudere quelle labbra e suggerle di ogni tristezza. Forse sarebbe stato anche facile. Il dolore stordisce e può accogliere una bufera che sovrasta ogni rumore, che spazza via ogni scheggia di polvere e di vetro dalle cicatrici. Forse sarebbe stato anche giusto. Il desiderio non ha un proprio limite e cerca ogni crepa per passare oltre il muro alto, oltre la porta chiusa. Forse. Ma la carezza si volle spegnere, perdendosi sul volto di Francesca.
Francesca aveva lasciato Belluno e, dopo troppi anni, era tornata in Sicilia. Anche Carlo era tornato nella sua terra. Chi ha trovato una seconda patria, quando torna a casa è destinato al rimpianto e alla delusione di vedere sfocati e laceri i colori, i suoni, gli odori che aveva rimpianto nei momenti di nostalgia. Così era stato per Francesca e così era stato per Carlo. Si erano sentiti per telefono e avevano atteso lettere lunghe e malinconiche, prima molto frequenti, poi sempre più distanti anche nel tempo, ma senza mai recidere il filo, che, dopo tanti anni, li avrebbe stretti in un abbraccio di quasi cinquantenni ancor apprendisti dei sentimenti. Mai una domanda più affilata di un generico “come stai?”. Mai una risposta più amara di un “come sempre”. I nuovi amori erano stati descritti con i nomi e pochi altri particolari. Di Sergio erano giunte notizie di una vita tranquilla: una moglie, due figli, un lavoro, la moto. Francesca aveva seguito quella vita con discrezione, rasserenandosi sempre più, fino a tentare di dimenticare.
La nebbia si era diradata e la motrice apparve in lontananza. Francesca scese e trovò le mani di Carlo. Non volle passare dall’albergo. Camminavano in silenzio. Riconoscevano le strade e le percorrevano come se non fossero mai andati via da Belluno. Un passo dopo l’altro, lentamente, per ritardare lo strazio. Francesca volle sedersi in un bar. Mentre sorseggiavano il caffè, Carlo leggeva una lettera di Sergio: l’ultima giunta, dopo un lungo silenzio. Poche righe raccontavano una storia già tante volte ascoltata, una vita sempre sentita come acre, avara, lo sfregio di una cicatrice a rigare sempre ogni gioia. Alla fine del biglietto, c’era una dichiarazione di resa e una domanda: “Ricordi ancora le nostre corse in moto?”.
La nebbia era svanita. Si alzarono, ripresero il cammino, e poco dopo, apparve il Ponte sul torrente Ardo. Il ponte dei suicidi silenziosi, di quelli che non sceglievano il maestoso clamore del Ponte degli Alpini. Spesso la moto si era fermata sul quel ponte, per un bacio, per fermare un respiro, per una sigaretta.
Francesca guardò in basso la poca acqua scorrere, ferirsi fra i ciottoli, allontanarsi sempre più, fino a scomparire. Nei suoi occhi apparve Sergio mentre precipitava, per poi acquietarsi nell’acqua gelida.
Carlo la prese per mano e la portò via dalle lacrime e, ancora una volta, pensò: l’amore resta.
La densa foschia del dolore si dirada…..lentamente riemergono le immagini dei ricordi….
Il gelo del tempo non ha corroso “le calde mani dell’amicizia” e ” il coraggio dell’amore vero”….
Tutto il resto è ” acqua che scorre tra i ciotoli e scompare”….
La sensibilità dell’autore, non ha confini…