Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2011 ” Papaveri ” di Martina D’Agresta

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2011

Scuote irruento i campi di papaveri rossi. E’ un sollievo poter vomitare la rabbia.

Non sopportavo i caldi meriggi.

Il vento  violento ha estinto i cieli languidi e lisci che mai acciuffavo, da ogni presa mi pareva sgusciassero. Ha maciullato le innocue e depressive  nubi di zucchero la cui stasi, solo a guardarle, mi penetrava fin nel petto, soffocavo. Ha dileguato i riverberi effimeri e lievi, la sontuosità del bianco, le sottigliezze fresche e deboli del celeste che si mescolavano al grigio afoso e invincibile. Ha disperso la fissa schiuma del cielo, che prima appariva bianca e pulita, poi, come l’alabastro al sole si gonfiava di luce, poi innocentemente diventava cenere, infine piombo tetro e tedioso: tutto era incerto, un incubo. Imprevedibili e tremule pagliuzze d’ argento danzavano sulle punte dei cipressi, in un batter di ciglia si dissolvevano, poi ricomparivano, impazzivo. Ogni tentennamento della luce, ogni suo dubbio, ogni suo indugio era un’agonia.

Non tolleravo il sudore che mi imperlava la fronte nelle torride ore, la fiacca delle gambe, l’ inerzia dei pensieri, non un refolo d’ aria. L’ indolenza estiva e silente mi angosciava.

Il vento tumultuoso ha squarciato l’ aria pesante e ferma come l’ acqua dei pozzi, ha trapassato quel cielo malato, bianco e indefinito che sembrava fatto di colla, non si lasciava respirare. Detestavo i panorami acquerellati perchè temevo di annegare orribilmente in quell’ acqua che, sinuosa, diluiva i colori di un tempo e rallentava i moti della natura e della vita. Odiavo la campagna pallida e fioca, flebili e offuscati parevano anche i rumori. Era come se l’ intera collina, e noi sopra, fosse stata rinchiusa in una spessa bolla di vetro, dove colori e suoni giungevano fumosi e smorzati e il cui ossigeno presto si sarebbe esaurito condannandoci  ad una lenta, inesorabile asfissia. Io solo me ne rendevo conto e mi logoravo.

Il vento feroce ha spazzato la bollente nebbia che addolciva ogni contorno e che pacatamente, come ovatta, attutiva gli sfolgoranti raggi d’ agosto cosicchè la luce risultasse sporca di latte e bellissima, e per questo a me odiosa.

Finalmente

Io non appartenevo a quei quadri nivei e misurati, belli e sonnolenti, pigri e lieti, nonostante li avessi dipinti con le mie stesse stanche mani. Sprigionavano una casta, bianca poesia. Mi ricordava la pelle lattea dei bambini. E mi torturavo.             

Ero sorpreso di quanto piacessero invece alle ricche dame di passaggio, che trascorrevano le vacanza estive nelle lussuose ville immerse in questa campagna. Io vedevo sbocciare i loro colorati ombrellini, più alti delle spighe di grano, ai piedi della collina, poi con pazienza risalire tutto il declivio, fino al mio cavalletto.

Non si avvicinavano mai troppo alle  mie mani nere, tremanti e meticolose; forse procuravo loro ribrezzo, forse erano abbastanza colte da sapere che un artista ha bisogno di certi spazi. Meglio così. Solo allungavano i bianchi, esili colli verso la tela, come silenziose giraffe. Ogni tanto si trasferivano dalla mia destra alla mia sinistra. Indossavano vestiti chiari e leggeri, e lunghi tanto che i loro piedini ne risultavano coperti; anzichè muoversi grazie a piccoli passi, in quella breve passeggiata, pareva che volassero, o danzassero, non so. C’ era magia nel loro modo di camminare, e in quel frusciare di seta. Solo quando posavo il pennello, rispettosamente, si curvavano sul quadro; alla vista di quel pacifico, torrido candore il loro sguardo pareva quello di una vergine, così sognante e quieto. Non capivo quella calma, neppure chi l’apprezzava.

Finalmente il vento rabbioso ha trafitto l’ umidità di perla e fuliggine. Ha rotto il dolce silenzio stagnante.

Le dame facevano a gara per accaparrarsi i miei tenui dipinti. Parlavano tra loro pacatamente. Schiudevano le labbra rosse, contrastanti con la bianca pelle tanto che parevano di lucido smalto sulla porcellana, in candidi, afosi sorrisi. Sussultavano con le loro piccole, fragili spalle; lievemente disegnavano delicate figure nell’ aria con le braccia cremose. Mi sembravano angelici fantasmi, parte dei panorami nebbiosi. Avevano un accento francese, “r” rotonde e “c” sciabordanti come ruscelli. Mi pagavano molto. Io odiavo quelle misurate discussioni, e quei paesaggi rilassati.

Per realizzarli avevo fatto uso delle tinte più labili della tavolozza. Dove altri coglievano bellezza e pace campestre ed estiva, io solo scorgevo angoscia e presagio di morte: bianco diafano, bianco esangue e cadaverico, grigio spento, stravolto e malsano, grigio livido e dissanguato, celeste sfuggente e nebuloso, vago. Era un supplizio per me dipingere un cielo enorme e immobile quando dentro non provavo che tormento. Delle mie budella non restavano che macerie disumane, io le sentivo galleggiare, a volte mi risalivano fin in gola. Avrei voluto potermi dimenare, invece quelle piccole, precise, ravvicinate, sempre uguali pennellate lattiginose mi costringevano alla disciplina, all’ autocontrollo, all’ equilibrio, mi consumavano. Come gridare con un candido, morbido cuscino premuto con furore sulla faccia. Le mani mi tremavano e mi dolevano atrocemente.

Non ero capace di ridipingere sulla tela, tal quali le osservavo con gli occhi, le sfumature evanescenti delle nubi di calore, l’ indeterminatezza della pace. Le mezzetinte mi sfuggivano ineluttabili. Spargevo addolorati sospiri nell’ infinita campagna, poi, con le mani, mi nascondevo il viso di carbone, arso e indurito dal sole; così mi imbrattavo di bianco e di grigio perla. Quegli schizzi di latte sulla pelle morta erano tutto ciò che avevo in comune con i quadri calmi e appannati.

Paesaggi soffusi, lontani e dentro me grida. Colline sbiadite, accoccolate nella canicola estiva, e nel mio cuore gelo.

Finalmente il vento impetuoso si è svegliato. Ha liberato la campagna dall’ angosciosa, bianca fissità. Ha spezzato le immacolate, impalpabili piume del cielo. Ha lacerato i veli d’ afa grevi e uggiosi. E’ un sollievo poter sputare la rabbia mentre il vento sferza e ferisce i fragili papaveri rossi, e il cielo si fa sempre più nero. Finalmente posso esprimermi con franchezza. Non seguo alcun sistema di pennellata, concedo alla mano affranta i suoi voli dissennati, di ripetersi e accavallarsi con violenza disperata.

Il cielo è cupo e funesto. Il vento sano e forte urla e recide gli steli dei cagionevoli papaveri. Sfodero un nero profondo, come la mia pelle e il mio cuore incenerito, per riprodurre questo soffitto luttuoso. Bagno la punta assetata del pennello di uno squillante rosso sangue, che rappresenti la congestione dei fiori dilaniati. I miei segni sono nervosi, maldestri, tormentati, intensi, brutali,terribili. Ho tanta foga che presto di un’ immensa distesa di papaveri  ne faccio un agonizzante groviglio, una deforme macchia scarlatta che si agita e geme sulla tela. Un cielo tombale, basso e tragico, si fa complice di questo scempio, sembra tuonare.

Finalmente posso sfogare la collera, dare colore e forma alla sofferenza. Il mio male ha i moti del vento furibondo, passa, strazia e poi torna, fa turbini e mulinelli, e mai mi lascia. Impetuose pennellate di sangue prendono la forma di spirali frante e spigolose, sofferte, inquiete, strozzate. Piango come un bambino, martoriato dai vortici sferzanti.

Sono un papavero dai petali sgangherati. Sono un padre che ha visto morire il proprio figlio. Cadde mentre correva, le manine ed il curioso sguardo d’ argento protesi verso una bianca farfalla. Battè la testa. Morì sul colpo. Aveva sette anni. Lo volevo crescere e formare a modo mio. Gli volevo insegnare a dipingere cieli estivi.

Sono un pittore inutile, ed un uomo che nemmeno più esiste. E pur senza più figlio, per sempre padre. Questo cielo oscuro, orrido e ingiusto resta a guardare le mie pennellate che si contorgono e si sovrappongono come mani inconsolabili. Come bocche digrignate. Come brandelli di fegato. Come fasci di muscoli che strappati dalle ossa schizzano l’ uno a cavallo dell’ altro, e si torgono e si annodano. Non c’ è pace nè riposo nel mio quadro, solo verità. Già so che la verità non sarà compresa. Nessuna facoltosa dama avvolta nella seta vorrà comprare questa tela raggelante. Io chiedo soltanto di potervi entrare, e di potervi rimanere in solitudine in eterno, come eterno sarà il mio dolore. Il mio posto è tra questi papaveri sparsi spersi, battuti e lacerati.

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5 commenti »

  1. Struggente e intenso, come il dolore di un padre che perde un figlio. Ma è Monet il pittore qui rappresentato?

  2. Prima di tutto grazie Rita per il tempo che hai dedicato a leggere il mio racconto. Il personaggio che ho rappresentato non è Monet, è piuttosto più simile a Van Gogh: ammira i pittori capaci di sottigliezze, di effetti spattacolari e alla moda, prova ad emularli, ma rimane sempre insoddisfatto. Sente che quei dipinti lustri ed eleganti non lo rappresentano. Avverte soltanto la necessità di esprimere ciò che prova:la solitudine, l’ inconsolabile disagio interiore, la rabbia e la tristezza, il proprio nero dolore. Durante un temporale che spezza la banalità estiva, in cui i colori sbiaditi finalmente si accendono ed il silenzio diventa rumore, trascina la pittura fuori dal tempo e seppur male, inizia a dipingere la verità, perchè la verità è brutta. Ogni pennellata diventa catartica, sacra. Deve per forza l’ arte essere elegante, radiosa ed armoniosa per essere arte? Deve essere riconosciuta necessariamente dalle accademie, o dall’ opinione pubblica? Ci tenevo poi a precisare che volutamente questo racconto è sospeso nel tempo , cioè non si capisce in che epoca siamo, nè chi sia precisamente questo pittore dall’ indole molto simile a quella di Van Gogh, perchè il dolore di un padre che vede morire il proprio figlio è sempre lo stesso, in tutte le epoche, come ci suggerisce anche il Carducci nel titolo della sua poesia “Pianto ANTICO”

  3. Grazie per la tua spiegazione, Martina. Avevo pensato a Carducci (del resto, Pianto antico è, secondo me, una delle più belle poesie mai scritte), ma non a Van Gogh. E rileggendo il racconto, in effetti, si mede di lui. Mi piace anche molto questo essere sospeso nel tempo, come di dici tu: l’arte, del resto, è universale nel tempo e nello spazio.

  4. Un’immersione nel fonema ricercato e nell’aggettivazione dimenticata. Un bagno in un passato che si accoglie come una visita di un vecchio amico che non si è mai compreso del tutto, ma che non si può smettere di ascoltare.
    L’unico rischio e di trovare un lettore stanco, che si perda fra “i meriggi, il tumulto dei venti e i paesaggi soffusi”, non più avvezzo a tal parola.

  5. Sì hai ragione Pierfrancesco, (spero di poterti dare del tu), ma in questo caso visto che sta parlando un pittore di non si sa quale epoca, e vista l’ importanza e la delicatezza del tema, mi sono divertita a sperimentare questo tipo di linguaggio. Grazie della critica e di aver letto il mio racconto.

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