Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2025 “A dromedary’s dream” di Gianni Cesari

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025

A Mario Rigoni Stern, nel gennaio 1943, Giuanìn chiedeva sempre: “Sergentmagiur ghe rivaren a baita?” perso nella neve della campagna di Russia,coperto di pezze e stracci, trascinando la slitta delle sue povere cose congelate, inebetito dalle sberle che ogni fiocco ghiacciato gli abbatteva sul viso, gli occhi strettissimi, quasi accecato dal fulgore del bianco, sfinito e demoralizzato, prima di sparire nel plasma lattiginoso della nebbia calante, glaciale antipasto delle temperature polari, nella notte oltre il Don.

Sono le quattro del mattino e la lunga fila di non ancora morti e spettri prematuri compare sulla cresta della duna: vergate sui polpacci con i tubi di gomma, spinti come agnelli a Pasqua verso la spiaggia, la battigia e il barchino, con un motore da 40 cavalli e sei taniche di carburante per l’intera traversata. Ahmed era con la mamma fino al giorno prima, tredici anni di stenti, in fuga dal sud Sudan, popolazioni subsahariane recitano asettici i bollettini Frontex, senz’acqua nè cibo, una felpa di pile, le braghe corte, le infradito. Davanti a lui c’è, nero, il mare: perfida distesa che ammutolisce chi lo teme perché non sa nuotare. Si ferma un istante prima che il trafficante, armato fino ai denti, gli passi il salvagente di polistirolo, facendoglielo sbrigativamente allacciare in vita e parandolo poi a bordo a furia di sputi, spinte, calci e bestemmie.

Rannicchiato a poppa, nello scafo in vetroresina, come in una bolla al vapor d’acqua, il ragazzo si arrende al dondolio, quattro gallette e un’aranciata nei tasconi dei bermuda sono il suo tesoro più grande. Cullato dal susseguirsi lento delle onde forza zero confonde carezze e brezza, lieve alito di vento e profumato respiro materno, porto sicuro, quello si, dove trovare conforto nell’abbraccio che lo rende impermeabile al brutto del mondo.

La nave del deserto, il dromedario, chissà cosa sogna quando dorme, le lunghe leve ripiegate, offrendo riparo al suo conduttore. E non è vero che non beve mai perché nella gobba ha riserve idriche: nella gobba c’è il grasso che consumandosi la affloscia, se non mangia per giorni e del resto cosa potrebbe mangiare un ruminante nel deserto? Sogna dunque il dromedario, sogna datteri, fichi secchi, castagne, senza riccio, castagne a montagne anche se non le ha mai viste. Ahmed invece, narcotizzato dallo sciabordio, rimane tra la veglia e il sonno e si ritrova trasformato in un Tuareg vestito di lana blu, in sella al dromedario che fende le sabbie come una torpediniera in mezzo al mare, dando di frusta sul fianco della sua cavalcatura per raggiungere la mamma, un puntino sempre più lontano. Supera i marosi il dromedario ma il puntino lontano non si avvicina mai. Le castagne, frutti prelibati di una boscura ignota, restano sospese a mezz’aria, tra il mare, la nebbia e le planate di un immaginario drone sulle rive di una spiaggia che svanisce,freezandosi in dissolvenza.

Il sole precipita a ovest e la notte ghermisce il guscio di noce con i suoi provvisori occupanti, indifesi davanti al rischio di poter essere inghiottiti, a tradimento, da una burrasca levatasi senza preavviso .

Una tempesta di sabbia impenetrabile avanza, magmatica fumosa foschia rossastra, il puntino si allontana, il dromedario e il suo fantino oscillano paurosamente, accelerando la corsa per non essere sopraffatti dalla nube purpurea, traguardando tra le pieghe del turbante il minuscolo obiettivo che, polverizzandosi, si confonde con il cielo. Mentre il ragazzo si ripara dalle ondate con un cartone, ormai fradicio, la litania orientaleggiante della “Fata Morgana” dei Dissidenten rimbomba sul cielo agonizzante di tempesta, tenendo prigioniero il cuore di Ahmed, essere infinitamente piccolo in un mare infinitamente grande che ancora non gli dischiude nessun orizzonte ottico.

Il dromedario ha smesso di sognare, deve badare a dove mette lo zoccolo binario, un passo avanti l’altro, lato sinistro lato destro, per non sprofondare nelle sabbie mobili o restare imprigionato ai piedi della duna. Spietata e senza rispetto l’onda si abbatte sul viso del ragazzo, sollevando una cresta di schiuma già vista in una stampa di Hokusai.

Un vecchio concerto di Battiato passa in TV: lui biancovestito snocciola metafore, criptiche ed eleganti, cesellate da Giusto Pio con virtuosismi strumentali, inframezzandole con espressioni in arabo: A-ssalam’ alaikum’ alaiki1.

La fascinazione mistica fa da soundtrack alla elettrostimolazione, in zona rem, che attraversa le palpebre screpolate del ragazzo.

E passa il primo giorno di navigazione,in un’odissea lisergica dove fame, sete, stanchezza, solitudine si sommano al naufragio dei sentimenti e dei ricordi, precursore di quello vero, sempre prevedibile, mai messo in conto solo per scaramanzia. Due crackers sbriciolati e due sorsi di bibita gassata calda sono sufficienti a rifocillarlo mentre sopraggiunge la bonaccia e il motore tossisce e fumacchia. Arriverà ancora la notte e il mare si alzerà di nuovo, quasi a voler divorare il barchino che ormai non ce la fa più. Il faro salvifico di una motovedetta della Finanza rischiara lo specchio d’acqua in cui arranca il battello, mentre tutti, uomini, donne incinte e bambini con le sole mani a cucchiaio, ondeggiando paurosamente, con la forza che solo la disperazione può dare, gettano fuori bordo il liquido oleoso che sta inesorabilmente sommergendo il natante. Le esortazioni del nocchiero, dalla murata della vedetta, sembrano perdersi nel frastuono delle onde, qualcuno vuole tuffarsi, sperando nel salvagente, ma viene fermato. Due finanzieri abbordano la barca, assicurandola alla loro con le cime, intimando a tutti di star fermi e seduti. Poi inizia il trasbordo, uno per volta. Ahmed è l’ultimo, senza nessuno ad accompagnarlo, non rivedrà mai più la mamma, sparita dietro la duna, spinta via a cinghiate e insulti da un aguzzino sconosciuto. Il finanziere lo consola, fissandolo negli occhi arrossati dalla salsedine e dal pianto, gli mette un braccio al collo e lo porta a sedersi con uno scappellotto.

La coperta isotermica, un foglio di alluminio double face resistentissimo e sottile che non lascia traspirare il sudore, fa il suo lavoro assicurando un lieve tepore al corpo infreddolito del ragazzo mentre, accovacciato a prua della vedetta, Ahmed vede avvicinarsi il molo Favaloro, con le sue tettoie, quello dove sbarcano tutti, sfiniti, al termine della traversata, certi di non tornare più indietro. Per ora i poliziotti, scortandolo nel “compound “ per minori, gli hanno fatto buttare il salvagente. La zuppa di ceci più buona del mondo, un panino con un petto di pollo arrosto, un muffin al cioccolato, che mangia solo per metà, conservandolo come un gioiello prezioso, sono il pranzo più sontuoso che abbia mai consumato in vita sua. Non ricorda quelli preparati dalla mamma, ma nel sogno, stendendosi sulla branda che quattro ore a testa divide con altri tre ragazzini, si vede davanti ad un cumulo di gusci marroni arrostiti sul fuoco vivo, dai quali escono perle d’oro caldissime una volta in bocca. Frutti sconosciuti che il dromedario, ricomparso dietro di lui, fissandolo in modo interrogativo, gli chiede di spartire insieme, da buoni amici.

Arrivano le scarpe e una tuta nuovi, uno zainetto dove ancora vuole custodire l’aranciata e due crackers. Ma insieme agli abiti sopraggiunge anche il trasferimento al centro di accoglienza, sulla terraferma, in una comunità per minori immigrati in attesa di riconoscimento dello status di rifugiati.

Il ricordo della mamma è sempre presente: chissà come farà a sopravvivere, se troverà un imbarco anche lei, se mai si ricongiungerà con lui. Da quando è sparita alla vista, dietro la duna, dieci chilometri prima della spiaggia, consegnandogli solo la bottiglietta di plastica e le gallette, si è come volatilizzata, disperdendosi nel turbine rossastro della tempesta desertica.

Piange Ahmed, ma le lacrime le ha finite da tempo, piange solo nella cabina del traghetto, nel letto a castello della comunità, quando si risveglia ogni mattina, cullato dal sogno del dromedario, che ondeggiando nella uadi lo porta, principe degli uomini blu, a salvare la sua mamma prigioniera dei cattivi, ne sente l’alito caldo e profumato, il tenero abbraccio e quando sta per afferrare la sua mano riapre gli occhi, perdendola per sempre.

Ma non deve e non può disperarsi, ha solo tredici anni, il mondo nuovo gli si offre come un frutto da cogliere. Ma come, dove e soprattutto con chi ?

Il dromedario sogna, ogni notte, quasi volando sugli orizzonti dell’Europa, a lui mai apparsi prima, di trasportare il ragazzo verso una pianura ordinatamente coltivata, striata da nastri argentei, canali e fiumi che scorrono verso il mare, con ampie anse vallive onuste di ninfee fiorite, oche e aironi che attraversano il cielo, le une dal veloce volo gli altri dall’incedere maestoso, fino a vedere una città antica dal cielo coperto di polveri sottili. Presagisce un futuro che porterà Ahmed proprio là dove ancora non lo aspettano.

I giorni scorrono veloci, con gli educatori che inculcano le prime nozioni di italiano: N’aam=si, Lla=no, Mazian=va bene, Yalla namshi= andiamoe le interminabili partite di calcio nel campetto parrocchiale.

Poi un mattino ecco che, con il responsabile del centro, arrivano un uomo e una donna dall’aspetto pulito e dignitoso, non indulgono in smancerie. Ahmed non sa come sia fatta le gente di pianura, ferrata al lavoro, alla fatica ed alla vita all’aria aperta, abituata a quell’acqua dolce che, come il mare, lui teme tanto non avendola mai vista in estensioni così vaste. Il dirigente della struttura spiega cosa sia una famiglia affidataria e dove andrà a finire ma lui, che gli specchi d’acqua e le pianure verdeggianti li ha visti solo in fotografia, già trema immaginando il suo corpo africano esposto alle temperature inusuali o peggio alla neve. Alla fine ci andrà. Il dromedario arranca su per l’argine di Reno, troppo coperto d’erba per i suoi gusti, mangia castagne e sputa i gusci, ciondola più del normale, dirigendosi verso un chiaro da caccia dove s’immerge nell’acqua bassa per bere.

Ahmed si tira su il cappuccio della felpa immaginando che sia il turbante del principe nomade, scrutando l’orizzonte in cerca di quel puntino smarrito nel bollore del deserto. Non vede nessuno e lo spaventa quel paese di vecchi e badanti dove alla sera, dopo la scuola, la palestra e il corso di italiano, lo riportano a dormire i suoi affidatari: un medico e una maestra, sorridenti e affettuosi, genitori/orfani di un figlio morto in un incidente lungo queste strade, dove l’alternanza spietata albero-canale-albero non da scampo, titillata dal tedio etilico in cui qui soccombono i sabati sera.

Il Maestro intona “la Cura” e Ahmed, col suo italiano stentato si lascia avvolgere più dalla melodia che dal testo: “perché sei un essere speciale” pensano i suoi nuovi genitori, “perché sei un essere speciale” pensa lui della mamma svanita in un tremolante miraggio. “Ed io avrò cura di te” gli promettono i due abitatori della pianura, senza più un figlio da piangere, “ed io avrò cura di te” pensa il dromedario, nell’immaginario notturno,del suo principe guerriero, paracadutato in mezzo a terra e acqua, distante un’eternità dal sole rovente, dai datteri e dalle castagne, sconosciute e sognate ogni notte, insieme,per aiutarlo a rimanere vivo.

Giuanìn dell’Africa è arrivato a baita Mario! Da solo, via dal calore del deserto e dal freddo della steppa, nel mondo nuovo,ormai sconosciuto anche a te, ha oltrepassato le onde, lasciandosi dietro la paura,le stupide guerre dove perdono tutti, la nafta nella sentina e il vomito dei compagni. E’ approdato in Occidente,senza dover ringraziare nessun dio: per lui andare avanti sarà come attraversare il Mediterraneo, piatto e liscio di giorno ma famelico e infernale di notte. Un quarto di luna proietta sulla Statale 16 l’ombra del dromedario che se ne va.

1 Possa la pace , la benedizione e la misericordia di Dio essere su di voi

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