Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2025 “Sciogliere la rabbia” di Salvatore Pisani

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025

Non ci aveva visto più. Le aveva mollato un potente ceffone. Adesso il viso di Nadia era sfigurato da cinque dita, stampate sulla pelle delicata come un fiore spuntato nel posto sbagliato. Ma lei non poteva fare tutto quello che le passava per la testa. Prima avrebbe dovuto parlarne con lui. Non provò alcun rimorso per lo schiaffone che gli era sfuggito via dalle mani, come se non si trattasse di una scheggia impazzita. Era solo un segnale. Un segnale educativo.
Il rispetto. Il rispetto veniva prima delle relazioni. Il rispetto verso se stessi precede l’amore. Che vuoi che sia una sberla data a fin di bene?
Non la pensava così suo suocero quando, saputo del fatto, venne a chiederne ragione. Nadia era il bene più prezioso della sua vita. Su di lei poteva mettere la mano sul fuoco. In fondo cosa gli aveva chiesto? Partecipare con un suo collega a un meeting per informatici sull’intelligenza artificiale. Un meeting dove si parlava anche di cybersicurezza ed erano presenti degli hacker di fama internazionale, che lavoravano per le istituzioni, da questa parte della barricata. Era un convegno di grande interesse professionale. Gino non aveva alcun diritto d’impedire a Nadia di parteciparvi.
Il vecchio insisteva. Gino s’era scusato già due volte. Cosa voleva di più? Suo suocero pretendeva che la figlia partisse con Coso, come si chiamava, Giuseppe. Uno che le sbavava dietro. Neanche per sogno. Se col matrimonio gli aveva affidato Nadia, ora spettava a lui rispettare le consegne, sorvegliare sulla sua sicurezza e incolumità. Non se ne parlava nemmeno che ci andasse sola con quel tipo.
Vuol dire che non hai fiducia in lei, obiettò il suocero. Nossignore ribatté Gino, ho fiducia in lei ma non nel suo collega. Devo proteggerla, capisci? No, suo suocero non capiva. Disse che Nadia restava a casa sua perché voleva andare al convegno, e lui non poteva impedirglielo.
Non si aspettava questa decisa reazione dal vecchio. Più in generale, non era abituato ad avere ostacoli nelle sue decisioni, soprattutto quelle che riteneva giuste per il bene suo e di Nadia. Sentì montargli qualcosa d’inevitabile, quello che in certe circostanze è un passaggio obbligato e che qualcuno chiama semplicemente rabbia. Da dov’era uscito quel coltello da cucina? Non era uscito da nessuna parte, era già lì sul tavolo che attendeva di essere sistemato nel cassetto, dopo la cena che aveva consumato in solitaria.
Non aveva altro modo. Altrimenti, il giorno dopo, Nadia sarebbe partita per Napoli, con Coso.

Quando si rese conto di aver accoltellato il signor Barbero, Gino se ne pentì. Che aveva fatto? Si guardò le mani sporche di sangue come se non fossero le sue. Il vecchio si era accasciato, non dopo aver emesso un urlo atroce, da bestia gravemente ferita. All’urlo era accorsa la figlia. Era in auto in preda a un’ansia indescrivibile, ad attendere il padre. Pensava che il suo matrimonio fosse finito, era quasi isterica al pensiero che lo avesse messo in crisi un convegno di cybersicurezza. Quando udì l’urlo, uscì dall’abitacolo come una saetta e bussò con disperazione alla porta di casa. Gino le aprì con le mani insanguinate. Che hai fatto, disgraziato! urlò, facendosi strada nel corridoio fino alla cucina. Suo padre rantolava in una pozza di sangue, non aveva ancora perso i sensi. Cercò di sollevarlo, ma non ce la fece. Gino si accostò e le diede una mano per caricarlo sull’auto. Ti accompagno in ospedale, le propose, con voce spezzata. Neanche per idea, fu la sua risposta.
Partì di gran carriera, sgommando sull’asfalto lordo di sangue. Lui rimase per un tempo imprecisato a guardare l’auto, che non c’era più.

Quando i carabinieri vennero a cercarlo, lo trovarono a casa. Era incerto se recarsi in caserma per costituirsi. Era colpevole, senza dubbio. Ma non riusciva ancora a capire come era giunto a quel punto. Si era quasi sentito obbligato a comportarsi in tal modo.
Ai militi disse che avrebbe potuto scappare ma era rimasto a casa ad aspettarli. Aveva chiesto alla moglie di accompagnarla in pronto soccorso col padre ferito, ma lei era troppo stravolta per acconsentire. Potevano chiederle, lui l’aveva aiutata, come avrebbe fatto sennò a trasportare da sola il ferito dalla cucina all’automobile?
Scortato in caserma, aveva confessato tutto. Mentre raccontava ciò che era successo, si chiedeva se l’avrebbe rifatto, e quel che lo preoccupava era che la sua risposta non era decisamente negativa. Riviveva quei momenti come un passaggio obbligato. Non era ancora convinto che Nadia avesse il diritto di andare a Napoli in compagnia del suo collega. Una coltellata in pancia al suocero continuava a essere una motivazione sufficiente per convincerlo del contrario.

Il padre di Nadia l’avevano salvato per il rotto della cuffia. Aveva perso molto sangue, e avevano dovuto asportargli un metro buono d’intestino. Gino era finito nelle patrie galere. I reati contestati erano violenza di genere nei confronti della moglie e tentato omicidio del suocero. Lo aiutava il fatto che non avesse precedenti, così aveva detto il suo avvocato, che l’aveva tartassato con domande importune. Sua moglie poteva scordarsela, aveva affermato. Altro che meeting informatico saltato, viaggi di lavoro per aggiornamenti e congressi professionali d’ora in poi ne avrebbe potuto fare quanti ne voleva.
Piuttosto, l’avvocato voleva sapere se aveva alzato le mani su di lei altre volte. Gino era propenso a rispondere di no. Frugò nei meandri della memoria. C’era quella volta che avevano litigato per la partita. A lei piaceva il basket, seguiva la squadra di Casale Monferrato, dove giocava un suo compagno di scuola. Lui le aveva impedito di andarci. Aveva faticato a convincerla. L’aveva bloccata sulla soglia di casa e le aveva sussurrato all’orecchio che aveva voglia di fare sesso con lei. Nadia c’era cascata. Però era stato bello, nessuna violenza su di lei, le era piaciuto. No, non era il caso di parlarne all’avvocato.
Un’altra volta, invece, aveva insistito che voleva vedere una nuova partita. E le sue nuove avances non erano bastate. Aveva dovuto fermarla con la forza. Non avevano fatto sesso, quella volta. Anche a lui era passata la voglia. Non poteva farlo per dissuaderla ogni volta che c’era una partita… Aveva semplicemente chiuso la porta di casa e requisito le chiavi. Nadia s’era chiusa in bagno al piano superiore e aveva pianto tutta la sera.
Poi c’era l’episodio in cui era andata al cinema con una sua amica ed era rientrata a casa dopo le due di notte. In quell’occasione s’era comportata male lei, non l’aveva avvisato. Perciò anche lì grida e sberle. Nadia aveva ammesso che aveva sbagliato, ma non capiva il perché di tutti quei ceffoni.
Sì, disse all’avvocato, c’è stata un’altra volta quando è andata al cinema con una sua amica. Dopo il cinema se la sono spassata in qualche locale a bere, lei non mi ha avvisato, e quando è rientrata nel cuore della notte ho perso le staffe e le ho dato un paio di schiaffi. Lei aveva torto marcio, l’ha pure ammesso.

Al terzo colloquio, nell’infermeria del carcere, mi sono beccato un pugno sul naso. Il paziente aveva quasi scontato la pena, il collega psicologo mi aveva detto che per cinque anni si era comportato bene. Poi, quando la moglie gli aveva chiesto il divorzio, s’era infuriato. Se l’era presa col compagno di cella per il solo fatto che lo aveva canzonato, che sarà mai liberarsi di una rompicoglioni, così gli aveva detto. In tal modo aveva aggravato la sua situazione, l’avevano messo in isolamento per il pestaggio.
Alberto lo conosco dai tempi dell’università, mi aveva chiesto di visitare il detenuto per un parere. Era disperato. La psicoterapia con Gino sembrava avesse funzionato, da quando era in galera aveva avuto l’effetto di sciogliere la rabbia: tutto lasciava pensare che si rendesse conto del male fatto. E invece… una richiesta della moglie contraria alla sua volontà, e cinque anni di colloqui buttati nel cesso. Secondo lui, la mia consulenza poteva essere utile. Non ho mai trattato con uomini aggressivi, ma per lui si trattava di dipendenza, per questo mi aveva coinvolto. Ma dipendenza da cosa? avevo obiettato. Dipendenza unicamente dal suo pensiero, aveva ipotizzato. Sarebbe lungo da spiegare. In pratica, se il suo pensiero non veniva assecondato, il paziente veniva invaso da un accesso d’ira, e non gli restava che sfogarla con la violenza.
Al primo colloquio mi ero fatto raccontare i fatti che l’avevano condotto in carcere: potevo sbagliarmi, ma mi sembrava sinceramente pentito di quello che aveva commesso. Al secondo ero risalito fino alla sua adolescenza quando, a causa del biglietto di un concerto di Zucchero negatogli dal padre, in un impeto di collera aveva spaccato una dozzina di piatti della cucina. Avevo tentato di farmi spiegare che cosa provava poco prima che gli montasse la rabbia. Al terzo colloquio avevo forse calcato la mano.
Gli avevo chiesto di immedesimarsi in Nadia: come si sarebbe comportato se avesse ricevuto uno schiaffone e poi avesse avuto suo padre accoltellato dalla sua partner? Non era più che sufficiente per una domanda di divorzio? In un attimo, senza quasi accorgermene, avevo sentito un gran male al naso.

Quello che successe subito dopo, credo, cambiò le cose. Invece di alzare la voce o di adirarmi, raccogliendo il mio sangue freddo e celando una certa paura, dissi che, vista la sua reazione, avevo due possibilità. O denunciavo la sua ennesima aggressione al responsabile delle guardie carcerarie, o lui dava un segno dell’inutilità della sua rabbia: tanto per cominciare, chiedere scusa al suo compagno di cella, e poi imparare a contare fino a dieci, prima di qualsiasi incazzatura. Veda, aggiunsi, io ho la possibilità di scegliere, lei invece no, se si trova costretto a fare solo ciò che gli detta la sua ira. Prima di rivederci, dunque, attendo la sua decisione.

Me ne andai coprendomi il naso con un fazzoletto di carta pulito, uno striato di sangue l’avevo appena gettato nel cestino dell’infermeria. Avevo quasi la certezza che la mia esperienza con il paziente si sarebbe fermata lì. Non ero esperto di psicoterapia per uomini violenti, credo che oggi l’offerta terapeutica in tale campo sia insufficiente, ci si rivolge più alle donne che di solito ne costituiscono le vittime, ma non sono le sole. Non mi feci medicare, sgattaiolai fuori dal passo carraio del carcere e non dissi nulla ad Alberto. Dopo dieci giorni mi chiamò. Al telefono aveva un tono di voce che sfiorava l’euforia. Caro dottor Lentini (mi chiamava spesso per cognome, non tanto per celia quanto per una sorta di venerazione a mio giudizio ingiustificata), ci avevo visto bene ad affidarti il caso, disse. Ma cosa vi siete detti, l’ultima volta? Ha firmato, ha concesso il divorzio alla moglie.

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