Racconti nella Rete 2009 “Zingara” di Stefano Frilli
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009
Cosa potresti dirmi? Un’altra bugia? Raccontarmi un sogno che non prevede realizzazione?
La piccola zingara, vestita da un folle pittore, appare dall’angolo della casa e rallenta il suo rapido passo nel vedermi. Come il cane che fiuta una traccia, si torce nel fermarsi e nel gesto plastico di tendermi una mano. Il suo giovane volto color foglia d’autunno si alza e si reclina lievemente; poi si spacca in un sorriso di maniera, mostrando i bianchi denti irregolari. La mano che mi porge è semichiusa, tra il pugno e l’appiglio.
Vuoi solo qualche spicciolo o vuoi colpire la mia apparente integrità? Forse vuoi offrirmi una possibilità. Ma cosa potresti dirmi, se non un’altra bugia!
Il tempo di un mio pensiero per lei è stato troppo lungo e l’ha tradotto in un rifiuto: rientra su di sé reinserendo la mano nelle sue vesti e chinando il capo; poi riprende il suo rapido passo.
È il terzo turno del semaforo che lascio passare senza attraversare la strada. Guardo le automobili che passano e, distrattamente, osservo il lavavetri che propone il suo servizio agli autisti fermi all’incrocio.
È qui ogni giorno: mi aspetto di trovarlo come di trovare un mio collega dietro alla sua scrivania.
Ha scarpe pesanti e vestito triste di poche tinte, due pretenziose basette, scure rispetto al colore della corta capigliatura, e larghe bretelle, che evidenziano una pancia bassa e pronunciata, come da gestazione.
Il capo si muove cercando il favore dei suoi interlocutori, aiutato da goffe gesticolazioni e incerte parole, pronunciate in mille lingue, che formano il suo personale dialetto.
Lavare, pulire: azioni che non trovo in sintonia con l’aspetto di quell’uomo.
Riprendo la mia strada, lasciandolo là a respirare i gas di scarico e le imprecazioni.
Poco oltre inizia un giardinetto, luogo di passeggio e servizio per cani e loro accompagnatori.
Ce ne sono alcuni che sento parlare. L’argomento principale sono sempre i cani e viene da domandarsi come sia possibile ogni giorno avere novità da raccontare. Tuttavia li vedo parlare di questo per lunghi momenti, mentre i loro animali scambiano odori e sapori tra di loro e con l’ambiente.
Continuo sul marciapiede, evitando le biciclette con un’attenzione che i loro conducenti non sempre ricambiano. Poco oltre, la strada a cinque corsie passa sotto la ferrovia creando una cunetta, la cui risalita impegna un po’ troppo i ciclisti. Così questi preferiscono usare per il transito il marciapiede, che è rialzato rispetto alla strada e corre quasi in piano.
Due passi nei giardinetti ed arrivo al breve ponte di ferro pedonale che permette di attraversare il torrente Terzolle. Una rapida occhiata alle papere e agli altri uccelli che stazionano sulle rive del fosso, poi un rapido pensiero ai ricordi narrati da Lorenzo il Magnifico delle sue avventure vissute lungo la valle di quel corso d’acqua e alle mie, forse meno nobili, ma non meno eccitanti.
Eccomi dinanzi alla scuola dove ho studiato i cinque anni delle superiori: un istituto tecnico pieno di aule e ragazzi, posto nella allora periferia popolare della città, a duecento passi o poco più dalla casa dove sono nato.
Un palazzo con un grande cortile cinto da muri, tre piani di finestre e tre bandiere ostentate come obbligatorio ornamento: la sua visione, a volte il solo pensarlo, mi riporta sempre al bellissimo periodo in cui lo frequentavo.
Dovevo sì studiare, ma quante altre meraviglie erano legate a doppio filo col fatto di essere là!
Sarebbe un elenco arido ricordarle ora, perché ciascuna di queste memorie meriterebbe un’attenzione, che vedrò di riconoscerle in prossimi scritti, e solo citarla la svuoterebbe dell’importanza che ha avuto nella mia vita, il mio crescere e formarmi.
Come ai tavoli delle mense dei piloti d’aereo veniva lasciato il posto vuoto per chi non è tornato dalla missione di guerra, così nel mio cuore ci sono dei posti vuoti in memoria di chi con me ha studiato ed oggi non è più in questo mondo.
Un posto per Guido, splendido mediano di rugby, schiantato con la sua cinquecento contro il semaforo proprio sotto la mia abitazione. Che corsa all’ospedale per poter solo condividere la disperazione con la sua donna e gli altri amici accorsi.
Un posto per il genio di Luciano, che suonò la sua chitarra elettrica fino in fondo, sdraiato sul letto quando non riusciva più a contrastare il tumore che gli rodeva le ossa.
Ancora un posto per Marco, compagno di tante fughe! Anche per lui un tumore, che gli ha dato tempo di sposarsi ed avere un figlio, ma non di vederlo crescere.
Tre anni fa ho rischiato di veder lasciato, nel cuore di qualcun altro, un posto vuoto anche per me. Un dolore al petto, una corsa all’ospedale… Infarto.
La capacità e l’esperienza dei medici, unite alle moderne tecnologie, hanno risolto il problema.
Tra le buone abitudini, da coniugare alla terapia con i farmaci, c’è quella di fare passeggiate a piedi. “Almeno un’ora al giorno, almeno ci provi!” raccomandò il cardiologo ed eccomi ad utilizzare la pausa per il pranzo per fare una passeggiata.
Gli itinerari non variano molto e spesso filano via su ricordi legati a quelle strade e a quei luoghi dove sono cresciuto.
L’esempio più evidente è il fatto che prediliga tornare a mangiare il mio panino proprio nello stesso locale, posto di fronte alla scuola, dove andavo quando studiavo là. E col panino prendo anche la spuma, bevanda nota solo dalle nostre parti, e la scelgo bionda, come allora.
Un’occhiata all’orologio mentre addento il filoncino al prosciutto e formaggio: le una e trenta. Tra un attimo sciameranno i mille motorini dei ragazzi che hanno terminato le lezioni. Mi affaccio alla porta del locale per vederli uscire dal cancello della scuola.
Ad un tratto accade qualcosa di anomalo, come se la musica, che conosci bene e stai ascoltando, per un incomprensibile motivo cambiasse.
Il vocio che si sente venire dal cancello non è quello dei ragazzi, non è festante, anzi, sono grida.
Infastidito dall’imprevista anomalia, esco dal locale per capire l’origine del clamore.
Vedo subito alcuni motorini in terra, ma non vedo automobili ferme: forse avranno colliso tra di loro nell’uscire. Mi avvicino e individuo tra la gente una signora, che urla più delle altre persone, piange ed impreca, stendendo un braccio verso l’asfalto. Ancora cinque passi e vedo a terra, quasi nascosto da un’automobile in sosta, un fagotto di vesti di mille colori. Si, è la giovane zingara.
La ragazza aveva sottratto la borsa a quella signora e, nel fuggire lungo il marciapiede, si era trovata la strada chiusa dal flusso dei ragazzi in motorino in uscita dalla scuola. Incalzata dalle grida della signora e da un giovane che si era lanciato all’inseguimento, aveva tentato di passare ugualmente, ma uno studente in motorino l’aveva urtata e gettata a terra. Altri due motorini erano poi rimasti coinvolti nella caduta.
Ora si è formata una piccola folla intorno alla signora, che ansima e si tiene la mano destra sul petto. Muove il capo a desta e sinistra, trema di stizza e paura sulle scarpe a tacco basso, continua a maledire la zingara e tutti “quelli come lei”.
Qualche metro a me più vicino, i ragazzi si sono alzati ed hanno rimesso in piedi i loro mezzi. La velocità degli urti non era forte e nessuno di loro si è fatto male. Anche i motorini sono tutti efficienti e qualche graffio in più non si nota sulle carrozzerie già provate dalle loro disavventure. Senza troppo preoccuparsi delle cause e degli effetti delle cadute, sia loro, sia i compagni che si erano fermati a sincerarsi delle loro condizioni, ripartono verso le loro diverse mete.
La zingara è sola. Colpita, dolorante e forse ferita, altrimenti si sarebbe alzata e avrebbe tentato di scomparire; invece riesce con difficoltà a respirare.
“Qualcuno ha chiamato un’ambulanza?” urlo “Questa ragazza sta male…” e mi avvicino a lei.
Dall’assoluta indifferenza delle altre persone intuisco che i soccorsi non sono stati chiamati: guardo la ragazza e cerco di rassicurarla: “Chiamo un’ambulanza, vedrai che non è niente di grave!”
Lei non comprende e riesce a dire solo “No, no, no…” ma io ho già il cellulare in chiamata al centodiciotto.
Spiego velocemente la situazione e fornisco l’indirizzo, poi mi volgo verso la ragazza: “L’ho chiamata, ora arriva…”
Lei mi offre ancora il suo irregolare sorriso e ancora mi tende la mano.
Per un attimo incrociamo gli sguardi: cerco di leggere i suoi pensieri, ma i suoi occhi tornano a socchiudersi.
Le prendo la mano: stringo un umido insieme di sangue e sudore, fremito e calore.
Ora siamo lei ed io, il resto del mondo è come nella nebbia, non ho sensi che per lei.
Cerco con l’occhio la ferita da cui esce il sangue che ha sulla mano: ne vedo una sulla gamba sinistra, non sembra grave.
All’arrivo dell’ambulanza alzo il capo e mi accorgo che intanto le altre persone si erano allontanate, forse ritenendo che la punizione per la ladruncola fosse stata sufficiente.
Senza molte parole, ma con chiari gesti, gli inservienti dell’ambulanza mi scostano dalla zingara ed iniziano a verificarne le condizioni.
“Ha una ferita sulla gamba” Indico il punto. “Si, si. Ci lasci fare, è in buone mani. Lei è un parente, un amico?” mi dice quello che pare il caposquadra.
Già, cosa sono io? Niente, non sono niente. Sono solo uno cui quella poverina ha teso la mano. Così taccio, mentre gli infermieri parlano tra loro e confermano che non c’è niente da temere.
Ormai la zingara è sulla barella e la stanno mettendo nell’ambulanza. Con uno sforzo alza il suo capo e ancora mi porge la mano.
Un sussulto, uno slancio e le sono a fianco “Dimmi, posso aiutarti? Dimmi…” e le stringo la mano.
Ancora si incrociano gli sguardi e tra i suoi denti imperfetti esce una frase confusa, che ripete tre volte, sempre uguale.
Sono lì in piedi mentre la barella si allontana e la mano mi sfugge: tra le dita ho una piena sensazione di vuoto
Rimango stupito di non riuscire a capirla. Ha detto qualcosa in un italiano incerto, semplice e diretto: eppure una parola non la comprendo e, con essa, tutta la frase perde senso.
L’ambulanza parte lanciando il grido della sua sirena nell’aria.
Rimasto ormai solo, realizzo che la vicenda è passata: potrei andare a lavarmi le mani e finire il mio filoncino al prosciutto e formaggio, se mai il mozzicone, che avevo abbandonato insieme alla spuma nel locale, non avesse fatto gola a nessuno.
Invece rimango là, colto dall’angoscia di aver ricevuto una richiesta che neppure ho compreso e che non potrò soddisfare.
Mi giro intorno e… ecco! Vedo gli zoccoletti che la zingara aveva ai piedi, volati via al momento dell’urto.
Ecco quel che voleva: le sue scarpe e “scarpe” non lo avevo capito!
“Non avrà gettato al vento quelle parole!” mi dico, mentre raccolgo le scarpe e le ripongo in un sacchetto.
Andando di passo buono alla mia automobile penso “Sicuramente l’avranno portata al vicino ospedale ed è là che inizierò a cercarla!”.