Premio Racconti nella Rete 2024 “L’enigmatico nonno enigmistico” di Fabrizio Biuso
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2024Ero nuovo ai lutti.
La vita mi aveva risparmiato penose preghiere serali per l’incolumità dei miei nonni. Avevo dovuto concentrare tutte le mie forze su di uno soltanto, il mio preferito. Dire che lo fosse non era corretto nei confronti degli altri e speravo che questo mio pensiero non venisse udito dalle loro presenze ultraterrene. In fin dei conti, non li avevo mai conosciuti. O per lo meno, non ne avevo ricordi. Ma era e sarebbe stato così anche se ne avessi avuti, ne ero sicuro. Mi bastava guardare le loro facce serie incorniciate nell’argento, oppure tenere in mano quegli spaventosi ricordini dalle dimensioni di santini. Non c’era gioia in quei vecchi volti sorridenti su paradisiaci sfondi azzurri. Quindi sì, anche se li avessi conosciuti, il nonno enigmistico -era così che lo chiamavo- sarebbe stato comunque il mio preferito.
Dentro di me pensavo anche a quanto avessi contribuito alla sua morte: crescendo, avevo ridotto la frequenza delle preghiere serali dove chiedevo che la Grazia del Signore scendesse su di lui. Si celava forse dietro questa mia negligenza la sua morte? Non me la sentivo di chiederlo a mia madre. Aveva troppe cose a cui pensare e poi mi vergognavo. Non avrei saputo resistere alle sue accuse, nel caso avesse confermato il mio concorso di colpa nella morte dell’amato padre.
Come risultato, adesso mi trovavo nella vecchia cameretta di mia madre, che i nonni avevano adibito a studio/magazzino da quando si era sposata. Avevo sempre odiato quella stanza buia e fredda. Era a nord, e riceveva l’umidità su ben tre lati. Inoltre ogni stanza era collegata all’altra e questa era in fondo, oltre quella da letto dei nonni, lontana da raggiungere. L’odore di stantio che per me aveva un sentore di polvere mista a borotalco e muffa, mi aveva sempre tenuto lontano da quella stanza.
Mia madre buttava uno sull’altro i vecchi vestiti imbustati e infeltriti dall’umidità al sapore di naftalina. A me toccava sistemare le altre cose. Decisi di cominciare dalla libreria. In fondo se c’era una cosa che il mio caro nonno mi aveva trasmesso era il piacere per la lettura. Mi ritornarono in mente i pomeriggi d’estate passati a leggere all’ombra del pergolato dove sventolavano le foglie di vite. Facevamo a gara a chi leggeva più velocemente. Baravo e continuavo a leggere anche a casa la sera pur di vincere. Passavamo così interi pomeriggi e il tempo volava. Solo ora riconosco che lo faceva per stimolarmi; e aveva fatto bene, perché da allora non ero più riuscito a separarmi dalla lettura. Ero stato come vetro incandescente nelle sue mani di esperto plasmatore. Allora lo chiamavo “nonno”, perché in quelle cinque lettere era già racchiuso tutto l’amore del mondo. Crescendo però aveva sostituito sempre più la lettura dei libri con le parole crociate, forse perché i suoi occhi si affaticavano con più facilità. Era diventato così il nonno enigmistico, con il quale avevo iniziato un nuovo sport di coppia: io leggevo e lui scriveva. Quando ero stanco di leggere e mi annoiavo, lui mi rivolgeva le domande che potevo rispondere oppure poggiava il giornale sul tavolino, allungando verso di me la pagina dove potevo giocare a riempire gli spazi o connettere le linee. Adorava anche i rebus, ma quelli mi annoiavano. Quando gli chiedevo di tornare con le sfide di lettura, lui declinava con maggior decisione e meno vigore. Avrei dovuto capire che si stava spegnendo, ma me ne rendo conto solo ora. Povero nonno, se solo avessi pregato di più, magari saresti ancora qui vicino a me?
La casa senza di lui appariva più piccola, piuttosto una tana maleodorante. E quella stanza era davvero minuscola seppur zeppa di roba vecchia e ricordi. C’erano ovunque scatoloni, alcuni sigillati, altri aperti. Tutti ricoperti di polvere. La libreria era la vera regina della stanza. Ricopriva il lato lungo, quello opposto alla porta. Era piuttosto un insieme di tavole inframezzate da pezzi di legno rozzamente inchiodati l’uno all’altro. Al posto dei chiodi ormai c’erano piccole ragnatele e batuffoli di polvere. Nessuno spolverava lì ormai da mesi. Riviste di giornale ed elenchi della settimana enigmistica sembravano gli articoli di più recente consulta. Lì la polvere non aveva ancora ingrigito i colori. Quelle pagine piene di quadrati bianchi e neri; quando avessi dovuto ricordare mio nonno, l’avrei fatto pensandolo seduto sulla poltrona, in cucina, alla luce della cappa aspirante del fornello, con la testa quasi dentro le pagine e la sua piccola matita appuntita poggiata sull’orecchio. O con un libro all’ombra della vite, d’estate, insieme a me. A proposito di libri, uno catturò la mia attenzione. Nell’angolo di sinistra della libreria, quello sotto la parete ammuffita, ce n’era uno grande dalla copertina azzurra e lettere dorate in parte cancellate. Realizzai con orgoglio cosa mi aveva attirato: quel libro era stato rimosso dalla sua posizione di recente, perché alla base c’era molta meno polvere che intorno agli altri libri. Lo presi e soffiai senza che perturbassi quella superficie sbiadita dal tempo. Lo riconobbi all’istante! Il tamburo di latta di Gunther Grass. Sentii girare la testa e dondolai sul posto. Mia madre mi guardò con aria interrogativa, ma era troppo dentro i suoi di ricordi per preoccuparsi delle mie azioni. Il tamburo di latta! Non so quante volte avessi visto mio nonno leggere quel libro in vita sua. Decine di volte? Era così grande che io non so se ci sarei riuscito nemmeno una! Ma sì, quello doveva essere il suo preferito. Di tanto in tanto glielo vedevo sfogliare tra le dita. Leggeva qualcosa, alzava gli occhi al cielo e li richiudeva come se fossero versi di poesie che lasciava decantare nella sua testa. O stesse piuttosto pregando. Perché poi lo richiudeva, come la Bibbia e lo riportava a posto. Decisi che quello sarebbe stato il suo testamento per me. L’avrei letto in suo onore. Misi il libro nello zainetto poi ripresi con il lavoro di pulizia dei vecchi scatoloni.
La sera mi sentivo stanco e svuotato. Avevo dovuto soccorrere più volte mia madre e impedire che annegasse in quei ricordi di nylon e polvere. Era caduta di peso nel guardaroba che stava svuotando. Tra gli abiti c’erano ancora quelli della madre, rimasti come avesse aspettato un suo ritorno. E invece ora era tutto finito. Volevo dirle che non era così, che c’eravamo ancora io, mio fratello, mio padre, che la vita andava avanti. Cercai di rincuorarla promettendole che avrei letto tutti i libri migliori della libreria del nonno a partire da quella sera e le avevo mostrato Il tamburo di latta. L’avevo rialzata tra sorrisi e singhiozzi.
Ora, disteso nel mio letto prima di dormire, potevo iniziare la lettura. Le pagine erano ingiallite e spruzzate di puntini bluastri. L’odore era quello della stanza dalla quale l’avevo prelevato. Ne toccai con l’indice il bordo. Le pagine erano porose e avevano assorbito umidità, ma la copertina era ancora ben rigida. Mi chiesi cos’avesse trovato mio nonno di così unico in quel libro così pesante. L’aprii, accarezzandolo, poi poggiai la costola sul palmo di una mano e con il pollice dell’altra iniziai a far scorrere velocemente le pagine. Il quel frullio odoroso di cellulosa e di muffa notai un rigonfiamento anonimo più o meno al centro del libro, ma la pagina esatta mi sfuggì. Tornai a far scorrere le pagine, cercando di rallentarne la velocità. Si trattava di due pagine attaccate, sicuramente l’effetto dell’umidità. Presi il fermacarte e lo inserii con delicatezza nell’unico punto in cui le pagine non si baciavano. Alla minima pressione si staccarono con un clic di foglia autunnale e si aprirono come ali di farfalla. Al centro della pagina, delle dimensioni di un ricordino, di quelli che mi incutevano timore, c’era una foto in bianco e nero che ritraeva una donna che non conoscevo in una posa da diva; aveva una coroncina in testa e una veste che lasciava indovinare le morbide forme tonde e poco atletiche. Dalla mano sinistra, che poggiava su una colonnina di marmo, un bracciale con una pietra tonda emergeva oltre la veste. Conoscevo quel bracciale, era quello di mia madre! Ma la donna nella foto, seppure giovanissima, non somigliava nemmeno lontanamente alle foto che avevo della nonna. Girai la fotografia dai contorni irregolari e cercai di leggere nella grafia arabeggiante del nonno. Fortunatamente la conoscevo bene e riuscivo a distinguere le lettere in quella successione di linee sghembe e oblique.
Rosa, Maggio ‘39
Che il tuo amore possa darmi la forza.
Giugno ‘40
Più in basso, a matita, la stessa calligrafia del nonno, ma più tremolante, aveva inciso le seguenti parole: ‘Perché è giusto che scopriate’. 333-345-90-145-501-412-260-398-296-473-106-336-493-274-252-325-279-134. Il nonno doveva aver aggiunto queste informazioni in un secondo momento, ormai da vecchio a giudicare dal tratto poco sicuro. Ma cosa dovevamo scoprire? E chi era quella Rosa che aveva lo stesso bracciale della mamma? E cosa rappresentava quella serie di numeri?
Trovai mai madre ancora sveglia e le chiesi di chi fosse il bracciale e quando lo aveva ricevuto. Mi rispose con quel tono perso e vacuo di chi reagisce per inerzia, senza volontà. Era un regalo di battesimo. A cui il nonno teneva tanto, aggiunse poi. Me ne andai prima che potesse aggiungere altro, lasciandola al suo vuoto dolore.
Rimaneva ora da capire cosa significassero quei numeri. Quella donna era in qualche modo stata molto legata al nonno, ma la mamma non la conosceva.
Il sonno mi prese chino sulla foto mentre mi chiedevo quale messaggio volesse recapitare l’ormai enigmatico nonno enigmistico.
Nei giorni seguenti dedicai sempre meno tempo alla soluzione di quel puzzle di numeri. Gli impegni scolastici e le pulizie dei libri nella vecchia casa presero tutte le mie energie. L’unica scintilla che continuò ad ardere in me fu la curiosità di trovare altre foto disseminate nei libri. Non trovai nulla, né alcuna menzione alla serie di numeri.
Di lì a qualche settimana avevo completamente rimosso la serie di numeri. L’unica promessa che stavo mantenendo era la lettura di quel libro unico. Era strano realizzare come una storia così difficile da leggere potesse risultare tanto affascinante. Quando mi imbattei in quel tratto circolare di matita che circondava la parola VASO, non gli diedi peso. Forse mio nonno aveva trovato originale quell’oggetto nel contesto. La sera successiva trovai cerchiato l’articolo DAL. Quella ancora seguente la parola FILA. Fila dal vaso! Saltai sul letto. Poteva suggerire qualcosa da scoprire? Mi trovavo a pagina 134 del libro. Scorsi le pagine a ritroso. Gli altri cerchi si trovavano a pagina 90 e 106. Quegli stessi numeri apparivano nella serie scritta dietro la fotografia. Avevo trovato la soluzione! Scorsi velocemente tutte le pagine menzionate e ne trascrissi le parole.
Per la risposta definitiva sarei dovuto andare fino al cimitero, trovare la tomba dietro al vaso sulla terza strada, tenendo la destra, quarta tomba della prima fila.
La riconobbi subito. Era la stessa foto in bianco e nero che il nonno conservava nel libro. Rosa Cantini, N.27.03.15. La data di morte era coperta dal vaso d’ottone. Lo spostai ma non vi trovai nulla dietro. Non c’erano fiori per quella povera donna che mio nonno aveva amato. Il suo ultimo alito di vita si era forse estinto con quello di mio nonno? Rovesciai il vaso, ma non cadde nulla dall’interno. Cercai un’incisione nel marmo freddo, ma fu un altro tentativo a vuoto. Rilessi tutto ciò che era riportato sulla lastra.
Era morta il 06.08.41. Era il giorno in cui mia madre era venuta al mondo! Poteva questa essere una coincidenza? Quella donna era morta prima del battesimo di mia madre e il bracciale non poteva averglielo regalato lei. Capii e barcollai verso l’uscita del cimitero.
Ero nuovo ai lutti. In poche settimane non solo avevo seppellito il mio enigmatico nonno enigmistico, ma anche l’amore della sua vita, la mia nonna biologica, la madre di mia madre. C’era forse un’altra famiglia là fuori ad aspettarmi?
Scritto molto bene, pieno di odori e immagini. La scoperta degli “indizi” che portano allla risoluzione finale ti tengono lì, fino all’ultimo sorprendete interrogativo. Complimenti!
Bello, nostalgico e capace di stimolare la curiosità.
L’enigmatico outing postumo del nonno è un gesto d’amore, verso il nipote e la Verità.
A me sembra che la tua penna abbia inchiostro a sufficienza per affrontare imprese più grandi.
Un saluto.
Grazie Marco e Leonardo. Fa piacere sapere di essere riuscito a trasmettere un’emozione.
Bellissimo racconto, scritto con un linguaggio impeccabile ed evocativo. Mi è piaciuto come ha preparato il colpo di scena finale, che arriva imprevisto e sorprendente (non era facile, visto lo spazio del racconto riuscire a costruire il climax senza mai strafare). Ma la cosa che mi ha colpito più di tutti è l’incipit: semplice, geniale evocativo, che riprendi alla fine a chiusura. Complimenti!
Hai scritto un racconto commovente e intrigante allo stesso tempo.
L’incipit è perfetto, poi ti affidi a un’introduzione un po’ lenta, ma sai condurci in modo magnetico verso il sorprendente finale.
Mi è piaciuto molto. Complimenti!
Una scrittura ricca di particolari, certamente nostalgica ed evocativa che coinvolge il lettore in un labirinto di emozioni e di curiosità fino al sorprendente finale. E’ un racconto letterariamente solido, corposo, che lascia un segno.
Un bel racconto, e viene anche molto bene, a mio modesto avviso, la scelta di non descrivere il nonno nel suo aspetto esteriore ma solo attraverso le sue letture, la sua passione per l’enigmistica e… per una donna rimasta nascosta nei suoi enigmi. Interessante anche la chiusa finale: nessuna facile morale, solo la curiosità per un lato della vita del nonno che apre ad altri scenari (di cui l’interrogativo posto alla fine costituisce di certo l’incipit e non l’epilogo).