Premio Racconti nella Rete 2011 “La sorella” di Gabriella Ferrari Curi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2011Cesarina guardò la sorella a lungo, per imprimersi bene nella mente i suoi amati lineamenti. Pensò con gratitudine a quanta compagnia si erano fatte negli ultimi dieci anni. Ogni sera quando rincasava era una gioia con Rosetta lì seduta al tavolo della cucina che fungeva anche da tinello, ad aspettarla. Dietro la finestra con le tendine inamidate che guardava nella piazza grande.
Cesarina, mentre metteva a scaldare la cena, le raccontava tutto, la sua giornata di lavoro e cosa aveva provato quando la Tilde le aveva rivelato in gran segreto che aspettava il secondo bambino, senza essere sicura di chi fosse il padre… “Ma ci pensi Rosetta, un altro bambino! Immagina se anche noi avessimo avuto un bambino, un bel putein!”Quanti discorsi, quante confidenze, pensieri intimi che Cesarina non avrebbe potuto raccontare a nessun altro.
“ Rosetta mia, che magone a doverti lasciare. Sì, hai ragione, adesso che verrà l’Hermann racconterò tutto a lui. Ma non tutto tutto, perché sai bene come sono gli uomini, che si annoiano ad ascoltare le nostre cose di donne. Sono impazienti, loro. Non che voglia subito lamentarmi dell’Hermann, che lui è proprio un brav’uomo e sono contenta che ci sposiamo e poi con te mi posso sfogare anche se ci divento un po’ rossa, ma qualcuno nel letto mi manca, che io sono stata sempre una donna calda, e già adesso al pensiero… uh, perché l’Hermann è proprio un bel maschione, e anche ben attrezzato. Ma cosa mi fai dire!” Cesarina fece una carezza affettuosa alla sorella, sui capelli setosi, tinti in un morbido color mogano, quello della “Kerastase” il numero 17.
“ E’ proprio un bel colore! Quasi quasi lo faccio anche a me, cosa dici? La minestrina è pronta tra un minuto. Preparo subito la tavola. A te, per la nostra ultima sera, metto davanti il piatto azzurro della povera mamma, che ti piace così tanto. E un bel bicchiere di Lambrusco frizzante. Viene da vicino a Castellazzo, ti ricordi i Borri? dalle loro vigne. Ecco cara, e buon appetito. Scusa, ma dov’ho la testa! Con tutte queste emozioni mi sono dimenticata il grana, un bel cucchiaio, che con la pastina dà un buon sapore….”
Cesarina aveva quasi cinquant’anni. Anzi doveva essere già sui cinquantaquattro ma lei, con aria innocente, barava un po’. Sapeva di dimostrarne di meno, con quella pelle liscia e cremosa, lo sguardo allegro e il fare peperino. Si era trasferita in quel paese della pianura lombarda a tredici anni per entrare a servizio dalla signora Romilda. Povera diavola anche lei, che dopo aver lavorato quasi tutta la vita nella merceria proprio in piazza di Torre d’Isola, le era venuto un bel coccolone. E invece di godersi finalmente i soldi che aveva messo via risparmiando come una formichina, li aveva buttati alla grande in medici e medicine. Per darle una mano in casa un compare del suo paese le aveva mandato Cesarina. “ E’ una brava figliola, onesta. Forte come un mulo.”
Così Cesarina, tra lacrime e speranza, si era trasferita in quella terra straniera. In mezzo a nuvole di zanzare, grigia, e nell’acqua sotto e sopra, otto mesi l’anno. Avendo però un’indole ottimista pian piano si era abituata ai modi grezzi e mugugnosi della gente del posto, al cibo a base di riso, alla lontananza dalla sua affettuosa famiglia. Pensava: tengo duro una decina d’anni, metto via un po’ di soldini e ritorno al paese a trovarmi un marito. Un brav’uomo delle mie parti, con cui mettere su casa, fare un paio di figli e finire i miei giorni con lui mano nella mano, come la mamma col babbo.
Purtroppo la signora Romilda che era sempre lì lì per morire, durò altri vent’anni. Vent’anni di medici, iniezioni, sciroppi, clisteri e pannoloni. Cesarina pian pianino ci si era affezionata e la teneva pulita e profumata come una principessa. Ogni giorno se la portava a spasso per il paese, seduta sulla sua sedia a rotelle che sembrava in trono, ben vestita e pettinata e il viso bianco e rosa di una bambina. Che Cesarina aveva una mano delicata in queste cose, e occhio con creme e profumi.
Una bella domenica di sole, come se avesse preso finalmente la sua decisione, in quattro e quattro otto e senza perdere tempo in chiacchiere inutili la signora Romilda morì. Cesarina, piangendo come una fontana, la vestì per l’ultima volta e la sistemò per la veglia funebre. Tutti poterono verificare di persona che con le sue cure, nonostante gli anni di malattia, era diventata quasi attraente, lei che da giovane non aveva avuto neanche la bellezza dell’asino, come dicevano da quelle parti. E siccome si era sparsa la voce, addirittura molte donne anche dalle frazioni intorno erano venute apposta a vedere da vicino che miracolo aveva fatto. La povera Romilda, con i suoi radi capelli gonfiati dalla lacca e distesa serena nella sua bara aveva un’aria così fresca e pimpante, che tutte avrebbero voluto essere come lei.
Alla sua morte Cesarina si trovò sola e con un piccolo gruzzolo che la sua
assistita, senza parenti, le aveva lasciato. Così, fece un corso di tre mesi per avere un diploma da appendere al muro e aprì un salone di bellezza, “l’Istituto Cesarina” unico in tutto il paese.
Vista la pubblicità che senza volerlo le aveva fatto la defunta Romilda, ebbe un gran successo da subito.
Cesarina era felice. Si sentiva arrivata. “ Estetista “ si ripeteva ogni tanto, perché il nome le suonava bene, più che se l’avessero chiamata avvocato o dottoressa.
“Sì, io sono l’estetista del paese”, diceva con importanza appena conosceva qualcuno di nuovo.” L’unica.”
E’ che purtroppo tanta gente nuova da lì non passava. Soprattutto di maschi nuovi. Gli altri erano tutti sposati, ingabbiati da famiglia e figli.
Cesarina la sera o il sabato e la domenica, quando l’ “Istituto” chiudeva, non sapeva che fare. Tutte grandi amiche, le donne del paese, molte anche clienti affezionate. Che si confidavano e le chiedevano consigli. Ma la sera e neppure la domenica non facevano mai nessun programma con lei. Anzi la Mocchetti Ida, quando c’era stata la comunione di suo figlio Germano, che Cesarina aveva visto crescere, non l’aveva neanche invitata alla festa che aveva fatto al Ristorante Boschetto, che avevano affittato tutto per l’occasione e decorato con palloncini bianchi e rossi.
“ E’ che i posti a sedere erano tutti a coppie e tu ti saresti sentita a disagio a dover stare al tavole delle vedove scompagnate. Tutte più vecchie di te e anche un po’ tristi”, si giustificò imbarazzata quando aveva notato che Cesarina ci era rimasta male.
Piccola di statura, con il corpo un po’ tozzo ma bello sodo, le gambe corte e muscolose, la faccia forte da contadina, gli occhi birichini e ancora l’accento generoso della sua terra d’origine, si poteva considerare una donna piacente. Qualche volta, soprattutto d’estate, era andata a ballare in qualche balera dei paesi vicini, per non suscitare pettegolezzi. Ma nonostante il suo modo di fare alla mano e ingenuamente seduttivo, un marito non se lo era proprio trovato. Anche se lei ormai si sarebbe di molto accontentata.
Si trovò invece un amante. Un camionista. Una pasta d’uomo che faceva avanti indietro ogni settimana per la “Milano-Genova” e che una sera si era fermato a Massaua a dormire, perché il suo camion aveva avuto un guasto. Veniva dalla Baviera, dove viveva in una cittadina vicino a Monaco con una moglie grande e bionda come lui e un paio di ragazzini. Con la sua risata esplosiva e le sue grandi bevute di birra, che si era accumulata tutta sul ventre prominente e teso come un tamburo, alla Cesarina era piaciuto subito, seduto sull’alto sgabello del bar del “Dancing Honolulu”. Eccome, se le era piaciuto! Tanto che il giovedì chiudeva il suo “Istituto” alle sette, “ Vado a trovare una mia vecchia zia”, e con la sua macchinetta andava all'”Hotel Moderno” sperduto nella campagna di Bereguardo. Portava con sé ogni volta o un bel tegame di pasta al forno o degli agnolotti ben conditi. Perché nei dintorni ristoranti e trattorie chiudevano presto. Mentre lui, senza perdere tempo in tante smancerie, la voleva subito, così, quasi senza spogliarla. Solo dopo qualche ora, finalmente appagati, pensavano a svuotare il cesto con tutto il suo ben di dio. Non mancava mai la birra. Ma anche una bella bottiglia di frizzante Lambrusco. Un giorno, buttando giù l’ultima forchettata di un’intera teglia di lasagne al forno, come fosse stata l’ultimo pasto di un condannato a morte, Hermann cupo in faccia avvisò Cesarina che non avrebbe fatto più quella tratta. La sua ditta lo destinava al nord dell’Europa. Glielo disse, e poi in lacrime e anche un po’ ubriaco per l’ultima volta l’ abbracciò stretta quasi da stritolarla.
Per Cesarina incominciò una solitudine che le rodeva dentro ora più che mai, perché non c’era neanche l’attesa esaltante dei suoi speciali, segreti giovedì. Una sera, che svogliatamente stava guardando un giornale, la sua attenzione fu attirata da un’offerta pubblicitaria. Il suo viso prese subito colore e la sua mente incominciò a lavorare. Era un’idea azzardata, ma tutto, nella sua vita, non era stato semplice. Eppure guarda dove era arrivata! L’ordine lo fece in grande segretezza addirittura da Pavia. Si fece mandare il pacco anonimo al fermo posta dove tra mille peripezie andò un venerdì sera a ritirarlo. Nottetempo, pregando la madonnina santa che nessuno la vedesse, con molta fatica portò a casa il suo tesoro: la bambola “Payme Patty”.
La tolse dallo scatolone anonimo in cui era stata piegata e la gonfiò con cura con l’apposita pompa in dotazione. Le ci volle quasi mezz’ora. A lavoro compiuto l’osservò con aria critica. Anche se la Patty era la bambola più semplice del catalogo nel quale l’aveva scelta, era assolutamente necessario farle alcuni ritocchi. Ma lei che nel frattempo aveva studiato con cura le foto, se l’era immaginato. E aveva preparato in casa tutto il necessario. Quella che richiese maggior impegno fu la bocca, per farla diventare normale, che a vederla così spalancata le faceva anche un po’ impressione. Dopo un lavoro paziente di silicone, con la biancheria che aveva comperato e i vestiti, nonché una bella parrucca color mogano, la bambola gonfiabile Payme Patty, ormai irriconoscibile, era diventata Rosetta: la sua amata sorella.
Di lei ne parlò con tutti: “ Mia sorella è venuta dal paese a passare un po’ di tempo con me. Lì ormai non c’è rimasto più nessuno della famiglia…La Rosetta non cammina molto bene, per un difetto alle gambe e quindi non esce… Ci facciamo molta compagnia e non smettiamo mai di ridere. Per questo ci piace starcene per conto nostro“, alle donne che curiose adesso la invitavano perfino al bar “Moka” in piazza per prendere insieme un caffè prima di tornare a casa a preparare la cena: erano curiose di vedere in faccia la nuova arrivata che sembrava, dalle descrizioni, graziosa e simpatica.
Quando rincasava, già in strada a Cesarina si allargava il cuore a scorgere dietro le tendine tirate la sagoma della Rosetta che l’aspettava. E anche preparare la tavola per due, chiacchierare, guardare insieme la televisione, mangiare un dolcetto prima di augurarsi la buona notte. Davanti a quel paese di gente chiusa e diffidente non era più la zitella da compatire con un pizzico di trionfante malignità: “ Povera Rosetta. Farà un sacco di soldi con il suo “Istituto”, ma la sera, sola come un cane!” – e da lasciare in disparte, perché: “Ragazze, se si è un po’ furbe, non si invita a casa una donna libera e ancora sulla breccia. Che magari il marito può farsi venire il ghiribizzo. “ Una donna indipendente! Con il suo appartamento dove può invitare chi vuole! “Che si sa, l’uomo è cacciatore! E’ nella sua natura. E gli basta poco per farsi venire le fantasie. Anche al più onesto. ”
Sorrisini.
Le aveva indovinate le chiacchiere di quelle bigottone gelose e malfidenti! Anzi proprio quella ficcanaso della Mocchetti, la più disinvolta di tutte, una sera si era presentata a sorpresa a casa sua con la scusa di farle controllare uno sfogo che le era improvvisamente apparso sulla faccia.
“ Sarà mica stata la crema che mi hai messo oggi per il massaggio ?” le aveva domandato come scusa e intanto in anticamera allungava il collo come un’oca pronta a entrare di slancio. Cesarina ferma ma gentile l’aveva spinta con forza sul pianerottolo.
“Scusa se non ti faccio venire in salotto, ma la mia Rosetta ha un po’ di influenza e si è appisolata sulla poltrona. Non voglio disturbarla che stanotte ha dormito poco per la tosse ” la congedò sussurrando.
E quante risate poi con la Rosetta dopo il batticuore di quella visita improvvisa e quando l’aveva imitata, facendo la bocca stretta a culo di gallina, come faceva la Mocchetti quando si sentiva furba.
O come la volta che era arrivato l’Arrigo. Aveva un po’ bevuto, lo si sentiva dall’alito greve a metri di distanza. Di soppiatto una sera, dopo il lavoro, era entrato silenziosamente dietro di lei nel portoncino e l’aveva seguita sul pianerottolo buio, brancicandola malamente con le mani dovunque e sbavandole ansimante sul viso. Grugniva: “ Dai, che so che ti piace. Una donna sola come te…”
Lo aveva spinto via facilmente, perché era forte, Cesarina.
“ Sei via di testa? Cosa ti viene in mente? Lasciami stare e vattene. Che poi mia sorella si arrabbia ed è capace di mettersi a strillare così forte che arrivano i pompieri anche dai paesi vicini!”
Perché ora anche lei aveva una famiglia, una sorella amatissima con la quale trascorrere serena il tempo libero e che le faceva da scudo protettivo. E al diavolo tutte e tutti, quei villani!
Erano passati quasi otto anni in compagnia di Rosetta quando, inaspettata come un fulmine, arrivò dalla Baviera una lettera: “ Cara Zesarina, io in pensione e finito lavoro. Mia frau morta e ragazzi partiti. Non te mai dimenticato. E pensato sempre con grandissimo amore e nostalgia. Io arriva tra tre giorni. Se vuoi sposo te e viviamo sempre insieme. Aspetto tua risposta che spero ja. Tuo caro Hermann.” Seguiva il numero di telefono.
Mariavergine, pensò Cesarina mentre credeva che le venisse un colpo per la gioia. Senza dire una parola alle clienti, che non ne sarebbe stata neanche in grado tanto aveva la gola chiusa, abbandonò il suo “Istituto” e corse a casa da Rosetta: “ Chi se lo aspettava più. Dio mio, senti come mi batte il cuore. Il mio gigante! Ritorna da me. Non mi ha mai dimenticato!”
Cesarina abbracciò la sorella stretta stretta, le stampò due baci di felicità sulle guance e ritornò al lavoro. Sprizzava splendore. A chi le chiese se era successo qualcosa, fece la misteriosa: “ Vedrete, donne, che bella sorpresa vi prepara la vostra Cesarina, una sorpresa che proprio non ve l’aspettate.”
Solo verso sera le venne in mente: “ Dio mio, e la Rosetta? Non posso farla trovare a casa, dall’Hermann. Come faccio?”
A cena piangendo Cesarina raccontò alla sorella il suo piano. Pure Rosetta piangeva, ma le faceva anche coraggio: “ Non pensare a me. Adesso importante è l’Hermann. Io sarò sempre nel tuo cuore e tu nel mio. Noi saremo sorelle per tutta la vita. “
A notte fonda Cesarina, che aveva parcheggiato la macchina vicino casa, scese a fatica le scale del palazzetto in cui abitava, con Rosetta tra le braccia. La teneva diritta e sembrava camminasse. Le aveva lasciato addosso i vestiti, la biancheria, la folta parrucca. Non aveva avuto cuore di spogliarla e di piegarla per metterla nella scatola. E neanche Rosetta aveva voluto. Con la sorella seduta sul sedile accanto aveva guidato, con il cuore pesante, fino a raggiungere un ponte sul Ticino, un posto un po’ solitario che aveva scoperto con Hermann, nell’unico week end che avevano passato insieme. Con circospezione e tenerezza tirò fuori Rosetta dalla macchina, le avvolse il corpo in un lenzuolo pieno di pietre e dopo un ultimo bacio, la buttò nella corrente. Poi stette a guardarla che si allontanava.
Rosetta si girò a salutarla. Per l’ultima volta.
Cesarina con gli occhi pieni di lacrime ritornò a casa. Per fortuna tra qualche giorno arrivava il suo Hermann. Avevano già preparato le carte. Si sarebbero sposati la domenica, loro due soli, con due testimoni, dei suoi colleghi che come lui un tempo facevano la tratta “Milano-Genova”. E non avrebbe invitato nessuna delle donnette del paese, che non l’avevano mai voluta come amica. Avrebbe fatto loro una bella sorpresa. E se le immaginava già le facce livide di quelle sceme .
A lui avrebbe raccontato della sua amata sorella e di quanta compagnia le aveva fatto in tutti quegli anni.
“ Abbiamo lo stesso carattere e andiamo sempre d’accordo. Ha più o meno la mia età e i capelli color mogano. Però è più alta di me. Ha preso dal povero babbo, che era un gran pezzo d’uomo. Ora è ritornata al paese. Un giorno andremo a trovarla.”
E Rosetta, senza la sua adorata Cesarina?
Beh, due giorni dopo la prese all’amo un pescatore solitario. Anche lui ebbe modo di apprezzarne il buon carattere e l’affettuosa compagnia.
Bello! Complimenti per l’idea. E’ scritto bene ed è resa bene la psicologia tipica delal vita di paese, dei personaggi e della stessa protagonista. Colpi di scena su colpi di scena e un finale che schiaccia l’occhio al lettore il quale, se dapprima temeva lo sviluppo di uno psicothriller, infine è sollevato e anche divertito.
Auguri.
Nicoletta Molinari
Questo racconto mi ha fatto pensare al grottesco, al tragicomico tipico delle novelle pirandelliane. I comportamenti buffi e fuori dalle righe dei personaggi, in questo caso di Cesarina, fanno divertire, ma allo stesso tempo riflettere. La comicità altro non è che un occhio di bue che ha il compito di metter in luce le debolezze e i drammi esistenziali e profondi dei protagonisti, qui la solitudine. Mi piace! In bocca al lupo.
Martina
Ironico con un fondo amaro, surreale, dolce e struggente, Brava, mi è piaciuto molto.
Chiara