Premio Racconti nella Rete 2024 “Lo specchio” di Marco Ligabue
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2024Sì, la Carla qualche libertà se la prendeva. Di tanto in tanto, e sotto sotto non le dispiaceva, che c’era di male. Da quando il marito era morto e l’aveva lasciata tutto sommato ancora abbastanza giovane, faceva la donna di servizio presso dei signori, una bella casa di campagna, come quella che sarebbe piaciuta tanto a lei e che insieme a Filippo avevano sempre sognato. I soldi però non bastavano mai, poi di questi tempi. E non era certo una spendacciona. Tutto cominciò così, quasi per caso, insomma, non proprio quella volta lì, ma lì le passò per la mente.
Una volta pulendo quel bel bagno signorile, tutta sola, i padroni erano usciti, mentre strusciava le capitò di rimirarsi nel grande specchio, a casa ne aveva solo uno piccino picciò, dove ci si vedeva a pezzetti, un occhio, la bocca, il naso. Le sovvenne quando c’era Filippo, che gli piaceva guardarla quando si spogliava. E lei ci stava a farsi rimirare, si rivedeva attraverso i suoi occhi, la riempiva di soddisfazione. Poi venne la guerra e lui se ne era andato per non tornare mai più. Ricevette una lettera semplice semplice, dove alla fine, tra tante parole inutili, si diceva che era “eroicamente caduto a difesa dell’onore patrio”. Perché poi la patria questo benedetto onore fosse dovuta andare a cercarselo dalle parti della Grecia era un mistero. Girala come vuoi, ma la morte non la stemperi mai. Gli rimase solo il dolore, quello che ti mangia dentro per anni prima di saziarsi e, tra le tante, non aveva più avuto modo di riprovare quell’emozione lì.
Perché certe cose vengano in mente, pensò «è un mistero». Il tempo passato, lo stato d’animo, l’occasione, chissà. Fatto sta che tra il lusco e il brusco si spogliò nuda, ma proprio tutta, e cominciò a guardarsi, con attenzione e soddisfazione. Era ancora belloccia e soda, rotonda nei posti giusti, qualche ciccetta qua e là, si sa, ma poche e di quelle che non stonano, anzi. Si rigirava, meglio dire si contorceva, per vedersi tutta, faceva le smorfiette col viso, come certe attrici. Magari avesse avuto del rossetto, «te lo facevo vedere io». Pensò quasi di farsi un bel bagno nella vasca, come faceva la signora quando l’aiutava. Non a pezzi come gli toccava fare a casa, al massimo nella tinozza, quando si poteva, e anche lì in piedi o in ginocchioni, perché era piccola e c’entrava a quella maniera. Quanto tempo era passato, «’un lo so nemmen io» si diceva, la testa gli viaggiava a mille e vai a sapere te dov’era finita.
Il botto improvviso del portone di giù che si chiudeva gli fece venire uno stranguglione di quelli che ti riportano subito coi piedi in terra, ma senza sapere che farci con quei piedi. Lo spavento era troppo e non gli riusciva di pensare a nulla, si sentiva in trappola, altre uscite non ce n’erano e nemmeno dove acquattarsi per nascondersi. E poi era tutta nuda, i vestiti sparsi in terra. Fece per chinarsi a raccoglierli, cercando di pensare a cosa poteva dire se la beccavano. La porta del bagno, solo socchiusa, nemmeno tanto, si spalancò e il padrone si affacciò dentro. Era tornato di corsa perché si era accorto di non avere più la spilla d’oro sul gilet, un regalo del padre, aveva paura d’averla persa. Rimase pietrificato, immobile, senza un gemito. Carla cercò di coprirsi alla meglio col grembiule che aveva raccolto, ma dire coprirsi è tanto. S’era preparata al peggio, qualunque peggio, dalla canata al peggio peggio, di storie di abusi di padroni sulle serve ne circolavano a sufficienza. Il signor Fernando, proprietario terriero, sulla sessantina ardita, ancora prestante nonostante gli anni lo avessero segnato, invece cadde in ginocchio con le braccia spalancate, lo sguardo rivolto al cielo. Sembrava quel Santo folgorato sulla via di quel posto, Carla non aveva mai avuto tanta memoria per le storie che raccontava il prete. Strusciando sui ginocchi gli si avvicinò, balbettava qualcosa, non si capiva se rideva o piangeva.
Accostò la testa alla sua natura, ansimante quasi volesse respirarne il profumo, e iniziò a piangere, un pianto sommesso, timido, inteneriva più che spaventare. Sarà stata una serva, avrà avuto anche poca memoria, ma non era scema. Le balenò davanti agli occhi l’immagine della moglie, ormai imbolsita, pure se aveva poco più di cinquant’anni e nemmeno doveva essere stata brutta, appesantita fuor di maniera, con una buzza che aumentava continuamente rimpinzata di cibo, l’unica soddisfazione che ora le rimaneva. Certe cose non la interessavano più, ormai aveva dato, cinque figli e chissà quante gravidanze si vede erano abbastanza. Fu un istante e quasi senza pensare Carla lo tirò su, piano piano, e lo accolse tra le sue braccia, ne ebbe quasi pietà, intuendo tutto quello. Pensò di regalargli qualcosa che desse un senso a quella desolazione. Non fu eccezionale, ma le diede soddisfazione, quasi si sentisse una benefattrice o una crocerossina, non sapeva. Fu ricompensata bene. Un po’ perché se lo meritava, un po’ forse, lo pensò, anche perché se ne stesse zitta. Da quel giorno, qualche volta col signore, qualche volta con altri, quando le faceva voglia si lasciava andare.
Un giorno andò trovare un’amica di un paese vicino che l’aveva cercata. Erano state bimbe assieme, poi, cresciute, la Giuliana, si era sposata e aveva seguito il marito. Era tanto che non si vedevano e di storie da raccontarsi ne ebbero, anche se la più importante era che la Giuliana si era malamente storta una caviglia lavorando, proprio ora che doveva impersonare la Madonna nella processione che si faceva ogni anno in paese. Ma il percorso, tutto poggi e buche, non era pensabile che lo facesse col piede in quelle condizioni. In paese s’era offerta la moglie del notaro, un donnone che a vederla nella parte della Vergine immacolata ci voleva parecchia fantasia. E il prete non sapeva come fare a dirgli di no. Così le era venuto in mente di chiamare lei, che era di fuori, poche gelosie, e poi qualche altra scusa si trovava. Oltretutto era anche belloccia e questo non guastava. Sarebbe stata proprio una bella Madonna. La Giuliana chiaramente non la sapeva tutta tutta, altrimenti al massimo le chiedeva di fare la parte della Maddalena. Il prete fece un po’ di storie, ma alla fine fu d’accordo, tanto non sopportava di vedersi quel donnone in processione. E poi il sor notaro gli stava proprio qui, con tutte quelle simpatie che aveva avuto per quella gentaccia con la camicia nera. In più forse ce la faceva, non dico a non scontentare nessuno, «tanto qui da noi non li accontenti mai tutti», ma forse a discutere di meno con qualche motivo in più da dare, non ultimo evitare l’infarto alla matrona sulla pettata che portava alla chiesa. Coi guanti, per carità, perché con certa gente bisogna fare attenzione. Tanto, anche se adesso la camicia nera non la portavano più, erano sempre gli stessi di prima. Altrimenti rischi che i guanti se li levino loro e in genere son dolori. Neanche tanto immaginari, non si facevano certo problemi a prendersela anche ora con un povero curato.
Per il sì e per il no alla fine toccò alla Carla. Il giorno della processione era proprio bella, c’era voluta quasi un’ora per prepararla, tutta bianca e azzurra coi bordini dorati, sembrava proprio la Madonna del quadro vicino all’altare. Poco dietro la seguiva Giuseppe, Antonio si chiamava, anche lui vestito di tutto punto. Un bell’uomo, capelli ricci, baffi e barba torno torno al viso, occhi gentili. L’aveva notato subito, appena glielo avevano presentato. E anche lui mi sa che l’aveva notata, non gli levava gli occhi di dosso e, pensava lei, gli avrebbe levato volentieri anche qualcos’altro per vederla meglio. Sempre educato, però.
Dopo quella volta cominciarono a frequentarsi, lui andava su e giù col furgoncino da un paese all’altro e ogni tanto si fermava a trovarla. Vediti oggi, vediti domani, però non si batteva chiodo, nel senso letterale del termine. Era proprio il caso di dirlo, perché Antonio trasportava falegnameria, quella della bottega dove lavorava. In paese non gli c’era voluta certo troppa fantasia a fargli fare San Giuseppe. Poi era belloccio e il resto era venuto da sé. Però chiodi niente. Educato va bene, ma «sarà parecchio timido» pensava la Carla, anche se in verità non gli pareva proprio. Dopo un po’ di tempo che la solfa andava avanti e anche lei non batteva più chiodo, perché nella cosa ci sperava e non voleva certo piantar casini proprio adesso, si decise a prendere l’iniziativa. Era un giorno d’estate, il primo pomeriggio, faceva un caldo che si moriva, non si muoveva foglia, sentivi solo qualche insetto disperato alla ricerca di qualcosa, forse della ragnatela che l’aspettava al varco. Il tempo era come fermo, sospeso. Lui venne a cercarla a casa e di andare a fare un giretto non se ne parlava, «nemmen dipinti». La Carla sapeva che forse Antonio sarebbe passato, o almeno ci sperava, e si era messa uno spolverino di quelli di cencio, al ginocchio e senza maniche, abbottonato davanti con un po’ di scollo, niente di esagerato, ma di quelli che fanno vedere bene l’infossatura del seno, quella che ti fa immaginare tutto il resto. E sotto, ma proprio sotto, niente di niente, come mamma l’aveva fatta. Si potrebbe definire un omicidio premeditato, se solo Carla avesse saputo quello che la parola voleva dire. Magari avrebbe capito meglio un discorso sulle ragnatele. Diciamo semplicemente che la carne è debole e questo è quanto. In ogni caso, almeno sarebbe stata più fresca, con tutta quell’arietta tra le gambe. Gli ricordava quando era piccina, che andava parecchio senza mutande.
Alla fine arrivò e lo invitò a entrare per bere un po’ d’acqua fresca con limone e miele, la faceva leggera leggera e dissetava parecchio, d’estate la faceva spesso. E il signor Fernando, con tutte le terre che aveva, miele e limoni non gliene faceva mancare mai, anche lui capirete ci si dissetava volentieri. Era un po’ di tempo che non stava bene, pover’uomo, ma della sua Carlina non si dimenticava mai. Pensare che era anche riuscito a non essere uno dei soliti rompiscatole insistenti. Nella penombra della cucina faceva più fresco, si erano seduti al tavolo e avevano bevuto, parlato, ribevuto e riparlato. E ancora niente. Anche un cieco avrebbe capito che la Carla sotto non c’aveva niente. È vero che faceva caldo, però …. . Si alzo, andò verso l’acquaio, si aprì i tre bottoni, belli grossi, ma solo tre erano, esalò un «fa un caldo che si more» si voltò e si diresse verso il tavolo. La poca luce della penombra, nella sua intimità, esaltava ancor di più quel che si intravedeva e meno male che Antonio aveva finito di bere sennò ci si strozzava. Le braccia appena appena distese con le palme delle mani aperte in avanti, la bocca socchiusa e lo sguardo malandrino di Carla poi non lasciavano dubbi. Socchiuse un attimo gli occhi, aspettando, sperando, di essere travolta. E in effetti sentì un tramestio di seggiola che si spostava. Poi più niente. Dopo qualche secondo riaprì gli occhi. Non ci poteva credere. Anche questo era in ginocchio, con gli occhi spalancati, la mascella aperta che gli sembrava cascata, le mani invece ce l’aveva giunte, pareva avesse visto, appunto, la Madonna. Muto come un pesce. «Se comincio a fare quest’effetto agli uomini, peggio che andar di buio» si disse. Prese coraggio e gli si avvicinò, con due dita gli sollevò garbatamente il mento e accennò «i’che c’e’ Antonio, ‘un mi dire che ti spavento».
«No, no, è che ……, che ……, ‘un so come dirtelo».
«E te provaci a dirmelo, i’che sarà mai …….».
«È che ….. , che ….., insomma …… , mi vergogno un po’ ……. , un omo della mi’ età ….., a trentott’anni ancora ‘un l’ho mai fatto, ecco».
La Carla non sapeva se ridere o piangere. Non che gli dispiacesse fare la crocerossina, pero’ …… . Tant’è che gli venne fuori, un po’ malizioso, «Ma la mammina te l’ha raccontata la storia delle farfalline, vero?», anche se lo disse con quel tono gentile che si usa coi bambini, celando così quella vena impercettibile di risentimento che l’aveva attraversata, come quando aspetti tanto una cosa, la sospiri, e poi non viene come te la sognavi. Quando ti svegli, si sa, la serenità ne esce un po’ ammaccata. Si lasciò guidare dall’istinto e fu la cosa migliore, perché altrimenti avrebbe ottenuto l’effetto opposto, e rischiare di sciupare tutto proprio non le andava. Lo tirò su, prese le sue mani, le aprì e se le mise sulle mele, aveva sempre avuto un fondo schiena degno di nota, sodo e ritto avrebbe risvegliato un morto, ed era sicura che avrebbe fatto effetto. E così fu. Le mani, prima incerte, cominciarono a muoversi sempre più sciolte, il resto venne da sé. Fatto sta che Antonio in breve si mise decisamente a recuperare il tempo perduto. L’andava a trovare fitto, e via con le danze. Da dire che somigliavano sempre più a un ballo di fine anno, piuttosto che a un giro di valzer. Al lavoro lo richiamarono più di una volta, perché spariva a giornate intere, magari per consegnare un comodino «e nemmen lontano». A forza di ballare va da sé che la Carla rimase incinta. Si sposarono al paese di lui e il prete ne fu ben felice, anche se si raccomandò che se gli veniva maschio non gli passasse per la testa di chiamarlo Gesù, «ve lo dico, ‘un si sa mai, vi frullassero idee strane, visti i precedenti». Sull’eventualità di Maria, fosse stata femmina, invece non disse nulla. Tornarono nella casa di lui e dopo la funzione fecero una bella festa sull’aia. Fu lì che a un certo punto videro arrivare un camioncino con due operai. Appena scesi cominciarono a tramestare a un trespolo che stava nella parte dietro e a scaricare un aggeggio grande e impacchettato che non si capiva. Carla e Antonio si avvicinarono incuriositi, « i’ che pol’essere ?». Messo in terra appoggiato a un albero il pacchettone, uno degli operai disse «Questo lo manda il Sor Fernando», con la S detta bella maiuscola. La Carla non mise tempo in mezzo e cominciò a scartare e Antonio dietro. Quando la carta finì, e ce n’era tanta, rimasero tutti a bocca aperta. Era uno specchio, bello, grande grande, di vetro molato, di quelli che ci si vede da capo ai piedi, con una cornice di legno lavorato come quella dei signori. Carla non ci poteva credere, si mise a ridere felice, a più non posso, anche se nessuno capì mai davvero perché.
Molto simpatico. Mi è piaciuta l’aggiunta del toscano che caratterizza molto i personaggi
Grazie Febrizio, sono contento che ti sia piaciuto e che ti abbia divertito !