Premio Racconti nella Rete 2024 “Bianchi come una bugia” di Sara Musto
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2024A Ettore l’estate piaceva. Gli piaceva il soporifero cri cri dei grilli, la calura estiva che lo costringeva a tenere la finestra socchiusa col rischio ch’entrassero le zanzare a banchettare col suo sangue, il sudore che colava lento lungo la schiena, i capelli impiastricciati e premuti viscidamente contro il collo.
Si alzava sempre di buon’ora, si aggiustava la canotta a coste di cotone e la infilava svogliato nei pantaloncini, poi andava sul balcone e aspettava che sua madre gli portasse la colazione: il latte era tiepido, i biscotti sgretolati.
Ettore dal balcone guardava il mare. Lo guardava come un uomo guarda la donna che ama, lo scrutava, ma non si poneva le dignitose domande dei poeti, né quelle dei più incalliti pensatori. Sovente usciva un “oh” dalla sua bocca schietta, quando le increspature delle onde inghiottivano il bagnasciuga rivestito dalla sabbia più scura.
La mattina Ettore passava gran parte del proprio tempo con Babola, un bambino che abitava nel suo stesso condominio e con il quale si ritrovava spesso ad andare in bicicletta, scorrazzando per il grande cortile comune. Rumore di ruote, di sandali in plastica; odore di salsedine sulle braccia, pellicine crepate sui nasini, scottature sulla schiena, creme idratanti all’aloe vera.
Durante il pomeriggio i bambini gridavano, personificando una frutta che il lupo sarebbe giunto presto a mangiare o un colore che la strega avrebbe comandato. Urlavano, isterici, per quel piccolo miracolo dell’ingenuità che li rendeva tutti amici, sostenendosi nei momenti più bui quando uno di loro perdeva a un, due, tre, stella o non riusciva a fare tana a nascondino.
Poi arrivava la sera. Le porte venivano lasciate aperte e l’odore invitante delle cene, ognuna diversa dall’altra, si mischiava a quello iodico del mare: la zia Angela faceva la focaccia, la nonna Dina i panzerotti fritti. Si consumava il pasto in tutta fretta, per poi invadere le case degli altri in una silenziosa gara a chi finiva prima di mangiare.
La sera i nonni giocavano a carte sulle vecchie sedie di plastica bianca. Le sedie dei saggi, del vago filosofare.
E quelle sedie bastava impilarle una sopra l’altra per farne un trono e diventare re o regine, metterle in cerchio per giocare a ruba la sedia, addossarle una accanto all’altra per creare un fortino. A quei tempi l’immaginazione, in fondo, era tutto quello di cui avevano bisogno.
La sera era lunga, durava molto più della mattina. Perché era fresca e si potevano fare tutte quelle cose che si preferiva rimandare quando il sole era troppo alto, come fare una passeggiata sul lungomare o andarsi a prendere un gelato – o entrambe le cose, perché la sera non si aveva mai la paura che il gelato non sopravvivesse al suo nome e colasse vischioso sulle dita.
Ed era proprio con il gelato attorno agli angoli della bocca e le mani appiccicose che Ettore riusciva a vivere il suo momento più bello.
Il mare di notte.
Andava sempre a guardarlo, approfittando di un buco nella rete del lido dove era solito recarsi di giorno con la sua famiglia. S’infilava agile nella breccia, poi si toglieva le ciabatte e correva come un forsennato verso la battigia, godendosi la sabbia fresca, eco lontana di un’infuocata distesa di mezzogiorno che gli bruciava le piante dei piedi – perché lui, nonostante i consigli ripetuti della madre, le infradito a riva non le portava mai.
Stava lì per ore. Senza parlare, perché se si parla il mare non risponde mai, e questo Ettore lo sapeva meglio di tutti gli altri. Per questo ci andava da solo, così poteva evitare di spiegare per quale motivo il mare si osservasse in silenzio – perché si deve anche ascoltare.
C’erano dei giorni durante i quali era più tranquillo del solito. Una vasta distesa nera, che finiva dove cominciavano le argentee increspature delle onde sulla riva. Quand’era fortunato riusciva a vedere l’acqua più remota vicino alla linea dell’orizzonte, illuminata dai pallidi raggi di una luna poco egocentrica.
«Ma non ti stanchi?» gli aveva chiesto un giorno suo padre, mentre sfogliava svogliato il giornale. «Intendo a vedere la stessa cosa in continuazione.»
Ettore gli aveva risposto di no, che il mare non era mai uguale a sé stesso, ma nessuno della sua famiglia riusciva mai a capire i ragionamenti troppo astratti del bambino, che aveva presto smesso di trovare le giuste parole per spiegarsi.
L’unico in grado di comprendere ciò che diceva era lo zio Filippo, un signore un po’ in là con l’età, ma con la forza brutale di un nuotatore olimpionico che avrebbe potuto raggiungere le coste della Croazia a nuoto, se solo avesse voluto. Lo zio Filippo, a ben vedere, non era davvero lo zio di Ettore, ma solo l’inquilino che abitava il pianterreno del condominio. Eppure il bambino lo chiamava così fin da quando aveva iniziato a parlare.
Si capivano, lui e lo zio Filippo. E quel signore, quando rideva, aveva un sorriso che assomigliava un po’ alla falce della luna, bianco e incurvato verso l’alto.
Tutti i bambini del cortile amavano lo zio Filippo; un po’ perché era stato lui ad insegnare alla maggior parte di loro come si nuotasse e un po’ perché era l’unico che, testimone di una marachella, sceglieva la via omertosa del silenzio, coprendo i piccoli colpevoli. Ed era sempre lui quello che sbucciava i fichi d’india a mani nude, offrendoli ai bambini che, curiosi, si accalcavano per osservare il lavoro certosino dell’uomo, per poi tornare a casa e rifiutarsi di cenare per via dei troppi frutti mangiati.
Ettore, tuttavia, lo amava un po’ di più degli altri. Perché lo zio Filippo era innamorato del mare anche lui; per questo spesso andavano a goderselo di notte insieme, seduti uno accanto all’altro.
«Cosa ti piace del mare?» gli aveva domandato un giorno il bambino, mentre stava finendo di masticare la punta del cornetto.
Lo zio Filippo non aveva risposto subito, perché lui era molto attento alle domande che gli venivano poste, soprattutto se a fargliele era un bambino.
«Il mare,» aveva risposto infine, «mi piace perché si adatta sempre.» Ettore, quella risposta, l’avrebbe capita molti anni dopo. Lì per lì aveva cercato di chiedere spiegazioni, ma lo zio Filippo si era limitato a fare un gesto di silenzio con il dito, indicando la luna. «Oggi ce la godiamo al massimo, Ettorino.»
Fu proprio quello che fecero. Rimasero lì, taciturni, a guardare la luna specchiarsi sulla superficie corvina dell’acqua. Uno spettacolo di quelli che Ettore non avrebbe mai dimenticato. Uno di quelli che, da grande, gli avrebbero riempito il cuore di malinconia.
«Il mare non sarebbe lo stesso, senza la luna» mugugnò a bassa voce, per paura di essere sgridato. Ma lo zio Filippo gli sorrise, così continuò: «È come la collana che mette la mamma, quella con il puntino d’oro.»
«Allora vai, Ettorino» lo sentì dire, dopo qualche istante di silenzio. «Vai a prenderla.»
«Che cosa?»
«La luna.» Lo zio Filippo fece un cenno verso lo specchio d’acqua. «La vedi? È proprio lì. Vai a prenderla.»
«Ma quello è solo il riflesso» replicò il bambino, senza capire. «Mica riesco a prenderla.»
«Come no!» Lo zio Filippo aveva un modo tutto suo per consentire ai bambini di sognare. Ed era mentire. «Sono sicuro che si è poggiata sul fondo, vai un po’ a guardare.»
Ettore volle crederci. Non seppe darsi una spiegazione – forse neanche vi pensò. Era un bambino, e ai bambini le cose non vanno ripetute due volte prima che le facciano.
Fu così anche per lui. Si alzò da terra, si tolse la canotta e cominciò a correre verso quell’immensa tranquillità che regnava sovrana sul fondo sabbioso, nascosto. Allungò le braccia esili e fece come gli aveva suggerito lo zio Filippo: s’immerse sotto la superficie dell’acqua, trattenne il fiato e dischiuse le palpebre, avvezzando gli occhi al bruciore della salsedine.
E poi la vide, la luna.
L’afferrò con le dita lisce, risalì con la testa sopra il pelo dell’acqua e si voltò a cercare lo zio Filippo, che se ne stava seduto nello stesso punto dove l’aveva lasciato. Ettore non disse niente, alzò solo il braccio e sventolò la mano.
Lo zio Filippo sorrise, e apparve la luna anche sul suo volto.
Quindici anni dopo
Una camera sobria, tranquilla. Proprio com’era stato lui, proprio come Ettore l’aveva immaginata nei suoi tanti vagheggiamenti d’infante.
«Ettore?» La zia Angela lo fissò per qualche istante, poi gli concesse un abbozzo di sorriso, seppur ombreggiato da due occhi gonfi e lucidi. «Ettorino! Ma come stai! Ma che bello che sei qui! E l’università, com’è l’università? Stai mangiando?»
«Tutto bene zia, grazie» gli rispose un giovane uomo con la cravatta e i capelli pettinati. «Mamma mi ha detto di zio Filippo.»
Silenzio. Un silenzio così diverso da quelli a cui Ettore s’era assuefatto durante la sua infanzia. Un silenzio che gli ricordava, assordante, di un terribile vuoto.
«Era peggiorato negli ultimi mesi. Non riusciva più a muoversi, neanche a masticare. Non parlava più.» Ettore non avrebbe saputo dire se quella voce appartenesse davvero alla zia Angela. Lei era molto lontana da lui. Lo era perché Ettore, ch’era cresciuto e aveva la barba, in quel momento s’era ricordato dei grilli, del gelato appiccicoso e dei fichi d’india.
«Scusa zia» le disse, tirando su col naso. «Adesso passa.»
Zia Angela gli stropicciò i capelli composti, proprio come quando da bambino bussava alla sua porta per chiederle un pezzo di focaccia. «Ettorino, non trattenere, fa male. Lascia andare.»
Ettore pianse, incollerito per non essere riuscito a salutare per l’ultima volta il suo complice, il suo amico. Pianse perché, nonostante fossero passati gli anni e la sua vita fosse andata avanti anche senza di lui, in quel momento l’unica cosa che riusciva a pensare era che si sentiva di nuovo solo.
«Zia Angela» la chiamò, dopo essersi calmato. «Tieni questa.»
La donna anziana fissò il piccolo oggetto posato sul palmo del giovane e l’afferrò con le mani tremolanti, solcate da profonde vene violacee. «È un guscio di tellina, Ettorino. Che ci devo fare?»
«Non è una tellina, zia.» Ettore rimase zitto per un istante, durante il quale tornò bambino e rivide la spiaggia, le onde infrangersi sulla berma e il sorriso pacifico e quieto di un uomo come tanti, come tutti. «È la luna.»
Ettore aveva fatto come il mare, alla vita s’era adattato anche lui come aveva potuto, così come tempo prima gli aveva insegnato lo zio Filippo: anche lui aveva mentito, anzi; aveva perso il conto di tutte le volte in cui lo aveva fatto.
Tuttavia quella di zio Filippo era stata una bugia necessaria, affinché il bambino ch’era stato potesse crescere bene e rimanere – ancora per un po’ – qualcuno in grado di credere alle storie. Una bugia innocente, ch’era rimasta nel cuore di Ettore per una vita intera e che s’era portato dietro durante tutti quegli anni.
Una bugia bianca. Bianca come la luna.
Bianca come il sorriso di zio Filippo.
Un racconto come una poesia: La luna è una conchiglia bianca, portata in tasca per tutta la vita
Grazie mille Angela per il tuo bellissimo commento, sono contenta che la storia ti sia piaciuta!
Bello Sara, bello e poetico. Complimenti !
Ti ringrazio tantissimo Marco!
Bello Sara! Mi hai fatto rivivere i dopo cena estivi di una volta!
Anche se qui da me non abbiamo il mare erano simili!
Complimenti! Poi il mare descritto così sembra di vederlo !
Ti ringrazio infinitamente Sara! Questa storia mi ha impegnata tantissimo e per me è stato davvero emozionante – oltre che commovente – scriverla!
Perciò davvero grazie per questo tuo commento, lo apprezzo moltissimo!