Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2024 “Finché il vento non rimise le cose in ordine” di Giacomo Marchi

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2024

Li ricordo – e ammetto l’inesattezza del verbo, dato che non li ho mai realmente visti in quella posizione – appoggiati alla battagliola del piroscafo arenato a contemplare la foschia luminosa di un tramonto caraibico, ma pur nell’imprecisione del verbo questa rimane la mia sensazione: li ricordo.

Forse per via del minuzioso e indimenticabile racconto che me ne fece la protagonista, Mina, seduti uno accanto all’altra durante quel volo sopra all’atlantico.

“Con il dovuto rispetto, signora: non le nego che io stia facendo un certo sforzo a crederle.”

“Ma è tutto vero, giovanotto. È tutto jodidamente vero”, disse passandosi il dorso della mano destra sotto all’occhio, come a rimuovere qualcosa di liquido.

Erano fuggiti dalla casa di riposo. Ma qui sarebbe lei a correggermi, visto che tecnicamente fu un allontanamento attraverso un cancello socchiuso, in un afoso fine pomeriggio di marzo del 1968.

Sembra che gli inservienti li abbiano cercati per giorni. L’intervento delle forze dell’ordine fu reputato inopportuno dalla direzione, per non erodere il già basso apprezzamento di cui godeva l’Hospicio del Caribe e in virtù del fatto che dell’ultima visita ricevuta da quei due vecchi nessuno conservava memoria.

Sorrido ancora a immaginarli per mano, sgambettanti nel torrido e polveroso vento della sera, con l’anca di Tino a reclamare una evasione lenta e lo svolazzìo del vestito di Mina in intralcio di fuga.

E adesso, appoggiata alla battagliola di quel piroscafo arenato, Mina abbassava lo sguardo verso l’orologio al polso senza trovarcelo, e sorrideva tra sé, guardando Tino assorto nella luce del tramonto e pensando a quando il capitano li avrebbe chiamati, loro, unici passeggeri rimasti a bordo, per la cena.

L’umidità dell’aria era richiamo di zanzare: a vederli da lontano parevano due vecchi pazzi che si riempissero di schiaffi a vicenda.

“Fammela vedere ancora”, disse Tino.

“Ancora?”

“Sì, per l’ultima volta”, insistette.

“Non è questione di ultima o non ultima. E’ che l’hai vista dieci minuti fa”, disse aprendo una pagina di rivista piegata in quattro. Una torre obliqua campeggiava in un prato sotto a un cielo nuvoloso.

“E’ bellissima”, disse lui. “E’ incredibile che stia in piedi.”

“Beh, questo lo vedrai coi tuoi occhi.”

“Perché?”

“Ci stiamo andando, Tino”, disse sospirando.

“Davvero?”

“Abbiamo deciso che sarà il nostro viaggio, come un viaggio di nozze, non ricordi?”

“E quando ci sposiamo?”, disse.

Si stava non sposando con un cleptomane affetto da demenza senile col quale era fuggita come un’adolescente irrequieta da una casa di riposo, e adesso stavano percorrendo il rio più lungo della Colombia, ma il piroscafo che avevano preso di gran fretta perché inseguiti, si era arenato di lì a poche decine di chilometri per la grande siccità.

Ecco, la storia era semplice, dopotutto.

Semplice e inconcepibile ai miei orecchi di giovane chirurgo in viaggio di ritorno dall’America all’Europa.

“Ci conoscemmo all’Hospicio. Era adorabile. Mi regalava ogni giorno qualcosa”, disse stringendo tra le mani la tazza di tè bollente e guardando fuori dal finestrino, almeno diecimila metri più in basso, sotto alle nubi, il vasto niente oceanico che stavamo sorvolando.

“E sì, capitava che mi regalasse due volte lo stesso oggetto. Magari lo stesso bracciale, o lo stesso foulard. Si figuri. Io poi lo mettevo di notte sul bancone della segreteria, così che il proprietario potesse riprenderselo. Ma quando mi portava le rose! Ossignore! Quando mi portava le rose mi faceva sciogliere. Lei regala mai fiori alla sua fidanzata? Dovrebbe, sa? Io, con quelle rose, mi innamorai. Perdidamente, giovanotto. Perdidamente.”

“E poi che è successo? Dopo che il piroscafo si è arenato, voglio dire?”.

Lei fece un sospiro accarezzando la scatola di cartone che teneva in grembo e che aveva gentilmente rifiutato di consegnare alla hostess, poi mi guardò, e incontrai quegli occhi verdi, incastonati su un ovale perfettamente maltrattato dal tempo.

“Siamo rimasti soli, noi e il capitano: noi non avevamo altro posto dove andare, e lui aveva una barca sotto i piedi che non voleva saperne di muoversi. Santiddio, mica poteva lasciarla lì!”

Disse che se ne erano scesi tutti, sbarcati a Vijagual quando il Rio Magdalena iniziò a divenire rivolo e lo stridìo della chiglia sulla ghiaia impressionava le signore ingioiellate.

Solo loro due rimasero a bordo, perché quello era l’unico posto in cui a nessuno sarebbe mai venuto in mente di cercarli.

“Vedrete, ha messo pioggia. Ripartiremo presto”, sentenziò il capitano mescendo liquore al termine della cena.

Dopo l’ultimo bicchiere di anisetta, data la buonanotte al capitano, mentre percorrevano sbadigliando i pochi passi che li separavano dalla cabina, sotto una luna piena rivestita da un alone di umidità che non voleva saperne di tramutarsi in pioggia, immersi nel frinire di milioni di cicale proveniente dalla vegetazione rinsecchita della riva, lei disse:

“Tino…”

“Che c’è?”

“L’orologio.”

“Ah!”, disse infilandosi una mano in tasca. “Tieni.”

“Tino”, sbottò, “ma questo è l’orologio del capitano!”

“Ah, sì? Scusa…”, disse frugando ancora e dandole quello giusto.

Mina scosse la testa.

Tralascio i coriandoli di storia che, pur contribuendo a costruire nella mia mente il meraviglioso film di questi due vecchi che gelosamente conserverò per tutta la vita, poco aggiungerebbero al fluire della narrazione.

Fondamentale e definitivo fu invece – e questo mi richiede tuttora uno sforzo di immaginazione – il momento in cui due uomini armati abbordarono il piroscafo – pirati, li chiamò il capitano – e convertirono la rabbia per la scoperta del ponte disabitato in una furia devastante che rovistò ogni angolo del natante in cerca di preziosi e denari.

“Ebbe un coraggio da leone, sa?”, mi disse Tina appena l’aeroplano uscì da una turbolenza e fu di nuovo possibile il dialogo. “Iniziò a sbattere il bastone in testa a quello che mi aveva strappato la collana e spinta a terra.”

Disse che il pirata reagì sparando un colpo di pistola e ferendolo.

Tino stette tre giorni e tre notti febbricitante nel letto, mentre la pioggia iniziava a cadere, con sempre maggior vigore, gonfiando di nuovo l’alveo pietroso.

“Io non so perché le sto raccontando tutto questo, giovanotto”, mi disse con le lacrime agli occhi, “non lo so proprio.”

All’alba della terza notte, nell’umidità soffocante, madido di sudore, Tino pronunciò due parole che né Mina né il capitano riuscirono a comprendere.

Si avvicinarono il più possibile e restarono in attesa.

“Sposami”, disse impercettibilmente, con gli occhi ancora chiusi.

Lesto il capitano si tirò giù le maniche e si infilò la giacca, chiudendo anche l’ultimo bottone.

Mina si pettinò alla bell’e meglio e dette una rassettata anche ai capelli unti e sparuti del suo futuro sposo.

Il capitano si inventò qualche frase di rito attingendo ad arcaiche reminiscenze di matrimoni, ma non si affrancò dal vezzo di pensare che il discorso fosse uscito in foggia decorosa, visto il contesto emergenziale.

Poi il capitano uscì dalla cabina per prendere una bottiglia di rum e due bicchieri, immaginando di bere giusto un goccetto in delega del marito legittimo, ma quando rientrò non c’era più niente da festeggiare.

Era stato.

Solo un soffio di mistral, un garrito di pappagallo. Una puntura di zanzara.

Poca cosa.

Ma era stato.

L’aereo ebbe una nuova turbolenza. Mina chiuse gli occhi e appoggiò la testa al sedile. Le si disegnò un delicato accenno di sorriso sul viso.

Le chiesi cosa avrebbe fatto ora, se stava andando da qualche parente.

“Non ho più nessuno, adesso”, disse dispiegando il foglio della rivista.

Guardai quella torre. Sorrisi.

“E’ molto lontano da dove atterriamo?”

“Beh, da Parigi saranno almeno mille chilometri.”

Si fece seria: “Mi avevano detto meno.”

Intuii, o almeno credetti di intuire, un ostacolo economico.

“Ecco”, dissi, “per me è praticamente di strada. Non sarebbe un problema accompagnarla.”

Mi sorrise con gli occhi gonfi di pianto recente.

“Giovanotto, lei è il miglior bugiardo che abbia mai incontrato nella mia vita.”

Seduti a un tavolo del caffè guardavamo la maestosa inclinazione di quel marmo prendersi gioco delle leggi della fisica.

“Vedi?”, disse battendo il palmo della mano sulla scatola di cartone, “ci credi adesso che sta in piedi, vecchio zuccone?”

Poi si alzò.

“Vado”, mi disse prendendo la scatola.

Scomparì dentro alla torre.

Me la immaginai stramazzata al suolo dopo poche decine di gradini ma, dopo una interminabile attesa, la vidi lassù, affacciata nel punto più alto.

Alzò la mano secca verso di me.

Contraccambiai il saluto.

Armeggiò con la scatola, poi una nuvola bianca la avvolse per pochi secondi.

Finché il vento non rimise le cose in ordine.

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2 commenti »

  1. Mi piace il tuo racconto. E’ stralunato, originale, poetico, nostalgico e a tratti buffo. Bravo!

  2. Divertente e originale, bravo.

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