Premio Racconti nella Rete 2024 “Mama-nommama” di Giacomo Marchi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2024Sia chiaro: la frittata mi piace, però mi è un po’ venuta a noia. Solo che papà sa fare solo quella, in pratica.
“A cena, Chiletto. E’ pronto. Chiama anche tua sorella”.
Chiletto sono io; mi chiamano così da sempre.
Guardo la padella col coperchio sul fornello.
“Che hai preparato?”
“Ta-daa! Frittata con la pasta!”
Ecco, giusto; sa fare anche la pasta. Solo che non calcola mai bene le dosi.
Mamma la pesa sempre, lui invece la fa a occhio. E ne mette così tanta che alla sera ci fa la frittata.
C’è un gioco che mi ha insegnato la nonna: si prende un fiore e si strappano i petali uno a uno mentre si dice mama-nommama.
“Cosa vuol dire mama-nommama, nonna?”
“Eh, vuol dire che la tua fidanzatina c’è sempre o non c’è più”.
“E dove va?”
Quando mia nonna ridacchia si tiene sempre la mano davanti alla bocca: dice che sennò sputa la dentiera.
“Quando sarai più grande lo capirai”.
Sembra che un giorno mia mamma abbia chiesto a mio papà di cambiarmi il pannolone, e quando lo sentì che imprecava chiese se per caso l’avessi fatta.
“Giusto un chiletto”, rispose lui schifato.
Ecco fatto: spiegato il nomignolo.
Mia sorella alcune volte la chiamano “Chilettina”, ma solo per merito mio; mica ne ha mai fatta così tanta.
Io voglio diventare grande in fretta; per capire questa cosa di mama-nommama, e perché almeno posso dire di no alla frittata.
Mia sorella lo dice sempre di no, ma lei non conta, lei è piccola; allora papà le prepara qualcos’altro.
Anche la mamma dice di no, e quando papà torna dalla camera col piatto pieno, capisco che anche a lei la frittata non piace tanto.
Però poi non le porta altro.
Magari alle volte torna a portarle del tè.
Mama-nommama lo faccio anche quando esco da scuola, solo che devo nascondermi un po’.
Perché se mi vede Matteo dice che sono una femminuccia che gioca coi fiorellini.
E un po’ lo penso anche io, perché in cortile, durante la ricreazione, le femmine raccolgono fiori e li portano alla maestra.
Le femmine portano sempre fiori alle femmine.
Quando con la nonna andiamo a portare i fiori al nonno, al cimitero, lo fa perché lui non può dire niente. Non credo che gli piacerebbe.
“Vai a dare un bacio alla mamma prima di andare a letto”.
Io, la mamma, da quando ho imparato questo gioco di mama-nommama, la chiamo “Mama”. Mi sembra che a lei piaccia, perché quando lo faccio sorride – con le coperte tirate su, fino a sotto al mento – e canticchia sottovoce “mamaaaa-uu-ùù-uuuu” mentre mi abbraccia.
“Adesso il mio Chiletto sa anche l’inglese. Te l’hanno insegnata a scuola?”
“No no, me l’ha insegnato la nonna, è un gioco”, dico io.
Ieri mio papà è venuto a scuola; ha detto che voleva parlare con la maestra.
Lo ha fatto prima che la campanella d’ingresso suonasse: parlavano, mentre io e Matteo giocavamo a sassetto con le figurine.
Mio papà guardava la maestra, poi si guardava le scarpe, poi guardava me, poi guardava lontano, poi di nuovo la maestra.
Sembrava che volesse guardare tutto il mondo, come se gli stesse scappando da sotto agli occhi qualcosa e non riuscisse a trattenerlo.
Poi lei si è tolta gli occhiali e si è messa le mani sul viso.
Alla fine gli ha dato la mano, e ha messo l’altra sopra, guardandolo e scuotendo la testa piano.
E’ suonata, e siamo entrati.
La maestra mi teneva la mano sui capelli.
Per tutta la mattina ha parlato a voce bassa, tanto che spesso si zittiva e aspettava che tutti smettessero di fare confusione, invece di strillare come le altre volte.
Mama-nommama è un gioco bellissimo: la nonna non mi aveva detto tutto. Non serve solo per quella cosa della fidanzatina, per capire se c’è sempre o se va via; anche perché io, la fidanzatina, non ce l’ho e figuriamoci se la voglio.
Invece serve per tutto il resto.
Per esempio l’ho fatto per capire se la Fiorentina avesse vinto contro il Cesena: l’ho chiamato vince-novvince. E’ venuto ‘vince’, e quando Desolati ha messo la palla in rete, sono sobbalzato sulla sedia.
“Allora funziona davvero!”, e ho pensato che la nonna è una specie di maga, ma non lo dice altrimenti tutti le chiedono qualcosa: lo so solo io.
Mia sorella invece è una rompipalle.
Ha imparato appena a camminare e pensa che tutta la casa sia sua. Per esempio, quando sono in bagno che mi faccio gli affari miei, la sento correre e sbattere nella porta, poi si alza in punta di piedi e – tac – con un salto la apre e piomba dentro.
Mica vuole qualcosa; no, lo fa tanto per rompere.
Se ne approfitta perché non posso alzarmi e rincorrerla.
Allora io mi arrabbio e scappa via ridendo e urlando per tutta la casa, lasciando la porta aperta.
Ma quello che mi fa più incavolare è quando entra in camera di mamma senza guardare se dorme. Rallenta un attimo sulla porta, poi corre verso il letto e ci si getta sopra, e se dorme la sveglia.
La mamma però non si arrabbia con lei.
Prima capitava che perdesse la pazienza, ma adesso non succede mai, neanche con me.
Mi ricordo sempre di quando mamma e Giada arrivarono a casa. Era dentro una culla bianca e rosa.
Mamma mi disse: “fai piano; dammi la mano”. La avvicinò sotto al piccolo naso; io in punta di piedi mi sporgevo sulla culla. Sentivo l’aria calda che usciva da Giada. Aveva le dimensioni di un bambolotto brutto e sformato, però respirava. E quasi mi spaventai.
Adesso vorrei che Giada facesse lo stesso con la mamma.
Io, invece, quando entro in camera e la vedo con gli occhi chiusi, mi avvicino al letto in punta di piedi. Le metto un dito sotto al naso e la sento respirare, lentamente.
Allora capisco che dorme, come Giada, e mi avvicino al suo viso e annuso, però non riesco più a sentire l’odore della mamma; sento quell’odore di pulito, di disinfettato, l’odore di quando lei mi versava lo spirito sopra ai ginocchi sbucciati, facendomi piangere. I suoi capelli sono bellissimi, ma non sento il suo odore.
Qualche giorno fa mio papà mi ha detto: “andiamo a fare due passi, ti va?”.
Certo che mi andava, era una vita che non uscivamo insieme io e lui: anche se minacciava di piovere ero contento.
Lui era davanti alla fuciliera, con un fucile in mano che se lo rigirava e riguardava. Pareva pensare ad altro.
Ora che ci penso è anche tanto tempo che non va più a caccia.
Mentre camminavamo, scansando le pozzanghere, mi ha messo una mano sui capelli e ha detto: “devo dirti una cosa”. Abbiamo continuato a camminare in silenzio, fino al parco, con la sua mano sulla mia testa; era più grande, più calda, più pesante, di quella della maestra.
Una volta arrivati là si è chinato per chiudermi l’ultimo bottone del giubbetto e ha fatto un sospiro.
“Preferisci l’altalena o lo scivolo?”
Ieri ho fatto mama-nommama per mia mamma mentre tornavo da scuola: l’ho chiamato mangia-nommangia ed è venuto ‘mangia’: sono corso a casa a perdifiato e l’ho trovata seduta al tavolo della cucina, con la vestaglia azzurra, e i suoi bellissimi capelli, sempre pettinati, sempre in ordine.
Giada non riusciva a stare seduta dalla contentezza.
Papà era allegro, e parlava senza mai zittirsi.
Mama-nommama funziona sempre, per questo mi tengo in tasca due o tre margherite: sono un po’ stropicciate, ma funzionano lo stesso.
La maestra adesso ha ricominciato a strillare quando facciamo confusione. A me è venuto in mente il giorno che il papà è venuto a parlarle.
Ho fatto una prova: nell’intervallo mi sono messo in un angolo e ho iniziato a guardarmi la punta delle scarpe, poi guardavo fuori della finestra, poi mi grattavo un po’ la testa.
La maestra si è avvicinata e mi ha dato uno dei biscotti che stava mangiando lei, poi si è accovacciata alla mia altezza, e mi ha chiesto se la mia sorellina cresceva, e se rompeva le scatole.
L’ha fatto sorridendo, con una voce morbida, calda, che in classe non usa mai.
Allora ho pensato che forse, un po’ di poteri, la nonna me li ha passati anche a me.
Oggi, dopo pranzo, mentre mia sorella giocava con le sue bambole e il papà lavava i piatti, mi sono avvicinato alla porta della camera della mamma e ho tirato fuori di tasca una margherita.
E ho iniziato a strappare i petali, lentamente, uno per volta, in silenzio, senza mama-nommama.
L’ho chiamato mamma-nommamma.
Quando sono arrivato all’ultimo petalo mi sono fermato e l’ho guardato, per un po’.
L’ho lasciato attaccato. Poi sono entrato, piano.
Ma che bello!Un racconto tenero e delicato, che ha la voce narrante di un bambino e dove la magia non sempre riesce a trasformare e ingannare la sofferenza.
Meraviglioso!
Giacomo il tuo racconto è bellissimo. Ben scritto, commovente, fluido. Hai un bel talento. Complimenti.