Premio Racconti nella Rete 2011 “Pizza al volo” di Federico Fascetti
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2011Serata fiacca. Poche chiamate finora.
Mauro mi passa una sigaretta e dice «Ti sprecassi mai a offrire, eh?»
Prendo la sigaretta, l’accendo, soffio via la prima boccata. Non rispondo.
Più in là, Manuel e Andrea chiacchierano appoggiati alla cabina elettrica. Andrea, il medio della sinistra fasciato, sta raccontando a Manuel degli allenamenti di oggi pomeriggio. Della sua parata impossibile su un tiro rasopalo. Del dito che gli si è piegato novanta gradi nel senso sbagliato. Del ghiaccio spray che gli ha tolto sensibilità al polpastrello. Della difficoltà di guidare lo Zip con una mano gonfia così.
Manuel lo ascolta passivo, annuisce e commenta a monosillabi. Non c’è scampo, se Andrea ti intrappola con le sue storie. Puoi soltanto assecondarlo, sperando che la finisca presto e ti conceda uno spiraglio per svicolare.
«Tra un po’ ce ne andiamo tutti a casa e buonanotte» dice Mauro, sfruttando la pausa che Andrea ha involontariamente infilato nella filippica per bersi un sorso di Fanta Lemon.
«Mi sa che io me ne vado adesso» dice Manuel.
«E perché?» dice Andrea.
«Forse Chiara ha dieci minuti».
«Ancora non l’hai capito, che quella non ne vuole sapere di te?» interviene Mauro.
Manuel si stringe nelle spalle e guarda via. Con Chiara è finita da due settimane. Anzi: è finita per lui. Per lei non è mai cominciata.
Andrea dice «Che palle che siete. A voi le donne vi hanno rovinato».
Accartoccia la lattina e la lancia verso il cestino; ma, invece di centrare l’apertura, quella colpisce il bordo e finisce per terra.
«Mancato» constata Andrea, ed entra in pizzeria.
Attraverso la vetrina lo vedo che si avvicina a Robi, il cuoco. Robi è indiano, o del Bangladesh, uno di quei Paesi lì. È scuro di pelle, i capelli sempre unti e la fronte umida di sudore. Però ci sa fare. Non ho assaggiato da nessun’altra parte una margherita migliore della sua. Robi scambia un paio di battute con Andrea, poi Andrea appoggia i gomiti al banco di marmo, si sporge in avanti, pesca una mozzarella dalla ciotola e se la ficca in bocca intera.
«Vai, allora. Che ti frega?» dico a Manuel.
«Ma sì, tanto…» dice Manuel.
Inizia a togliere il portapacchi dal pianale posteriore dell’sh, e, quando ha finito, lo porta dentro e lo ripone nello stanzino accanto alla cassa. Dice qualcosa a Patrizio, il padrone del locale. Patrizio lo congeda con un cenno del mento, senza sorridere.
Manuel torna fuori, sale sullo scooter, gira la chiave e accende il motore. «Ciao».
«Ciao» dico.
«Dalle questo da parte mia» dice Mauro, e si tocca il pacco.
«Sei uno stronzo» gli dico, quando Manuel è ormai lontano.
«E me ne vanto».
Andrea ritorna, ha con sé una mezza focaccia. «Volete?»
Dico sì e ne stacco un bel pezzo; Mauro invece scuote la testa e fa schioccare la gomma che sta masticando da mezz’ora.
«Mirko!» chiama Patrizio.
«Alleluia» dico.
«Buon viaggio» commenta Mauro.
«Beato te. Almeno ti muovi» dice Andrea, e continua a picchiettare sulla tastiera del cellulare.
Patrizio mi aspetta seduto alla cassa col suo atteggiamento da divinità pagana. Ha trent’anni, è abbronzato, muscoloso, i capelli raccolti in una coda di cavallo. Profuma sempre come appena uscito dalla doccia e gli piace sentirsi il capo. La pizzeria, in realtà, è di suo padre, lui si limita a gestirla battendo gli scontrini e guardando il culo delle cameriere.
Appoggiati a un tavolino alla sua sinistra, due cartoni di pizza e una bustina di supplì.
«Ecco l’indirizzo».
Mi passa un foglietto. Lo piego e me lo infilo nella tasca dei jeans.
«Rapido, mi raccomando» dice, e mi fa l’occhiolino, stile “ci siamo capiti”; poi attacca a cantare The final countdown schiaffeggiandosi i pettorali per tenere il ritmo.
Mi fermo in Viale Aventino, davanti a un bel palazzo con le ringhiere dei balconi in ferro battuto, le finestre ampie, i davanzali pieni di fiori. Citofono al cognome segnato sull’appunto. I pulsanti e la piastra dell’apparecchio sono di ottone lucido.
«Sì?» domanda una voce femminile.
«Pizza al volo».
Trascorrono alcuni secondi di silenzio, uno strano silenzio interrotto dalle scariche statiche che si accavallano nell’altoparlante, e da una specie di sospiro di sottofondo; quindi la serratura scatta.
Spingo il portone, entro e chiamo l’ascensore. È di legno, con le finestrelle alle pareti.
Quinto piano. La cabina rallenta e si ferma con un rumore di ingranaggi ben oliati.
Poso i piedi sullo zerbino. Sopra c’è l’immagine di un gatto addormentato. La scritta sul collarino recita Benvenuti. La porta è blindata, come le altre del pianerottolo. Deve abitarci gente benestante, qui dentro. Magari ci scappa una buona mancia.
L’uscio è socchiuso. «Permesso?»
Il corridoio è in penombra; un grande specchio sul mobile davanti all’ingresso fa sembrare l’ambiente più spazioso. Osservo la mia immagine riflessa, e mi trovo sporco, trasandato. Dovrei andare dal barbiere, farmi una lampada.
A un tratto avverto dei passi: pochi secondi, e appare una donna di mezza età. È minuta, poco truccata. Tiene il borsellino in una mano; nell’altra, un fazzoletto stropicciato.
«Salve» dico. «Le pizze».
«Quant’è?»
Le porgo la busta con le ordinazioni, e lo scontrino. Lei posa il tutto per terra e non legge la cifra: estrae una banconota a caso.
«Tutto a posto?» domando.
Alza il viso, mi guarda.
Ha gli occhi gonfi, pieni di venuzze.
Rimane così per un attimo, con la mano a mezz’aria, poi mi spinge la banconota tra le dita.
È molto più di quanto deve. Frugo nel marsupio.
«Lascia stare». Fa per richiudere.
Di solito, quando una mancia è un po’ alta, non è che mi metto a fare il buon samaritano. Però stavolta è davvero troppo. «C’è una differenza di più di trenta euro».
«Cosa vuoi che me ne importi?»
Questa donna ha qualcosa che non va. Non voglio approfittarne. Non voglio che Mauro e Andrea ridano di lei, quando ci spartiremo i suoi soldi. «Le do il resto e me ne vado».
Mi fissa con le palpebre spalancate, sospira; si appoggia allo stipite. «Scusami».
«Ma no, si figuri».
Le consegno il denaro, contato fino all’ultimo centesimo. La donna lo accetta.
E lo lascia cadere sul pavimento.
Le monetine rimbalzano sul parquet, si disperdono rotolando intorno.
Volto le spalle, dico «Arrivederci e buona serata».
«Non hai visto nessuno, mentre salivi?»
«Come?»
«Prima, per le scale. Non hai incontrato… un uomo?»
«Ho preso l’ascensore».
All’improvviso, scoppia a piangere. Singhiozzi potenti che le spaccano il petto.
«Si sente… bene, signora?»
«Se n’è andato» dice, tra le lacrime che le rigano il viso. «Se n’è andato».
Le tocco una spalla, dico «Ha bisogno di…»
Si accascia sulla soglia, sempre singhiozzando. Che situazione del cazzo. Come mi metto, se si affaccia un vicino? Decido di portarla dentro. Almeno nessuno ci vedrà in questo stato. La donna mi permette di aiutarla, mi guida in salone. La sorreggo per qualche metro, poi lei dice «Aspetta» e si stende sul divano. Rimango in piedi al centro della stanza e non so come muovermi. La vetrinetta in fondo riflette il brillio del mio orecchino.
Pare che si sia calmata. Non piange più, anche se tiene ancora gli occhi chiusi. Respira piano.
«Signora?» La scuoto cercando di essere delicato. «Io devo rientrare».
Fa forza coi pugni sul bracciolo del divano, si tira su a sedere. «Hai ragione. Chissà che starai pensando di me».
«Non si preoccupi. Capita» dico, giusto per non restare zitto.
«Ti accompagno».
Ci incamminiamo per il corridoio.
«Sai qual è la cosa peggiore?»
«…»
«Che avevamo organizzato questa cena per ricominciare daccapo. Come quando non avevamo una lira e al massimo potevamo permetterci una pizza». Si avvicina un fazzoletto pulito al naso. «Che ci faccio adesso, con questa roba?»
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«No, non ci posso credere!» dice Mauro. Ride. «Sei rimasto a mangiare con lei?»
«Sì».
«Cioè, a casa sua?»
«Esatto».
«Voi due soli?»
«Te l’ho detto».
Non so che mi è preso. Il fatto è che mi dispiaceva mollarla, perciò le ho fatto compagnia, ho assaggiato due fette di pizza e ascoltato le sue chiacchiere. Mentre lei parlava di questo tizio, di questo grande amore di gioventù, io pensavo a Manuel. Me lo vedevo sotto casa di Chiara, lui che prova a baciarla e lei che gli ripete che sta frequentando un altro. Ho provato a immaginare come ci rimarrebbe, Manuel, se Chiara gli dicesse la verità. Se gli confessasse che sono io, l’altro.
«E perché non te la sei fatta?» dice Andrea.
E giù di nuovo a ridere, tutti e due.
Be’, non mi posso offendere. Al posto loro, forse mi comporterei allo stesso identico modo.
Vado da Patrizio, gli consegno i soldi e gli dico che me ne torno a casa. Sistemo il portapacchi accanto a quello di Manuel.
«Abbandoni?»
«Per stasera sì. Sono distrutto. Ciao».
«Come preferisci. Oh, Mirko, in gamba».
Prima che me ne vada, Andrea mi urla di non scoparmene troppe, strada facendo. Le sue parole si perdono nel rumore del traffico.
I miei genitori stanno guardando la televisione. Mi cambio e mi siedo sul divano, vicino a loro. C’è un film con Alberto Sordi. A me Sordi non piace, non è mai stato capace di strapparmi una risata, ma lo stesso decido di rimanere alzato. È da tanto che non facciamo qualcosa insieme.