Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2024 “La bottiglia di Campari” di Gabriele Bitterman

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2024

La bottiglia di Campari mi osservava dall’alto dello scaffale in cui si trovava. O forse ero io ad osservarla dal basso, accasciato malinconicamente per terra. Malinconicamente: un eufemismo.
Era mezza vuota. O mezza piena.
Guardandola mi domandavo proprio questo: è mezza piena o mezza vuota? Domanda antica, di quelle che sono vecchie perché una risposta forse non la hanno. Io però ero sicuro fosse mezza vuota: l’avevo bevuta, svuotata per metà.

Stavo con la testa appoggiata sull’armadio del minuscolo salone di casa mia che fungeva anche da ingresso. Scomodo. Presi un cuscino allungando la mano più che potevo verso il divano e lo misi dietro la testa. Leggermente più comodo. Le sigarette erano sul tavolo e dovetti alzarmi per prenderle rendendo inutile la fatica che avevo fatto per prendere il cuscino.

La bottiglia di Campari osservava questo pietoso spettacolo probabilmente chiedendosi anche lei,
È mezzo pieno o mezzo vuoto?,
desiderando girarsi dall’altra parte.
Sarebbe stato un comportamento singolare per una bottiglia di vetro, ma quella non era una bottiglia qualunque. Era l’ultima cosa che avevo bevuto prima di smettere di bere.
Per dieci anni l’alcol aveva rovinato la mia vita, anche se forse non è vero.
Dare la colpa all’alcol o ai miei genitori oppure alle sfortune che ho avuto nella vita, è più facile che dare la colpa a me stesso per aver assecondato le circostanze che mi portano ad essere un alcolizzato. C’è sempre tempo per darsi la colpa.

Bevevo perché non ero in grado di far tacere in altro modo il tumulto demoniaco che nella mia testa urlava di morire, che ero inutile, che facevo schifo, che nessuno mi amava né tantomeno mi avrebbe mai amato. In verità: mi urla di morire sono inutile faccio schifo nessuno mi ama né mi amerà. Anche adesso, sdraiato sotto il severo sguardo della bottiglia di Campari. Pazzo.

Tumulto demoniaco è come lo aveva definito il prete da cui i miei genitori mi avevano portato quando avevo 17 anni. Già a quell’età bevevo un po’ troppo ed ero indisciplinato, ma soprattutto mi cacciavo sempre nei guai. Ero arrabbiato, con tutti e tutto data l’età, ma soprattutto con me stesso e i miei genitori. Loro sono quello che si può definire dei bigotti cattolici retrogradi. Io sono la punizione secolare per la loro bigotteria: un figlio frocio.

Sapevo cosa sarebbe successo se gli avessi confessato cosa mi piaceva, o sarebbe piaciuto fare; sapevo che non avrebbe portato a niente di utile. Eppure, lo feci lo stesso, in segno di sfida e di sdegno verso le stupidaggini cristiane che cercavano di farmi ingoiare da quando ero bambino.

Eravamo in salotto. Li avevo fatti sedere davanti a me mentre io ero rimasto in piedi. Mia madre era preoccupatissima, sentiva che avrei detto qualcosa che avrebbe fatto infuriare mio padre
Mamma papà io sono gay.
Mia madre strizzò gli occhi con pollice e indice, forse a trattenere le lacrime o per paura delle conseguenze di quella dichiarazione scandalosa. Mio padre ci sorprese. Mi guardò per qualche secondo, si alzò in piedi e pronunciò come un colpo di gran cassa,
No,
ma senza urlare, pacato. Poi uscì di casa.
Mi portarono dal prete e io li lasciai fare perché mi divertivo a prenderli in giro facendogli credere che credevo. Ovviamente tutto il mio disagio, la droga, la violenza su di me e sugli altri, passavano in secondo piano ed erano tutti frutto della mia omosessualità. Così li convinse il prete: un demone è entrato dentro di me usando la mia omosessualità come accesso. Curata l’omosessualità, il demone non avrebbe più avuto spazio dentro me e il mio disagio sarebbe scomparso. Nessuno sembrava rendersi conto di quanto tutto questo suonasse gay: il demone che mi entra dentro e viola la mia anima per rendermi impuro. Faceva ridere, ma ero anche preoccupato che mi avrebbero sottoposto a qualche esorcismo legato da qualche parte.

La settimana dopo dissi ai miei genitori che non avevo più intenzione di vivere con loro, che me ne andavo dai nonni e che avrei preso il prima possibile una casa per non essere più di peso a nessuno. Questa volta mia madre pianse copiosamente e tentò di convincere mio padre a dissuadermi, senza mai provarci lei. Lui invece mi disse,
Credo sia meglio per tutti che tu vada,
poi rivolto a mia madre,
Come padre ho fatto abbastanza danni.

Dopo la maturità presi la patente per guidare furgoni e riuscii ad andare via da casa dei miei nonni.
Ero finalmente da solo. Potevo finalmente vivere la vita come desideravo senza sentirmi dire cosa dovevo e non dovevo fare. Portavo ragazzi a casa mia e mi ci svegliavo accanto il giorno dopo disgustato al pensiero di farmi toccare di nuovo. Li svegliavo e li cacciavo via ancora con gli occhi appiccicati. A volte riuscivo a portarmi anche delle ragazze, provavo a non essere solo gay, e riuscivo anche lì per lì. Poi la mattina, dopo averle cacciata e senza più l’alcol in circolo, vomitavo per la vergogna.

Ero libero sì, libero di essere chi volevo. Ma invece di diventare chi volevo essere, tutto quello da cui ero fuggito mi raggiunse di nuovo e l’euforia di essere grande, adulto, responsabile, divenne un maledizione, un inganno.

Presi a bere e a fare sesso in maniera incontrollata con persone e in situazioni che mi disgustavano. Quando mi ritrovavo senza alcool e senza soldi per comprarlo univo le due cose: trovavo qualcuno completamente ubriaco disposto a fare sesso con me, più per l’alcol che speravo fosse nello sperma che per il piacere dell’atto. Lavoravo solo per saziare la mia fame di disprezzo: alcolizzato, vomitavo addosso al mondo, desiderando che il mondo ricambiasse. Ero andato via per stare da solo. C’ero riuscito.

Un giorno, avevo 25 anni, venni svegliato dal telefono che squillava. Disidratato e con la testa dolorante, risposi confuso senza guardare lo schermo. Era mia madre. La voce rotta, genuflessa, non disse neanche “ciao”,
Tuo padre ha avuto un ictus,
ci fu una pausa che ricordo bene, sapevo cosa stava per dire e cercavo di capire se ero sveglio o no,
È morto poco fa.

Andai al funerale anche se non volevo. Non piansi, non parlai con nessuno, non dissi nulla. Ero ubriaco e cercai in tutti i modi di nasconderlo, non perché rispettassi il contesto, ma per il timore di dovermi vergognare.

Qualche settimana dopo, durante un raro e breve momento di lucidità, quella morte mi colpì all’improvviso: se avessi continuato in quella maniera, anche io sarei morto a breve. Sarebbe stato un funerale senza nessuno, mezzo vuoto. Qualche vecchio amico che si domandava come fosse possibile che quel bambino che avevano conosciuto fosse finito così; una madre delusa dal figlio, forse disgustata, ma pur sempre la madre, quindi piangente, distrutta; forse un amante, un fidanzato. Sentii un enorme vuoto davanti a questa immagine, ci cascai dentro, rimbalzando in mezzo a tutti loro che sembravano così pieni, reali, mentre io assomigliavo più ad un buco senza pareti.

Ci provai.

Trovai una psicoterapeuta, Giorgia. Piano piano mi convinse a prendere altre contromisure: degli psicofarmaci, gli Alcolisti Anonimi. Preso dall’euforia del momento stavo meglio, mi sentivo rinato, o che stavo rinascendo, finalmente in grado di capire cosa volevo quando me ne ero andato di casa a 17 anni. A volte pensavo di chiamare mia madre, parlarci; oppure di andare alla tomba di mio padre per dire qualcosa, anche se non sapevo cosa. Quando ci pensavo mi arrabbiavo e cercavo subito di dimenticarmene.

Alla fine, l’euforia passò e ripresi a bere. Non quanto prima: andavo su e giù. Bevevo ma andavo comunque agli Alcolisti Anonimi; smettevo di andare da Giorgia perché mi sembrava volesse anche lei incasellarmi come aveva fatto la mia famiglia, ma poi tornavo dopo una brutta serata o di nuovo per lo spavento della morte. Non riuscivo a trovare un punto fisso che mi inchiodasse ad una sicurezza, per questo oscillavo. Un quadro con un solo chiodo.

Un giorno, mentre parlavo a Giorgia del “tumulto demoniaco” nella mia testa, mi fece una domanda
Sicuro che quella voce sia tua?
In un attimo, come per magia, mi divisi in due e vidi dall’altra parte il demone di cui il prete parlava. Ma non era un demone. Ero io, io arrabbiato, io disgustato, io pieno di vergogna, io abbandonato, io alcolizzato, io in tutto il mio maestoso malessere.

Migliorai molto. Avevo qualche ricaduta, ma leggera, qualche birra o poco più. Niente più litri e litri di alcol, niente più sesso fuori controllo, niente più rabbia. Avevo addirittura un principio di relazione stabile che non andava benissimo, ma c’era. Questo ragazzo mi amava, io invece no. Forse è per questo che era così determinato ad aiutarmi a concludere definitivamente questo ciclo di distruzione e rinascita in cui ero intrappolato. Lo era fin troppo, sapevo che lo faceva per amore, ma questo mi rendeva solo più arrabbiato. Però grazie a lui quasi non bevevo più, fungeva da controllore. Fino al giorno della bottiglia di Campari.

Durante un litigio mi aveva dato dell’alcolizzato. Sentendoglielo dire volevo ammazzarlo, ma non ci volle molto che passai a voler ammazzare me. Il tumulto demoniaco nella mia testa comincio a cantare in coro, così andai a comprare la bottiglia di Campari.
Bevvi in un solo sorso metà bottiglia, a stomaco vuoto e aggiungendo subito dopo un numero imprecisato di gocce di Lexotan.

Mi svegliai il giorno dopo, per terra, in un parco. I vestiti sporchi di sangue e fango e forse qualcos’altro. Accanto a me un pezzo di vetro che probabilmente avevo usato per decorare le mie braccia con tagli verticali di diverse dimensioni. Mi sentivo calmo e dopo aver raccolto la bottiglia di Campari mezza vuota, mi diressi verso l’ospedale più vicino. Quando mi chiesero se volessi chiamare qualcuno diedi il numero di Giorgia e fui molto contento quando la vidi entrare nella stanza,
Che hai fatto?,
disse cercando di mantenere la calma professionale,
Quello,
indicai la bottiglia di Campari,
Metà, un sorso solo,
E l’altra metà?,
perplesso indicai di nuovo la bottiglia,
È ancora là,
Bene,
mi sorrise,
Facciamola rimanere mezza piena.
Quella è stata l’ultima volta che ho bevuto.

Così stavo con la testa appoggiata scomodamente sul cuscino appoggiato sull’armadio e la sigaretta che grattava piacevolmente i miei polmoni. Mi alzai e andai verso lo scaffale. Erano anni che quella bottiglia era là, non toccata, piena di polvere. La bottiglia di Campari mi guardava giudicante dall’alto dello scaffale, il suo monito chiarissimo, scritto a caratteri vuoti nella sua metà mancante.
Affaticato, resistevo. Poi il mio demone parlò.
Ero solo come un cane abbandonato, con me c’era solo la bottiglia di Campari mezza vuota. Ed io come quella metà. Vuoto.

Prese la bottiglia di Campari con entrambe le mani, impolverandosele. Gli scivolò sull’alluce. Bestemmiò e la raccolse. Levato il tappo avvicinò il naso e inebriato mormorò qualcosa come,
Solo come un cane… fammi compagnia… sono un frocio di merda che non vale cazzo… voglio morire…
Parlava tra sé e sé, piagnucolando. Si rovesciò addosso tutti gli insulti che conosceva come se stesse ripetendo qualcosa che qualcuno gli suggeriva attraverso delle cuffie. Infilò il dito dentro la bottiglia e la rovesciò quel tanto che bastava per bagnarlo. Guardò il dito bagnato dal liquido rossastro e lo portò verso la bocca. La voce che suggeriva insulti attraverso le cuffie cambiò,
Sicuro che quella voce sia tua?
Alzò la bottiglia sopra la testa e con il Campari che gli sgorgava in faccia colpì il tavolo. La bottiglia andò in pezzi, alcuni si conficcarono nella mano e sul braccio, qualche scheggia si appiccicò sulla faccia sporca di liquore.
Tante piccole gocce circondavano i suoi occhi,
Perché nessuno mi vuole aiutare?, perché nessuno sa chi sono?, sono solo come una cane abbandonato.
Il moncherino della bottiglia puntava il suo polso. Lo poggiò sulla pelle, la faccia tutta stretta verso il centro. Un attimo di silenzio. Un colpo secco, ma più in alto. Un taglietto, niente di grave. Aprii gli occhi e lo vide. Ebbe un fremito di paura e la bottiglia cadde frantumandosi.
Seduto in una pozza di Campari e vetri pensava ad alta voce,
Non voglio più vivere…. non voglio più vivere…

In quel momento sentì la serratura scattare e la porta aprirsi. Saltò in piedi afferrando lo Scottex per asciugare le lacrime miste al Campari,
Eii sono uscito prima da lavoro oggi così riusciamo ad andare al mare a fare le foto al tramonto.
Voleva rendersi presentabile, guardabile. Lo prese il terrore che il suo fidanzato vedendolo lo avrebbe guardato deluso, avrebbe poggiato sul tavolo le chiavi che recentemente aveva fatto fare per lui e sarebbe andato via senza girarsi.
Urlò un “ciao” piatto, mentre tenendosi spalle alla porta strofinava i capelli con la carta. Il fidanzato girò l’angolo che separava l’ingresso dal tavolo
Sei pron…che hai fatto?,
gli scivolarono le chiavi di mano mentre posava delle buste della spesa sul divano,
Niente niente la bottiglia di Campari è cascata dallo scaffale, ha preso il tavolo ed è esplosa e…
Ma ti sei fatto male al braccio!,
No tranquillo tranquillo non è nulla,
Non è nulla un cazzo stai sanguinando.
Prese lo Scottex e gli tamponò il braccio dandogli un bacio sul naso, poi sulla bocca. Un sospiro di sollievo passò in mezzo al suo sorriso,
Certo che sei proprio uno scemo! Come hai fatto a far cadere la bottiglia?
Si inventò una bugia: stava giocando a lanciare in aria una delle palline da giocoliere e per sbaglio aveva colpito la bottiglia di Campari.
Il silenzio afferrò la stanza. Il fidanzato lo guardava con la testa inclinata, incredulo dell’assurdità che aveva appena sentito,
Ora poggia le chiavi sul tavolo e mi lascia,
pensava guardando per terra con la mani dietro il collo.
Il fidanzato si girò, raccolse le chiavi e le posò sul tavolo,
Mannaggia! La bottiglia di Campari! Era un cimelio importante, il trofeo della tua vittoria
disse sorridendogli, poi aggiunse ridendo,
Così smetti di rompere se è mezza piena o mezza vuota.

Guardava incredulo le chiavi. Non capiva perché lui fosse ancora là con lui. Si sentiva umiliato, ingrato della sua presenza, del suo rimanere là. Poi lui gli fece cenno di tenere la carta che tamponava la ferita e con un cenno della testa indicò il bagno,
Dai vatti a lavare così usciamo, io intanto metto a posto questo casino, ché nonostante questa bottiglia fosse mezza vuota ha sporcato tutto.

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3 commenti »

  1. Un racconto molto forte, così tanto che mi viene da dire “di estrema sincerità”, se non fosse finzione. La scrittura a volte è un po’ acerba, ma l’anima della storia è di grande impatto emotivo. Si coglie una sofferenza vera alla quale devi avere attinto per colorare queste righe che colpiscono. Continua così.

  2. L’abisso e la speranza nell’amore. Bellissimo. Complimenti Gabriele.

  3. Un racconto autentico, che mette in scena la dura realtà della sofferenza e dell’odio di sé, ma che, al tempo stesso, apre le porte ad una ritrovata speranza, capace di colmare un vuoto apparentemente incolmabile. Davvero complimenti.

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