Premio Racconti nella Rete 2024 “Ascetica” di Gianni Gioanola
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2024ASCETICA
vocazione
Insomma, io ce l’ho messa tutta. Non so più quanti digiuni, ormai in quella grotta la roccia ha preso la forma del mio culo. E viceversa, certo.
Ho consumato i grani del rosario. Certo che è granito. Ma anche quello, se te lo passi fra le dita ogni mezz’ora, dall’alba a compieta, anche lui si sfarina. Lascia fare.
La gola non si ricorda manco più cosa sia lo zucchero: pane secco e acqua fresca, qualche foglia di insalata. Persino nei sogni sono arrivato a costringermi: all’inizio sognavo banchetti, dolci, vini finissimi. Adesso solo più pane secco. Anche lì.
Il sesso? Stai scherzando? Guarda qui, per essere sicuro di non cadere in tentazione ho bucato le brache. Quando mi viene da pisciare non devo neanche più sbottonarmi: tiro su la stoffa, esce l’affare e la faccio. Manco mi tocco, sembro un cavallo. E le donne quasi non le vedo più, e a forza di abbassare lo sguardo per strada ho battute tante di quelle testate che ragiono ancora per miracolo.
Sì, vabbè, molto spiritoso.
Il carattere. Non sai quanto c’ho lavorato. All’inizio mi prendevano attacchi di scoramento, di stanchezza, di invidia per gli altri, per voi che vivete normalmente. Non sai le costrizioni: il tempo passato in ginocchio sui ceci, i pateravegloria ad alta voce, che anche i vicini non ce l’hanno fatta più, povera gente, e han cambiato casa, qualcuno addirittura città.
Insomma, una merda, una fatica della Madre Santa. E di là non un minimo segno. Non dico dai preti: quelli sono sempre gli ultimi a capire, testa bassa e occhi chiusi, tutti concentrati sul pollaio del vicino e sul culo della perpetua. Ma almeno dai piani alti: un piccolo segnale, che so, un po’ di aura, due stimmatine. Adesso non voglio dire un vero miracolo, ma almeno un prodigio, piccolo piccolo, una candela che si accende da sola, un buio improvviso – lo so, lo so, eclisse. Sei proprio il primo della classe – un legno fiorito, una rosa in mezzo alla neve. Qualcosa che ti dica va bene, figlio buono e meritevole, abbiamo visto, apprezziamo, sei nel Nostro Sacro Cuore. La soddisfazione e la gloria non saranno di questo mondo, ma il Cielo ti riserva un posto accanto a Noi.
Un cazzo di niente.
Neanche la minima illuminazione, per dire, quando qualcuno viene a chiederti guarirò? Sarò ricco? Sarò bella da grande?
Macché, non dico un fulmine, ma manco un cerino. E se ne vanno via, qualcuno maledicendo i santi falliti, qualcun altro, peggio ancora, ridacchiando sardonico.
Forse il problema è che non si può essere asceti part time. Così non si fa altro che sfiorare il barbonismo, rischi ancora che arrivino gli sgherri e ti buttino dentro.
Allora la strada è divisa in due: o lasci perdere, e tradisci quell’urto interiore, quell’urgente anelito al sacro. O, al contrario, intensifichi il sacrificio, l’ascesi. È ora di scegliere la strada dura, te lo dico io. Mando a cagare tutto: la casa, il fratello la cognata i nipoti, soprattutto la cognata, il sicuro impiego di scriba giù, in centro. E prendo la strada che mena fuori città, alla grotta, al deserto. E lì, con quell’unico albero spelato davanti, a disfarsi nella meditazione e nel digiuno.
Sì, faccio così. Vedrai, se non ci riesco. L’anno prossimo, di questo tempo, sarò santo. O sarò morto: allora riderai tu. Se no, rido io, e mi devi una cena.
tentazione
Mio buon Signore, soccorri il tuo servo umile e fedele! Anche oggi ho rifuggito i richiami della gola e anche gli altri, Signore, anche oggi da questo mio stallo guardo da lontano quell’unico fico e non mi avvicino.
L’ho visto prima crescere dal fiore, poi cambiare lentamente colore, maturare poco a poco, spaccarsi di lato e mostrare il rosso scuro dell’interno, quel colore caldo e invitante, lo stesso colore della bocca di Rosa – ecco, mio Signore, ecco che i pensieri impuri si impadroniscono ancora di me! Ecco che ancora, mentre mi costringo a ignorare i morsi feroci della fame (che fame, Signore, mangerei un cane intero, coda e baffi!), mentre rimuovo dalla mente il meraviglioso sapore e il profumo ammaliante di quel frutto perfetto, e li sostituisco – nella mia mente, certo – con il profumo, vabbè, con l’odore del pane secco e con la sensazione dell’acqua tiepida lungo il gargarozzo, ecco che il frutto carnoso si trasforma nella bocca stregante di una bella donna. E io devo ricominciare, chiudere gli occhi, concentrarmi sul mio respiro, recitare in silenzio l’Atto di dolore e tante avemarie fino a che il cuore smetta di sbattere contro le costole, e finalmente io possa riaprire gli occhi.
E il fico è là, mio Signore, è sempre là, che fico! Proprio lì dove la buccia si è aperta, si è posata una vespa, e si delizia della polpa zuccherina.
È giusto.
Tutte le creature hanno diritto al nutrimento, e financo alla soddisfazione della gola, al piacere del palato. Le altre creature, dico, non gli umani, non io. Poiché nelle vespe, così come nei cani o nei polli o nei gamberi del ruscello, la gola non è peccato, poiché essi non possiedono un’anima da sporcare.
E infatti di essi noi ci possiamo cibare, e se le vespe non ne sono atte, i polli e i gamberi rallegrano le tavole imbandite degli uomini, e persino i cani, non fossero bestie immonde, trattati come si deve, frollandoli per un paio di giorni, marinandoli nel vino rosso con cipolla, carota e coriandolo, si fa per dire, eh, Signore? Fatti andare pian piano a consumare la marinata, con un’insalatina gentile e il rosso giusto…
Peccatore!
Peccatore!
De profundis clamavi, Domine… Quando il sole sarà sceso oltre la collina lì a sinistra, concederò a questo carne debole il sostentamento del pane e il sollievo dell’acqua. Fino ad allora, pregherò in silenzio e tornerò a concentrarmi sul nulla. Il vuoto. L’interno del guscio di una noce vuota. Anche di più: la coscienza di una vespa, intenta a suggere lo zucchero di un fico aperto. La sua mancanza di coscienza, la sua dipendenza dal cieco istinto, la consapevolezza di sé ridotta all’appoggio delle zampine sulla buccia, al nutrimento spaccato e rosso come – lasciamo perdere – spaccato e rosso, al respiro lento e minimo attraverso gli opercoli lungo l’addome, così ben modellato sotto il restringimento al centro, l’alternarsi di pieni e vuoti, l’assottigliarsi e il gonfiarsi, ricordano le belle forme di
Peccatore!
Peccatore!
Per questo il tuo Padre Celeste verso il proprio sangue, per questo bevve l’aceto? Pater noster, qui es in coelis… E solo al crocifisso si rivolga la mente tua, solo a quel capo reclinato e punto dalle spine, alle mani e ai piedi trafitti, al costato inciso e ornato dai bei seni…
Un crocifisso con le tette?
Peccatore!
Bestemmiatore!
Stabat mater dolorosa…
espiazione
Signore del Cielo e di noi, qui, disseminati in ordine sparso, ascolta questo tuo servo, illuminagli i giorni e specialmente le notti! Che nessuno glie ne ha parlato, a questo tuo servo, ma le notti nel deserto, Signore, Dio, che freddo! E quando non si gela, buon Signore, luce dei credenti e tepore dei giusti, quando non fa così freddo siamo qui indifesi di fronte a orde di famelici moscerini.
Ma io mi chiedo, Signore di noi traforati, ma com’è che nessuno dei tuoi santi ed eremiti fa cenno mai alle zanzare? No, perché te lo giuro, Signore, è una tortura! Sono nuvole di quei piccoli bastardi – anche loro tue creature, lo so, ma pur sempre figli di madre ignota – che quando finalmente, col chiaro, se ne vanno a far danni altrove, ti lascian lì arrossato e prudente (nel senso del prurito) senza un centimetro di pelle che non gridi grattami! Grattami!
Come mai, Signore di ogni saviezza, degli unguenti, dei fiori e del piretro, come mai nessuno se ne duole? Forse che il loro odor di santità allontana i parassiti? L’aura che splende attorno al loro capo (a proposito: quand’è che ne accendi un poco anche intorno a me, mio buon Signore, Luce Divina?), quell’aura lì tien forse lontani gli insetti molesti?
Oppure è più sottile.
Oppure anch’essi sono torturati da tafani e pappataci, e solo non ne parlano. E perché mai non ne parlano, buon Signore? Due sole son le spiegazioni, se ci pensi, Signore: uno, non vogliono che si sappia. O due, non importa loro nulla. Che si sappia, dico.
Nel primo caso, sperano forse di ridurre la concorrenza, nascondendo le difficoltà del cammino? Credono davvero essi che uno che ha lasciato casa e famiglia e cognata e lavoro, uno che da settimane si tortura con digiuni e rinunce, sperano forse che un fedele di tal fatta si faccia spaventare da quattro pustole, gli stronzi?
Chiedo scusa, Signore, essi sono senza dubbio i tuoi eletti, ma a maggior ragione, perdinci, come potrebbero essere così meschini? O io non ho capito niente, e la santità può far rima anche con la meschinità?
Preferisco pensare a due. Cioè, al secondo caso, Signore. Cerca di seguirmi. Essi non si curano del fastidio, anzi, essi salutano con gioia quel fastidio, quel doloroso prurito, poiché tale stato fornisce loro un altro mezzo per vincere sé stessi, un altro stimolo da sublimare, in aggiunta alla fame, al freddo, all’astinenza, alla terribile, totale solitudine, che porta talvolta anche loro, ne sono sicuro, a rivolgere la parola agli uccelli – no, non al proprio, ma allora sei anche spiritoso, Signore! Spiritoso e santo! – e quando pure quelli li schifano alle farfalle e alle lucertole, a qualsiasi cosa voli o cammini o strisci schifosa in questa calma vuota e perenne.
Così dev’essere, Signore di tutte le creature. D’altronde ciò mi conforta e mi spiega anche quel colore strano che tanto mi aveva colpito nel ritratto del tuo Santo Bernardo l’Eremita. L’avevo visto tanti anni fa, ero ancora un pischello peccatore, in una fiera, esposto insieme ad altre immagini sacre e profane da un cantastorie che ne narrava la vita e i miracoli. E quel Santo, Signore, c’aveva un colorito come avesse preso il sole, e io pensai – stupido giovinetto che ero – ecco, il santo nel deserto, tutto il giorno al sole e al vento s’è colorito la pelle, come fanno a volte a bella posta i ragazzi e soprattutto le ragazze, e soprattutto Magda.
Macché. Macché, Signore delle rivelazioni e della verità: quel rosso della faccia e delle spalle eran zanzare, e il rosso degli occhi eran le notti a non dormire, a cercare di dimenticare affanni e tormenti, pregando e sublimando.
E così dunque sia, Signore di tutti i santi, si dimentichi dunque il prurito e il dolore, e si rivolga il nostro canto al Cielo benigno e misericordioso.
Libera nos, Domino, a malo…
Una bella “visione” molto umana dei recessi mentali dell’asceta che ricerca la santità Ottimo linguaggio ironico, ben giocato anche sulle immagini, metafore di pensieri incofessabili. Complimenti, mi è piaciuto molto !
Grazie mille, Marco, molto gentile.