Premio Racconti nella Rete 2024 “La pièce teatrale” di Damiana Marzano
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2024È già il crepuscolo quando scendo dal treno. Metto piede nella mia terra e sento già aria di rappresentazione sacra. Arrivo sulla strada della mia infanzia ed entro nel palazzo della mia adolescenza. Apro la porta di casa e subito scorgo, illuminato da riflettori caldi, il solido palco.
Mia madre è dietro le quinte ad aspettare. Mi dirigo in camera per posare le mie cose, e faccio più rumore del dovuto, per annunciare il mio arrivo. Prendo il mio posto. Lei mi vede e prende vita. Non ho neanche il tempo di andare in bagno che mia madre entra in scena, con il suo primo monologo.
Atto Primo
Corridoio di casa, poi camera da letto.
Mamma: Com’è andato il viaggio? Ti vedo sciupata, stai mangiando? Vuoi scomparire dai vestiti? Ma che hai combinato ai capelli? Te li stai rovinando. Erano così belli quando eri piccola. Non mi stai mai a sentire, ti ostini a tingerli ma ti invecchiano. Dio mio, ma poi che hai fatto, te li sei cotonati? Senti, apri un po’ la finestra che si deve arieggiare la stanza. Sta chiusa così a prendere polvere da mesi. E si devono cambiare le lenzuola. Ah, ho lasciato qualche scatolone di roba vicino all’armadio che non sapevo dove mettere, non ti dispiace vero? Ma dimmi un po’, che vogliamo preparare per cena? Qua ormai non si cucina più eh!
Eccolo, è il mio momento di parlare. Provo a proporre una pasta all’amatriciana. Lei però mi dice che ha scongelato il pollo. E allora va bene il pollo. Mi chiede come cucinarlo. Propongo al curry. Ma lei lo vuole fare al limone perché si abbina meglio all’insalata. Al limone è perfetto mamma. Ci spostiamo in cucina per preparare la cena. Le chiedo come sta, come vanno le cose a casa, con papà. Lei adora questa parte della sceneggiatura.
Cucina
Mamma: Come vuoi che vada? Sempre uguale, sempre peggio. L’acqua è bassa e la papera non galleggia! Io e tuo padre stiamo sempre a faticare e come ci danno i soldi in mano così li passiamo alla banca per il mutuo, all’Enel, all’Agenzia delle Entrate. E le quattro lire che ci rimangono in tasca ci servono per tenere in piedi questa disgrazia di impianto idraulico, che se lo facevo io veniva meglio. Il lavandino è sempre otturato, la lavastoviglie è da buttare e ogni tanto si allaga anche il bagno. Ormai all’idraulico gli abbiamo pagato pure le vacanze alle Seychelles. ‘Sta casa cade a pezzi figlia mia. Ma tanto… a te che te ne importa? Vieni qua due o tre giorni per fare bella figura e poi te ne torni a Milano a fare la tua vita. Neanche al telefono rispondi più. Sempre troppo impegnata questa povera figlia mia. Teniamo il re qua, signori! Per parlarci bisogna prendere appuntamento sei mesi prima. Figuriamoci poi se ci dà una mano con i soldi! No, ha il braccino corto lei, ha preso dalla cognata. Ricordati che tu stai a Milano grazie alla fatica nostra. Come è bello, vero, campare sulle spalle degli altri?
Oso contraddirla. Le parole si succedono fluide sulle mie labbra, ricordo senza fatica le mie battute. Le dico che non è vero che non m’importa e che vorrei tanto avere il tempo di chiacchierare al telefono per ore, ma il lavoro è diventato impegnativo. E che vorrei aiutarli, ma coi pochi soldi che guadagno sto ristrutturando casa. Lei a malapena mi ascolta mentre apparecchiamo la tavola. Pensa che sono una schifezza di figlia, e non ha il tempo e la voglia di cambiare idea.
Si sente un rumore di chiavi, e una porta che sbatte, è arrivato papà. È in ritardo come al solito. Entra anche lui in cucina, in scena. Mamma guarda l’orologio e con una smorfia irritata prende atto anche lei del ritardo. Come se fosse la prima volta, come se non fosse sempre così. Papà mi vede e sorride, viene verso di me con le braccia protese e io mi avvicino per abbracciarlo. Lui mi dà una pacca sulla spalla e poi mi scansa per arrivare al frigo dietro di me, alla birra ghiacciata che lo sta aspettando. Poi ci sediamo a tavola e la danza comincia. Mio padre assaggia il pollo e fa la faccia di chi ha appena addentato della merda. Si parte.
Atto Secondo
Tavolo in cucina, sera
Papà: Giovà, ma che ci hai messo in questo pollo?
Mamma: Niente Fabrizio, il limone.
Papà: Ma lo sai che a me non piace il limone, che ce lo metti a fare?
Mamma: Ma a chi è che non piace il limone? Non sa di niente, è come dire che non ti piace l’acqua.
Papà: Ma che stronzate vai dicendo Giovà, l’acqua è come il limone? Ma cose di pazzi…
Mamma: Lo preferiva al vino bianco? O al curry, vossignoria?
Papà: Eh si, al curry già era meglio. Almeno sapeva di qualcosa…
Mamma: Vabbè allora facciamo così, la prossima volta non preparo proprio niente. Mi fa pure schifo cucinare. Prepara tu, che sei così bravo.
Tento di smorzare gli animi dicendo a mamma che secondo me il pollo è molto buono, ma le mie parole sembrano dissolversi nell’aria. Non gliene importa un fico secco a nessuno se mi piace o meno il pollo. Continuiamo a mangiare in silenzio. Mio padre dopo un po’ alza lo sguardo e guarda il quarto posto a tavola rimasto vuoto. Eccoci, è il momento del fantasma. Papà si rivolge a me e mi chiede se ultimamente ho sentito mio fratello. Gli dico che ci ho parlato la settimana scorsa. Che era entusiasta perché a Londra gli hanno approvato un progetto di ricerca e… Papà mi interrompe, il riflettore illumina lui e solo lui deve parlare.
Papà: Se tu sei una schifezza, lui è proprio una mappina! Sono tre mesi che non si fa sentire quell’ingrato. Troppo preso dai suoi ideali da radical chic. Gli ideali sono da idioti, piccirella. Il mondo vero è un altro, il mondo vero voi non lo conoscete. Voi la fatica non sapete neanche dove sta di casa. Li chiamate lavori i vostri? Io li chiamo pazzielle. E infatti state sempre senza una lira. Tuo fratello mi chiama solo quando gli servono soldi. Stiamo facendo cose importanti qua papà, mi dice. Stiamo cercando di cambiare il mondo. E quando vuoi cambiare il mondo i soldi non sono importanti. Ah, se vi vedesse papà mio. Si starà rivoltando nella tomba adesso. Abbiamo sbagliato tutto con voi, vi abbiamo viziato troppo. Niente vi dovevamo dare. Così avreste imparato il valore vero delle cose. Il valore delle cose che si conquistano col sangue e col sudore!
Io non ribatto, mi limito ad annuire. So che in questo contesto le mie parole non sono influenti. Non posso cambiare la trama, bisogna seguire il copione. E qui il mio ruolo, c’è scritto, è stare in silenzio.
Papà: Ma almeno sta bene? Gli serve qualcosa?
Gli dico che sta bene e che non gli serve nulla, il progetto di ricerca è ben pagato. Lui accetta le mie parole e si acquieta. Finiamo di cenare in silenzio, a riempire la stanza solo il rumore delle posate che battono sui piatti.
Dopo cena, come d’abitudine, ci dirigiamo in salotto per vedere un film. Ne mettiamo uno a caso, quello che passa in tv, anche se è già cominciato. Non importa, tanto nessuno lo vedrà davvero. Mio padre, seduto a destra sul divano, fuma una sigaretta. Mia madre seduta dal lato opposto, ben attenta a non sfiorarlo neanche per sbaglio, imita il suo gesto. Io mi siedo sulla poltrona e per loro è come se scomparissi. Non mi vedono più. Li guardo e sembrano così lontani, assorti nei loro pensieri. Sembrano finti. Restano così, con gli occhi fissi sullo schermo, come ipnotizzati. Chissà a cosa stanno pensando. Chissà se stanno pensando. Non lo so, e il brusio della televisione sottrae anche me dai miei pensieri. Dopo un po’ papà si alza e se ne va in camera, borbottando un ‘buonanotte’ dal corridoio. Mia madre ed io lo congediamo in coro.
Un altro fantasma che se ne va.
Ora siamo solo io e la mamma. E la mia invisibilità si fa più pesante. Siamo solo io e ciò che temo di diventare. Una donna rassegnata a essere uno spettro. Lo spettro di chi avrebbe voluto vivere diversamente, di chi troppo presto ha deciso che era troppo tardi. Troppo presto si è vestita a lutto, stoffe umide intrise di solitudine e disperazione, che asciugandosi l’hanno imprigionata. Senza possibilità di uscita, ha seguito i passi che il suo stretto abito le concedeva. Una danza di resa, lenta e malinconica.
Io me ne vado inosservata in cucina e preparo un tè. Glielo porto come per rivelarle la mia esistenza, per ricordarle che li ci sono anche io. Per dirle, con quel semplice gesto che la capisco, che non ho mai sentito la sofferenza di qualcuno quanto sento la sua, che la amo come solo una mamma si può amare, con tutte le ipocrisie e le contraddizioni. Lei lo prende e mi sorride con gli occhi stanchi e affossati, ma non so se ha ascoltato quel gesto, il suo sembra più un sorriso di cortesia. Prima ogni tanto mi dava una carezza, ora neanche più questo. Io, invece, quanto disperatamente la vorrei quella carezza. Quante cose sarei disposta a fare per quella carezza. Nessuna altra carezza è come la sua, nessuna mano liscia e morbida e bella e delicata è come la sua mano ruvida e dura, quando mi dà quella carezza. Ma non me la dà, neanche questa volta. E allora continuiamo a vedere il film in silenzio, finché lei non si addormenta sul divano. Io aspetto che finisca il film, che qualcuno mi dia un segnale per poter proseguire lo spettacolo. Poi mi alzo, le metto una coperta addosso, spengo la tv e la luce e vado in camera mia.
La mia ultima scena.
Spengo la luce e mi accoccolo nel mio letto ammuffito. È piccolissimo e scomodissimo e non riesco a prendere sonno. Mi rigiro tra le coperte col suono delle vecchie assi di legno sotto di me e mi concedo di piangere un po’ nel cuscino. Penso al perché io mi ostini a tornare. Al perché io non riesca a lasciare all’erosione del tempo le ossa di ciò che è stato. Perché non mi concedo di dimenticare ciò che ero, ciò che ho sbagliato? Quando apro quella porta di legno rumorosa per rientrare nella mia casa, per rientrare in scena, tutta la mia sofferenza di giovane donna, colma di indecisione e turbamenti, torna vividissima e presente.
Atto Terzo
Il riflettore si accende su di me, per la prima volta.
Figlia: Torno perché non posso fingere che una parte di me non sia ancora qui, nella mia vecchia casa infestata dai fantasmi, dove affondo nei ricordi, nel senso di impotenza provato di fronte alle scelte che i miei genitori hanno fatto per noi, per me. Qui ritrovo la parte di me più insignificante e mortale, così minuscola, inutile ed invisibile che l’ho abbandonata incatenata nella mia stanza. Quando torno è qui che mi aspetta, mi ripete che quell’ombra avvolta su sé stessa per occupare il minor spazio possibile ero io, sono io. Mi chiede di ascoltarla e io mi accovaccio accanto a lei e ascolto il suo dolore. Mi prega di dare peso a quel dolore e mi persuade a direzionarlo verso mondi dove, finalmente libero, può mutare in altro. Ma il suo flebile ricordo non dura a lungo. A volte mi sfugge il senso, il motivo per cui mi alzo al mattino e con tanta tenacia io continui a fare le cose, a vivere. È per questo che devo molto ai miei genitori, alla mia famiglia in generale. Perché ogni volta che perdo l’orientamento e cado nel buio dell’apatia, ogni volta che comincio a sentirmi più spettro che donna e in me sento solo la morte torno a vedere la mia pièce teatrale preferita. Vado a vedere un dramma umanissimo, straziante, e che fa male. Ma mi ricorda per cosa lotto, mi ricorda per cosa vivo. E in me tutto si riequilibra.
Poi abbraccio il mio peluche di bambina e, infine, nel buio, esco anche io di scena.
Un’ottima pièce sul senso e il valore che hanno i ricordi, ancorché dolorosi. Brava.
Racconto molto particolare.
Era partito quasi come uno sketch comico per poi trasformarsi in riflessione e nella desolazione che tante persone vivono oggi, combattute tra la propria vita lontana da casa e il ricordo di un’infanzia ormai lontana…
Complimenti!
Grazie mille per avermi letta e per i preziosi commenti!