Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2024 “Festa a sorpresa” di Francesco Minervini

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2024

Arturo Roppo non aveva mai fatto una vera festa in occasione del suo compleanno, un po’ per il suo carattere, un po’ forse per una consuetudine familiare che non è che attribuisse poca importanza ai compleanni, ma li festeggiava con molta semplicità.

Questa ricorrenza Arturo l’aveva sempre celebrata in casa, con i genitori e la sorella Elvira: un regalino, una torta fatta in casa e via. Questo modo di fare era proseguito anche dopo il matrimonio, quando ricordava l’anniversario della sua nascita con la moglie Rita e il figlio Vincenzo.

A causa di questa consolidata abitudine Arturo, giunto ormai alla soglia dei sessant’anni, non aveva alcun particolare ricordo di qualcuno dei suoi compleanni, a partire da quelli dell’infanzia: tutti praticamente uguali.

E così si apprestava a celebrare o meglio sarebbe dire “attraversare” anche il giorno del suo sessantesimo compleanno con quella solita semplicità che aveva contrassegnato tutti i compleanni precedenti, inclusi quelli che di solito tutti considerano importanti, come quello della maggiore età e quelli con cifra tonda dei venti trenta quaranta cinquanta.

Qualcuno però aveva ben pensato che quella volta non l’avrebbe passata liscia. E no! I suoi amici erano ben determinati a far sì che quel compleanno Arturo se lo sarebbe dovuto ricordare per tutta la vita e avevano deciso perciò di organizzargli una festa a sorpresa.

Tutti furono d’accordo che il luogo della festa sarebbe stato l’abitazione dove Arturo viveva con la moglie, una villetta appena fuori città, una zona isolata ma silenziosa, una graziosa costruzione su due livelli con una tavernetta, una casa non lussuosa ma molto comoda, circondata da un giardino che loro stessi curavano.

L’ideatore e organizzatore della festa era Gino Barletti, il suo migliore amico, un compagno di scuola con il quale aveva sempre conservato negli anni un forte rapporto di amicizia, un vincolo quasi fraterno rimasto inalterato nel tempo pur col mutare delle rispettive situazioni lavorative e familiari.

Secondo il piano d’azione, Gino sarebbe entrato di soppiatto dall’ingresso posteriore della villetta ed avrebbe fatto esplodere un bengala per dare il segnale dell’inizio del festeggiamento.

L’ora x era fissata per le ventuno, quando ormai sarebbe stato completamente buio; allo scoccare di quell’ora i benevoli congiurati avrebbero preso posizione armati di panini, focacce, dolci e soprattutto tante bottiglie di spumante. Andrea, il musicista della comitiva, avrebbe anche imbracciato la sua chitarra con la quale allietare la serata.

Alle ventuno spaccate Gino s’introdusse nella villa dalla parte posteriore così come convenuto, facendosi un po’ di luce con la torcia del suo cellulare e impugnando il bengala.

Il silenzio della notte fu spezzato da un colpo; gli amici, proiettatisi nel giardino, rimasero paralizzati: il corpo di Gino giaceva a terra esanime mentre un rivolo di sangue tracciava un rosso percorso.

Alla vista dell’amico riverso al suolo Arturo lanciò un urlo disperato, un NOOOO lunghissimo e straziante, ripetuto più volte mentre si dava violenti colpi alle tempie. Quell’urlo di Arturo alla vista del corpo non era dovuto soltanto alla perdita tragica dell’amico. Quel NOOOO gridato in modo sovrumano aveva un’altra spiegazione: il colpo di pistola che aveva tolto la vita a Gino era stato sparato proprio da lui, Arturo, il suo migliore amico.

Al processo Arturo fu prosciolto perché la legge gli consentiva di fare fuoco contro un ladro introdottosi in casa sua; pur non trattandosi di un malintenzionato, lui aveva avuto la percezione che tale fosse e tanto bastava per proscioglierlo da qualsiasi responsabilità penale: legittima difesa putativa.

Pur prosciolto, Arturo visse mesi di tormento implacabile.

A nulla poterono valere l’affettuosa vicinanza della moglie, la solidarietà degli amici. Dichiarato innocente dalla legge, non si sentiva per niente tale. Il suo pensiero assillante era che esisteva anche un’altra legge, superiore, che prescriveva “non uccidere”.

<< Ma caro, devi farti forza adesso. Quante volte devo ripeterlo che non hai colpa. Hai sparato per paura. Purtroppo viviamo in tempi brutti, che fanno paura>>.

<<Già, la maledetta paura che ci fa perdere la ragione. La paura che mi ha trasformato nell’assassino di una persona, del mio migliore amico. La paura, anche se uno non ce l’ha, gliela fanno venire, come è successo a me, e mi ha indotto a comprare una pistola, maledetto sia quel giorno. Ma possiamo essere schiavi della paura? Dove arriveremo? Spareremo per strada se qualcuno tenta di rubarci la bicicletta?>>

Arrivò il giorno in cui Gino, di alcuni mesi più giovane di Arturo, avrebbe compiuto sessant’anni e ciò accrebbe, se possibile, la sua prostrazione.

Nel tardo pomeriggio, senza informare nessuno, si recò al cimitero. Nonostante il traffico intenso riuscì ad arrivare poco prima della chiusura, raggiunse il campo dieci e s’inginocchiò davanti alla tomba del suo più caro amico.

<<Perdonami Gino, perdonami tu se puoi, perché io non riuscirò mai a perdonarmi>> sussurrò fra i singhiozzi. << Ecco, oggi ho organizzato io una festa a sorpresa per il tuo compleanno>> aggiunse sottovoce mentre tirava fuori da una borsa un vassoio di dolcetti di mandorla dei quali Gino era ghiotto. Dispose sulla tomba, come fosse il tavolo della festa, una tovaglietta di carta, i dolcetti, poi i bicchieri, quindi prese una bottiglia di spumante e la stappò versandone metà del contenuto sulla tomba e bevendo l’altra metà.

<<Hai visto, Gino? Stasera festeggiamo insieme i tuoi sessant’anni, noi due, da vecchi e buoni amici! Una festa solo per noi!>>

Quella notte Rita fece inutilmente il giro di tutti gli ospedali, e altrettanto inutilmente telefonò agli amici: Arturo non si era ritirato a casa, il che che non era mai successo.

Il mattino dopo, un addetto alle pulizie del cimitero scoprì nel campo dieci, sdraiato su una tomba, un corpo inanimato che stringeva ancora in mano una pistola. Un rivolo di sangue raggrumito sembrava collegare il capo di Arturo Roppo alle lettere bronzee di Luigi Barletti.

 

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