Premio Racconti nella Rete 2024 “La luna che muove le maree” di Lucia Urbano
Categoria: Premio Racconti nella Rete 20241.
6 maggio 1978. Una brezza tiepida ci accarezzava, insinuandosi tra i platani in fiore. Il cielo si vedeva a sprazzi, azzurro e brillante come una piastrella appena ripassata.
Avevamo deciso: picnic all’aperto. Se non fosse stato per quel verde così pulito e ordinato poteva essere una domenica della mia infanzia al castello, con il terreno scosceso sotto i piedi, e nelle orecchie la voce di mia madre, ci vogliono le posate vere perché il babbo non può mangiare nella plastica, e prendi la fiaschetta del vino – perché senza vino che pranzo è.
Camminavamo tutte insieme – no, anzi, avanzavamo scomposte dentro il parco fluviale del Po di Settimo Torinese come un esercito che rompe le righe. Ada, l’amica di sempre, al mio fianco e Nadia appollaiata nell’incavo del braccio libero, che si succhiava il pollice.
Nadia era nata otto mesi prima, di notte.
Avevo fatto chilometri su e giù per il corridoio, al braccio di Ada, per sopportare meglio i dolori, quelli inutili che bisogna solo aspettare che passino.
La luna piena facilita la rottura delle acque, dicevano mia madre e mia nonna.
Io guardavo il giallo fuori dalla finestra, e pregavo.
A un tratto un fiume caldo mi era sceso tra le gambe, quasi che la luce ci fosse entrata tutta insieme. Aveva funzionato, anche se loro non erano lì con me. E neanche Luigi, il padre.
Era successo in una vacanza su un’isola greca, Luigi lo avevo incontrato lì. Ci eravamo visti una sera, e poi due.
La terza eravamo finiti giù al mare, al vecchio molo.
Da qualche parte arrivavano note che facevano il verso a Message in a bottle: i complessini dal vivo la strimpellavano nei bar, nelle piazzette, ovunque. E noi la cantavamo a squarciagola, lungo la discesa.
Lui sapeva di fresco, ci siamo baciati, poi mi ha infilato le mani sotto la maglia e siamo scivolati giù dalla panchina. Dovevo dire no, fermati, e invece mi sono ritrovata con le mani ai suoi pantaloni ed è stato come se lo avessimo fatto sempre. Quando è saltato via io sono rimasta lì, appiccicosa e felice.
Non lo sapevo che l’indomani sarebbe andato a nord, a cercare lavoro. La sua estate finiva con me, quella sera.
Quando fu l’ora scendemmo abbracciati i gradini di pietra, adagiati in mezzo alla sterpaglia come un lungo serpente addormentato.
Spiavo il mare da lontano, il viso affondato tra collo e spalla, quasi che i suoi capelli lunghi, scompigliati dal vento, potessero nascondermi alla mole del traghetto in arrivo. Facevo scorta del suo odore.
Luigi si risolse a salire solo quando la nave emise il suo ultimo lamento, prima della partenza: continuammo a salutarci tracciando con le braccia semicerchi che fendevano il cielo rosato, all’unisono, tergicristalli impotenti sotto la pioggia.
Lo persi col sole, oltre il promontorio roccioso che chiudeva a nord la baia.
Rimasi a fissare le case che formavano un orlo bianco sullo sperone più alto; era diventato tutto viola quando mi decisi a lasciare il molo.
Al ritorno non ci avevo badato, all’inizio. Un ritardo, ci sta.
Se chiudevo gli occhi sentivo ancora i capezzoli incresparsi sotto le sue dita. Le paure si liquefacevano, non può essere successo. E mi sembrava vero.
Una mattina però avevo vomitato. Non ce l’avevo mica un lavoro fisso, così mi era toccato arrivare alla pausa per scappare in farmacia. Mi ero appostata, finché avevo visto che dentro era deserto.
Mi serve un test di gravidanza, è per un’amica. Ero rossa fino alle orecchie.
Aspettai la notte dopo per dirlo a qualcuno. Se nessuno lo sa, allora non è vero.
Quando mi decisi ad andare in camera di Ada, mi tremavano le gambe. Bussai piano alla porta, con un filo di speranza: magari dormiva e non avrebbe sentito. E invece aprì subito.
Forse è un falso positivo, potrei rifarlo domani, balbettai mentre le mostravo la provetta. La seconda riga era netta, un tratto di penna; ma dicevano che a qualcuna era successo.
Lei mi abbracciò senza fare domande. Un angelo. Mi lasciò piangere finché la maglietta le si inzuppò tutta. Quando le lacrime finirono, i singulti continuarono a scuotermi con il ritmo regolare di un metronomo.
Allora lei mi posò le mani fresche sulle guance bollenti e mi guardò diritto negli occhi gonfi.
Non sei sola, ce la farai se vuoi, mi sussurrò. Saremo una famiglia, noi, tutte insieme.
Mi cullò finché mi addormentai, sfinita.
Mi ritrovai che correvo per il pendio di uno dei rilievi franosi vicino al castello. Ci andavamo a giocare insieme agli altri ragazzini quando ero piccola, di nascosto ai grandi. Se cadi in un calanco non ti trova più nessuno, dicevano.
In cima a uno sperone di roccia, a un tratto, apparve mia madre: indossava la sua gonna scozzese coi riquadri grigi su fondo chiaro, al ginocchio. Era la versione elegante di sé che esibiva nelle occasioni speciali, insieme a un paio di décolleté nere che adoravo.
Aveva la provetta in mano e mi urlava qualcosa che non capivo, era troppo lontana. La chiamavo, le gridavo di aspettarmi e mi precipitavo lassù: ero a pochi passi quando mi scivolava un piede e precipitavo nel vuoto, senza che lei cercasse di afferrare la mia mano.
Quando mi svegliai, un attimo prima di sfracellarmi al suolo, era ancora buio. Avevo il pigiama appiccicato addosso e un sapore metallico in bocca.
Mia madre era scomparsa, ma l’evidenza dei fatti mi risvegliò del tutto: avrei avuto un figlio, da sola. La voce che diceva non è successo nulla era svanita.
La pancia sarebbe cresciuta inesorabile e mi avrebbe sotterrato di vergogna sotto gli occhi di tutti: Edo del bar dove lavoravo, Giovanna dove compravo le sigarette, il cassiere biondo del cinema dove andavamo, che ci aveva provato con me. E poi le parole da dire al telefono a mia nonna e a tutta la famiglia, le loro facce di là dal filo, le loro espressioni sgomente.
Non ce l’avrei fatta, pensai mentre mi giravo su un fianco e un dolore alle tette mi ricordava ancora una volta la verità. Mentre la pancia cresceva già, lo stomaco era diventato una pallina durissima.
Mi accoccolai in posizione fetale e infilai le ginocchia nell’incavo di quelle di Ada, che dormiva accanto a me. La abbracciai intorno alla vita, piano, per non svegliarla.
Non sei sola, provai a dire a me stessa mentre ascoltavo il suo respiro, regolare.
Abbandonai il viso nel cuscino fradicio e finalmente, all’alba, mi riaddormentai.
2.
Ada l’avevo conosciuta un pomeriggio d’autunno, a scuola, quando facevo la prima del professionale e lei la quinta. Quel giorno indossava una gonna a losanghe sotto il ginocchio che mi ricordò quella scozzese di mia madre. Mi indicò una sedia libera.
Ci ero andata di nascosto, al collettivo.
Non avevo mai visto niente del genere. Ragazze, conosciute e sconosciute, che discutevano animatamente di figli, di lavoro fuori e dentro casa. Ogni scelta appariva legittima, nel futuro esplorato in quella stanza. Ogni dettaglio era importante.
All’inizio restai in attesa. Qualcuna, prima o poi, avrebbe detto cosa era giusto e cosa sbagliato. Ma intanto che passavano le ore, nella mia mente quelle camicie colorate si facevano largo tra schiere di donne nerovestite.
Quando venne l’ora di andarsene, mi ero innamorata delle sigarette alla finestra, degli sguardi, dei pensieri e delle discussioni: nei pomeriggi che seguirono scappavo a scuola come a un appuntamento d’amore.
A casa mia però la verità c’era, eccome. Era di mia madre, anche se aveva solo la quinta elementare.
State zitte che babbo è stanco, diceva protettiva quando ci sedevamo a tavola. Lui era stato il suo primo amore, poi eravamo venuti noi tre. Cinque come le dita di una mano, una famiglia.
Qui è tutto caro, un salario in cinque non ci si fa mica se non ci si aiuta, commentava mio padre mentre faceva scarpetta col pane nella salsa di pomodoro. Lei lo guardava rapita, erano stati lontani a lungo.
Appunto che bisogna darsi una mano! Ma lei, e mamma accennava nella mia direzione, Teresa, la più grande, arriva sempre tardi, ha sempre da fare, e questa scuola anche il pomeriggio, sospirava mentre gli allungava un’altra fetta.
Lui accennava un sorriso verso di me e i miei fratelli, senza dir nulla, pago della tavola che lo ristorava.
Io avvampavo in silenzio, fin quando con la scusa di sparecchiare mi alzavo per prima. Appena la casa piombava nella mezz’ora del pisolino pomeridiano scappavo agli incontri segreti con Ada e le altre, a parlare di cosa si doveva cambiare, di quel che si doveva dire.
Ada era di Settimo e ci aveva vissuto sempre.
Io invece a Settimo non ci ero nata.
Mio padre era arrivato da Stigliano quando ero ancora piccola, prima di Angela e Giovanni. Appena gli avevano dato l’appartamentino addossato alla fonderia ci aveva portato tutti: io, quindici anni ancora da compiere, Angela dodici e Giovannino in quinta elementare.
Facevo l’ultimo anno delle superiori il giorno che la bidella bussò alla porta. Era il quindici marzo e c’era compito di matematica.
«Teresa Russo, chiamata urgente».
«Corri, è successa una cosa, mamma è… già… in fonderia!».
Ma cosa, avrei voluto chiedere alla voce della vicina che piangeva, e invece avevo buttato giù la cornetta e mi ero messa a correre.
Non mi lasciarono entrare, c’era solo la mamma con lui.
Intorno a me baci umidi e braccia sconosciute, l’aria densa dei fiati acidi della mattina, voci sussurrate, parole che non capisco, caditoia in movimento… schiacciato come una lattina vuota… una nausea irresistibile che mi fa venire un conato di vomito.
Lo seppellimmo nel cimitero di Settimo, in terra, con le portulache di tutti i colori.
Mia madre era appena tornata da lì quando la trovai in cucina ad aspettarmi. Ci andava spesso per annaffiare il giardino del babbo, lo chiamava lei.
«Non ce la faccio da sola… al paese c’è la famiglia che ci aiuta. Qui siamo soli. E la pensione per quattro non basta, lo capisci?»
Per qualche istante resto inerte, a bocca aperta, le braccia penzoloni.
Mi vedo impacchettata e portata via, insieme al servito di piatti del matrimonio e alla trapunta fatta a mano dalla nonna.
Poi succede qualcosa: ho la sensazione che le pareti della cucina mi stringano da ogni lato, con i riquadri delle mattonelle che mi ballano davanti. Mi prende un disperato bisogno di fuggire.
Il pianto che mi buca gli occhi esce di colpo e rade al suolo ogni cosa intorno, una marea che non si può arrestare.
«Io non ci torno giù! Non la voglio la tua vita!»
Le girai le spalle e cominciai a correre, senza voltarmi indietro. Andavo così forte che l’aria mi faceva male ai polmoni: mi fermai solo davanti al campanello di Ada e mi ci attaccai, come un naufrago al salvagente. Teresa Russo voleva vivere, ce lo avevo scritto addosso.
Alla fine dell’estate mi ero già sistemata insieme alle altre. Tutte lavoravamo, ognuna contribuiva ai soldi dell’affitto.
3.
Adesso, mentre ci inoltravamo nel verde del parco, mi avvolgeva il profumo dolce, quasi stucchevole delle macchie gialle di ranuncoli e viole del pensiero.
Una domenica inondata dalla luce di maggio, l’ideale per il nostro picnic. Ci mettemmo a sedere sull’erba, un cuscino fresco. Le parole volavano libere come sciami di insetti.
Lasciai andare Nadia che si mise a gattonare, ridendo a singhiozzo. Sembrava uno di quei coleotteri neri che barcollano e ogni tanto si ribaltano, con le zampe che continuano ad agitarsi su un suolo immaginario. Ada, stesa a pancia in giù, giocava ad acchiapparla.
Guarda quante zie, pensai. Mi sdraiai supina. Avevo il sole in pieno viso, socchiusi le palpebre. Se c’era qualche ombra, se ne stava ben rintanata. Io non la vedevo.
Cullata dal tepore, scivolai in un sonno leggero, finché mi svegliò qualcosa di umido, una specie di bacio: Nadia mi succhiava il naso, e, con metodo, esplorava ogni centimetro della mia faccia.