Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2024 “A la guerre comme à la guerre” di Ilaria Carmen Restifo

Categoria: In Concorso, Premio Racconti nella Rete 2024

«Ma quando ci riporti Dennis?», mi chiese una sera Anna mentre eravamo tutte in cucina a prepararci le nostre cose per cena. «Sta facendo una comparsa a teatro», replicai scartando una bistecca. «Chillo è tanto bellello», esclamò Pia col colapasta in mano. «Sì, è bellello. Ma lavora fino alla prossima settimana», risposi. «Magari quando finisce di lavorare…», si insinuò Rosa nella discussione portando in tavola le sue fette di caciocavallo. «Ja, digli che viene. Ci racconta un fatto», concluse Pia.

I fatti di Dennis ti facevano perdere la cognizione del tempo. Capitava spesso che si presentasse a casa prima di cena con una bottiglia di vino. Si autoinvitava senza chiedere il permesso. Lo faceva con una tale maestria che gli altri non si rendevano nemmeno conto di assecondare la sua vanità e sembrava quasi che non aspettassero altro che lui irrompesse nella loro vita portando con sé il brivido dell’imprevisto.

Si sedeva in cucina accanto a Pia e si metteva a pulire i fagiolini con lei. Se Angelica preparava le melanzane in umido, eccolo che si offriva di tagliarle a cubetti versandole del vino nel bicchiere, tanto per gradire. Anna si era comprata un po’ di pizza per cena? Ebbene, lui suggeriva di tagliare la pizza a quadratini e sistemarla in un vassoietto con gli stuzzicadenti… voilà! Rosa si stava preparando un’insalata di pomodori? Ma perché non aggiungi anche un po’ di mozzarella. Non avete un po’ di mozzarella? E allora eccoci pronte a tirare fuori dai vari nascondigli i nostri beni più preziosi: soppressata, pomodori secchi, melanzane sott’olio, parmigiana, mozzarella di bufala, coppa. Solo lui riusciva a farci mettere in comune il companatico senza litigare e a farcelo consumare insieme da brave coinquiline. Insieme a lui, si intende.

«Vi ricordate quando è venuto l’ultima volta?», chiese Anna sbucciandosi una mela dopo cena. «E come no? Matruzza!», Angelica scoppiò a ridere al ricordo. «Che ci dicette? Che aveva mollato il lavoro di lavapiatti e se ne era partito in Giamaica a vendere perline sulla spiaggia. Che sfaccimm’!», sghignazzò Pia, intenta a lavare le sue stoviglie. «E quando ha avuto quel diverbio col cantante rock per via del computer difettoso al centro assistenza dove faceva il commesso?», ciancicò Anna con uno spicchio di mela in bocca. «Ho capito, ho capito! Quando finisce di lavorare lo chiamo e lo invito a cena. Contente?», esclamai infine per chiudere la discussione.

Ormai ero abituata al fascino che il mio amico Dennis esercitava sulla gente. Era un mago: lui iniziava il suo cunto e tutti cadevano ipnotizzati. Ma non era l’aneddoto ardimentoso o stupefacente il vero centro del racconto. Raccontava i fatti immergendoli negli umori della sua coscienza camaleontica, sempre sull’orlo dell’abisso. E tu fruivi della storia attraverso la sua sregolatezza e libertà.

Passò una settimana. Non ci fu nemmeno bisogno di invitarlo: bussò direttamente al nostro campanello. «Dennis!», esclamò Angelica aprendo la porta. «Allora, con cosa accompagniamo questa bella bottiglia di vino stasera? Bisogna festeggiare!», fece lui sventolando una bottiglia di Lambrusco. «Siii! – sopraggiunse entusiasta Pia – Ma ca se ffesteggia?». «Festeggiamo l’inizio della mia nuova vita», declamò con un sorriso a trentasei denti. «Fammi indovinare», intervenni caustica io, «un’altra avventura in camper col santone che mette in scena la storia di Gesù in giro per l’Italia? Oppure ti hanno richiamato da Amburgo come addetto alla jacuzzi di quella casa a luci rosse?». Mi piaceva provocarlo. «Sei sempre aggressiva tu!», rispose lui fingendosi offeso. «Infatti. Meschineddu. Du carusu voli cangiare vita», lo difese Angelica.

Forte del sostegno delle mie adoranti coinquiline, Dennis annunciò solennemente che, con l’intento di dare una svolta al suo cammino evolutivo, era in procinto di partire in Francia e di affiliarsi a un gruppo di volontari che ristrutturavano i muretti di un castello medievale in Linguadoca. «Bisogna pure che qualcuno si prenda cura del nostro comune patrimonio culturale. O no?», sentenziò strizzando l’occhio a Pia.

Una sera di fine ottobre squillò il telefono di casa. Fu Pia a rispondere. Dopo un attimo, la vidi aprire la porta della mia camera. «È Dennis!», articolò sottovoce mentre gesticolava indicando la cornetta. Io ero sdraiata sul letto a leggere Tradimenti di Harold Pinter. Presi il telefono. «Dennis! Ma dove…? Non eri in Francia?». «Sì, ma quelli sono una setta. Pieni di regole. Sono scappato nottetempo». «E non potevi andartene e basta? Dovevi per forza scappare nottetempo?». «Poi ti racconto. Mi vieni a prendere?». «Fino in Francia?». «No, dopo ho fatto l’autostop. Mi ha caricato un gruppo di artisti di strada con la roulotte. In cambio cucinavo per loro. Poi ti racconto. Mi vieni a prendere? Sono allo svincolo di un posto che si chiama San Cesareo». «E dove cavolo è San Cesareo?». «Sulla Roma-Napoli. Mi ha caricato un camionista a Marsiglia e mi ha mollato qui. È buio. Non so come tornare. Non ho soldi». «Che casino! Va bene, ora guardo sulla mappa. Ma non so quanto ci metto». «Tu hai il portapacchi sul tetto della Renault 5, vero?». «Sì, perché?». «Perché ho un materasso con me». «Un materasso??!». «Sì, porta le cinghie per legarlo sul tetto. Me lo ha regalato il camionista». «Pure il materasso, adesso». «Dai, poi ti invito a cena. Appena trovo un lavoro. Ti aspetto».

Come per incanto, ogni volta che entrava in scena Dennis, succedeva sempre qualcosa di rocambolesco. Avevo un brutto presentimento. Epperò… Lasciavo solo un amico nel ridente svincolo di San Cesareo? Di notte? Senza soldi? Con materasso a seguito? Rassegnata a rimandare la lettura, mi preparai ad uscire. Pia mi fissava con sguardo interrogativo. Le spiegai che andavo a prendere Dennis perché si era cacciato in un guaio.

Non so dire come trovai la strada, in quel tempo senza internet che sembra preistoria, a ripensarci. So solo che lo sorpresi addormentato come un cavallo. Se ne stava ritto contro il materasso, adagiato in verticale su un lampione, uno zaino enorme sulle spalle da cui pendevano caffettiere e pentolini, e un nugolo di moscerini sotto il fascio di luce. Accostai la macchina e mi avvicinai per svegliarlo. Le mie narici furono investite con violenza da un odore nauseabondo. Puzzava come una capra. Non si lavava da giorni.

Sistemammo il materasso sul portapacchi. Le cinghie avevano messo in sicurezza la parte centrale del materasso ma, durante la marcia, la parte anteriore, che fuoriusciva dalla scocca, si piegava sul parabrezza coprendo la visuale del guidatore. Procedevamo a cinquanta all’ora sull’autostrada, con Dennis seduto sulla portiera della Renault, sporto fuori dal finestrino, mentre teneva alla meno peggio il materasso per evitare di farlo piegare contro il vetro. Io guidavo ingobbita per assicurarmi visibilità, la puzza stomachevole mi investiva a folate regolari, pregna del miasma di Dennis. Lui, manco a dirlo, non si vergognava neanche un po’, tutto preso dal divertimento di starsene seduto là fuori.

D’un tratto, un altro strano odore si sommò al tanfo. Era un odore dolciastro ed acre, sembrava… mi girai e vidi Dennis fumarsi uno spinello. Somigliava a un cane con l’aria soddisfatta, le orecchie schiacciate dal vento. Non ebbi neppure tempo di infuriarmi: in quel mentre, nella striscia di vetro tra materasso e cofano, spuntò la paletta bianca e rossa dei carabinieri.

«Buona sera. Patente e libretto». «Buonasera», risposi imbarazzata mentre lanciavo occhiatacce a Dennis». «Cosa ci fa il suo amico seduto sulla portiera?», indagò. «Ecco, vede… mi sta aiutando per non far scivolare il materasso sul parabrezza. È pericoloso», Tentai io. «Pericoloso…», ripeté lui trascinando la parola, enigmatico. «Scrivi!», ordinò al collega. «Il passeggero se ne stava sporto per tre quarti dal finestrino».

Seguì una pausa lunghissima. L’agente mi scrutava, spostando lo sguardo tra il materasso e Dennis, che non si prese nemmeno la briga di ricomporsi. Lo spinello spento tra le labbra, guardava la scena come fosse al cinematografo. Come non fosse affar suo, ma mio. La mia rabbia nei suoi confronti cominciava a salire.

«E cosa ci fate in giro di notte con un materasso sul tetto?», incalzò il carabiniere inflessibile, dilatando le parole. «È che…», non sapevo cosa dire. «Stiamo facendo un trasloco», risposi con voce incerta, implorando con gli occhi l’aiuto di Dennis che non arrivava. «Scrivi!», continuò l’agente. «La conducente dichiarava di fare un trasloco».

D’un tratto era tutto chiaro: solo a parole Dennis era disponibile all’aiuto. All’atto pratico faceva lo struzzo, reazione pavloviana. Ma questo, in fondo, l’avevo sempre saputo. Ero io che non vedevo quanto sfruttasse la mia buona fede. Con passo lento, il carabiniere aggirò la macchina e si avvicinò a Dennis. Lo vidi indietreggiare di scatto, disgustato, schiaffeggiato anche lui dal tanfo nauseabondo che aveva tormentato le mie narici. «Avete derubato un allevatore di capre? Dove avete preso il materasso?». «Me lo ha regalato un camionista di Marsiglia», se ne uscì all’improvviso Dennis, come un pupazzo dalla scatola magica. «Di Marsiglia…. Interessante!», replicò sarcastico il carabiniere.

Nooo, pensai con desolazione. Era stato zitto finora, proprio adesso doveva parlare? Ma perché mi lasciavo sempre trascinare in mezzo alle sue traversie? Era come se Dennis avesse bisogno di situazioni estreme per sentirsi vivo. E a tal scopo usava chiunque potesse essere utile ad assecondare il suo istinto picaresco. Era un narcisista. Anche quando anni prima mi aveva irretita in quel nostro ridicolo flirt aveva agito così. Conosceva bene il valore di una permuta. E lo usava a suo vantaggio. Dovevo trovare un modo per vendicarmi.

Tra la puzza di Dennis e quella del materasso, l’agente si accorse finalmente dell’altra puzza… Afferrò lo spinello dalla bocca di Dennis. Lo odorò. «Qui ci sono gli estremi per una perquisizione preventiva!», sentenziò l’agente. Col sospetto che fossimo complici di un traffico internazionale di stupefacenti, i carabinieri ci portarono in questura e ci tennero lì, in due stanze separate, sottoponendoci a un interrogatorio grottesco, cui rispondevamo con verità ancora più grottesche. A un certo punto, si misero a svuotare il catafalco di Dennis sulla scrivania. Venne fuori di tutto dallo zaino. Tralasciando la mole di indumenti indecenti appallottolati alla rinfusa, presero ad analizzare con molta cura una collezione indistinta di oggettistica sospetta: un pacco di rigatoni sbriciolati; una confezione di caffè aperta; un pacchetto di stuzzicadenti; un’audiocassetta dal titolo L’amour libre; una pietra calcarea della Linguadoca; un barattolo di pelati; uno di ceci; tre piume di gabbiano; un paio di infradito rotte; due uova sode spappolate; sabbia rosa della Costa Azzurra. Contrariati, gli agenti presero a squartare il materasso con coltelli a serramanico. Ne fuoriuscì una schiuma grigiastra e fetente di poliuretano espanso, comprese polveri e molle arrugginite. Ma niente stupefacenti.

Dopo aver accoltellato il materasso in lungo e in largo, si misero a fissare l’opera ansimanti. Sembravano delusi. Mi scrutarono alla luce fredda del neon. Forse non ero complice di un famigerato sistema internazionale di narcotrafficanti. Decisero di farmi firmare una dichiarazione e lasciarmi andare. Mi sarebbe arrivata una multa a casa, magari.  In quanto a Dennis, lo tennero ancora lì. Prima o poi avrebbero rilasciato anche lui. Eccolo il momento della vendetta: decisi che non era affar mio, che non sarei più stata sua complice, che i guai in cui si cacciava erano i suoi, non i miei, che era ora imparasse a cavarsela da solo. Lo lasciai lì, col suo materasso lercio, squartato. Ora era lui a guardarmi in cerca di aiuto. Risposi con un sorrisetto, voltai le spalle e me ne andai: à la guerre comme à la guerre.

Quando tornai a casa alle tre di mattino, vidi che al secondo piano tutte le luci erano accese. Dalla finestra della cucina, quattro volti in fila mi guardavano ansiosi, il mento appoggiato sul dorso della mano, i gomiti sul davanzale. Raccontai l’accaduto, compresa la decisione di non voler più avere a che fare con Dennis. La cosa non fu accettata di buon grado. Le reazioni furono scomposte. Mi ricordarono quelle delle prefiche piangenti ai funerali. 

Ma sta per arrivare il fatto grottesco. La sera dopo, tornando a casa, trovai in camera… il materasso. Proprio quello. Ripulito, ricucito e rammendato.  Entrai in cucina. Erano tutte sedute attorno a una tavola imbandita con Dennis al centro, gongolante. «Mischineddu, u lasciasti ddogu?» «Lui sì ch’è nu bravo guaglione, no comm’ a te». «Ci ha anche regalato il materasso!» «Uh! Era tutto sfasciato chillo materasso. Però lo abbiamo lavato, cucito e ripulito. E così quando Dennis tiene un problema, può venire a dormire da noi».

Lui mi guardò, incerto sulla mia reazione. A me, in fondo, veniva da ridere. Che filibustiere di gran classe. Chapeau! Ma io non sarei tornata sui miei passi. Il velo era strappato. Non potevo non vedere quello che ormai avevo visto. Era questa la mia battaglia vinta. La guerra, semmai un giorno si fossero svegliate anche loro, l’avrei lasciata combattere alle sue nuove prede.

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