Premio Racconti nella Rete 2011 “Il bambino sul pallone” di Rosanna Affronte
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2011Avevo letto i primi giorni di scuola la sua diagnosi e ne rimasi un po’ perplessa. Era la prima volta che, come insegnante di sostegno alla scuola media, mi dovevo occupare di un ragazzino autistico. Il nuovo anno scolastico si presentava interessante.
Sapevo bene che si trattava di un quadro clinico dei più complessi e, chi ne soffre, è anche definito: “un bambino sdraiato sul pallone”, per il fatto che si trova in una situazione in cui, qualunque movimento faccia, avverte il rischio di “perdere l’equilibrio” e cadere. Proprio perché ha paura della realtà, il soggetto autistico resta inerte, se non c’è chi lo aiuta a scendere “dal pallone” e a immergersi nel mondo reale. Insegnando per mia scelta in una scuola cosiddetta “a rischio”, fin’ora avevo sempre seguito per lo più soggetti caratteriali, che vivevano in famiglie con un degrado socio culturale elevato e con problematiche enormi. Intolleranti ad ogni disciplina scolastica, spesso esercitavano atti di bullismo e anche vandalici, insomma la mattina più che a scuola, mi preparavo per andare su un campo di battaglia. Se non avessi avuto il carattere che mi ritrovo, essere molto paziente e con la voglia di aiutare chi ha bisogno, non avrei certamente mai scelto di fare questo lavoro.
Eravamo arrivati già a fine ottobre e l’alunno che mi era stato affidato non si era ancora presentato. Cominciai però a documentarmi sull’autismo in modo più dettagliato. Tutte le cose che si presentano un po’ complicate, mi danno maggiore input per affrontarle.
L’autismo è una patologia che coinvolge la sfera affettiva e i processi cognitivi a tutti i livelli. Ogni tentativo di relazione con l’autistico, suscita in lui diffidenza, panico, in quanto il suo mondo è fuori da tutti i problemi concreti, è fatto di cose irreali, di illusioni, di immagini evanescenti, fugaci. Egli comunica con il corpo, nonostante sia un qualcosa che non gli appartiene, così come il tempo per l’autistico non esiste, non c’ è passato, né presente, né futuro, la sua vita è un’ alternanza tra sogno e realtà.
Arrivò il mese di novembre e una mattina vedo arrivare in classe un ragazzo, alto, robusto, il viso paffuto, due occhioni scuri ma assenti. Aveva 12 anni ma dimostrava molti di più. Accompagnato dalla madre, una donna giovane, con la stessa corporatura del figlio ma dall’aria molto dimessa e stanca. Ci presentiamo, parliamo un bel po’. Mi racconta della sua vita. Il marito l’ha lasciata con due figli e non si è preso più cura della famiglia. Alessandro, mentre la madre parlava, stava con il capo appoggiato sul petto della donna e le stringeva la mano, nessuna espressione traspariva dal suo viso. Compiva ogni tanto dei gesti e dei movimenti incontrollati, passò tutto il tempo stretto alla madre né lei cercò di svincolarsi. Per i primi giorni restava a scuola anche lei insieme al figlio. Ale non parlava, i suoi erano più che altro dei vocalizzi, l’incedere era incerto e camminava sollevandosi sulle punte, caratteristica che deriva dalla difficoltà che hanno questi soggetti, di appoggiare il corpo sui piedi e dal desiderio di sentirsi leggeri, non ingombranti. Lo sguardo sempre basso, immobile, fisso. Intanto la scuola aveva provveduto a nominare un’assistente che aveva il compito di accompagnarlo in bagno, dargli da mangiare, pulirlo. Ale, col passare del tempo cominciava gradualmente a farsi prendere per mano, farsi fare qualche carezza, pian piano si abituava alla mia presenza. Dopo un po’ di tempo provammo a fare in modo che la madre si allontanasse. Purtroppo c’erano dei momenti in cui la situazione precipitava. All’improvviso Ale si metteva ad urlare non vedendola, voleva scappare, diventava aggressivo. Gestirlo in quei momenti diventava veramente difficile, ma non mi sono mai persa d’animo. Nella mia esperienza di anni di insegnamento con ragazzi in difficoltà, me l’ero sempre cavata discretamente, soprattutto per la carica affettiva che ho sempre riversato in questo lavoro. Se ami questi ragazzi, otterrai il meglio da loro anche se spesso non li recuperi del tutto, perché là dove la scuola finisce, spesso non c’è una famiglia pronta a seguirli.
Io e Ale passeggiavamo spesso nel cortile della scuola, con la sua mano che stringeva forte la mia. Io gli parlavo, gli facevo toccare gli oggetti intorno, in modo che ne percepisse la consistenza, lui eseguiva il tutto come un automa all’inizio, poi invece cominciavo a notare dei piccoli segnali di partecipazione. Dopo qualche mese Ale cominciava a prendere conoscenza dello spazio intorno a lui e a pronunciare il mio nome. Gli piaceva andare verso la finestra e battere le dita contro i vetri, per sentire quel tintinnio, poi mi guardava e sorrideva; certe volte prendeva la matita, la strisciava su un foglio, poi la tirava in aria. Era felice quando gli facevo ascoltare la musica, s’immergeva completamente in quei suoni e sorrideva. Lui era diventato una sfida con me stessa, ogni suo piccolo progresso era per me una vittoria. Un altro obiettivo che mi ero prefissata era quello di farlo socializzare con i compagni di classe. Eravamo ancora ai primi mesi di scuola, da qui alla fine dell’anno scolastico, ero sicura che Ale di progressi ne avrebbe fatti tanti.
Intanto la madre mi riferiva, con molta preoccupazione, che a casa manifestava degli atteggiamenti molto aggressivi e di notte spesso non li faceva dormire, perché urlava. Lei era molto provata, sfinita, trascinava le sue giornate con fatica, per cui le cominciava a balenare l’idea di mettere il figlio in qualche istituto e un giorno di questo ne parlò con me. Furono attimi in cui rifiutai categoricamente la sua idea, non si può allontanare un figlio che ha bisogno di aiuto. Mi trattenni dal dirle questo in maniera esplicita, ma le feci capire che non era la soluzione adatta, di pazientare ancora. Capivo il suo calvario di donna, ma si doveva scegliere un qualcosa che non avrebbe danneggiato ulteriormente il ragazzo. Questa decisione che lei andava maturando, cominciava a preoccuparmi non poco. L’allontanamento dal proprio ambiente familiare è un qualcosa da fare in casi estremi, è come voler staccare una pianta dalle proprie radici. Inoltre notavo quanti miglioramenti il ragazzo giorno dopo giorno continuava a fare. Purtroppo si assentava frequentemente e, quando verso il mese di Aprile, mi resi conto che l’ assenza si era prolungata abbastanza, telefonai alla madre, la quale mi diede la conferma di quello che io avevo sospettato. Ale era stato portato in istituto e, in una frazione di secondi, mi venne in mente un film che avevo visto in TV. Trattava proprio di un bambino autistico. Ricordo che mi rimase impressa la scena, quando i genitori lo fanno salire in macchina per portarlo in una struttura per disabili. Non ho mai dimenticato lo sguardo smarrito di quel bimbo nel film, lo stesso di un cane quando viene portato al canile. La sensazione di abbandono e di distacco, nel vedere quella scena, la rivivevo ora di nuovo, pensando allo sguardo di Ale, nel ritrovarsi in un ambiente nuovo senza intorno le figure familiari.
Era stato depositato lì, in un istituto! Mi rimbombavano nella testa le sua urla quando a scuola cercava la madre e, chissà con quanta disperazione urlava adesso, lontano da casa!
Il lungo cammino che volevo intraprendere con Alessandro, si era ormai interrotto. Ricordo le parole della madre al telefono: <>. Capisco che doveva essere drammatica l’ esistenza di questa donna! Ma non è giusto che i figli debbano essere sempre vittime delle problematiche dei genitori.
Chissà se Ale, nella sua disperazione, sia sceso dal pallone sul quale stava adagiato? Chissà se la realtà dalla quale lui sfuggiva, aveva avuto stavolta una forza tale, da metterlo con i piedi per terra? Tante le domande che mi sono posta.
Quello fu uno degli anni scolastici che io conclusi con una grande angoscia dentro.
Avrei voluto portare a termine il percorso iniziato con Ale, sfidando ancora una volta me stessa e avere anche stavolta la conferma che, ogni gesto, ogni intervento educativo fatto con amore, possa dare sempre risultati positivi.
Proprio così… se Alessandro avesse avuto una famiglia unita, dove poter percepire l’amore tra i suoi genitori, dove anche la madre, si sarebbe sentita più sicura e protetta dall’affetto di un uomo, lui avrebbe sicuramente imparato nel tempo a non avere più paura di “perdere l’equilibrio” e cadere.
Un racconto molto intenso in cui spicca il grande spessore umano di un insegnante di sostegno pronta a impegnarsi con tantissima dedizione per una nobile causa.
Un racconto che ci invita a riflettere su come sia difficile ma non impossibile, relazionarci con le persone autistiche, mostrandogli quel grande affetto che essi hanno
il pieno diritto di ricevere.