Premio Racconti nella Rete 2024 “Scellerata” di Ilaria Carmen Restifo
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2024Ego te amata capio, io prendo te mia amata. Con queste parole fui catturata e consacrata al servizio. Rapita alla mia famiglia e affidata al sacro collegio. Alla sua autorità, e solo a quella, avrei dovuto rispondere d’ora in poi. Per il bene della città.
Me lo ricordo quel giorno. Ero una bambina, la più bella bambina tra i tanti marmocchi di una nobile famiglia romana. «Sei contenta tesoro? Che bella che sei… Da’, lascia a me la tua pupilla, la conservo io. Non ti serve più adesso». Mia madre mi prese la bambola in legno che tenevo stretta al petto. Dovette tirarla con forza, perché io non la lasciavo andare.
Mi avevano vestita con un abito bianco, mi avevano tagliato tutti i capelli e li avevano appesi a un albero di loto. Non capivo perché dovessi essere tanto contenta, con i miei capelli appesi a un albero e senza più nemmeno la mia bambola. Però tutti dicevano che dovevo rallegrarmi, che avrei avuto tanti privilegi, ricchezze, onori, che un giorno avrei persino concesso la grazia ai condannati, che la gente per strada sarebbe stata obbligata a cedermi il passo… Sorridevo perplessa. Che significavano tutte quelle cose? E cosa avrei dovuto fare per guadagnarmele?
Pensavo alla pupilla nelle mani di mia madre mentre nell’atrio si alzava un coro di voci femminili: «io sono colei che è e che sempre sarà, nessun uomo ha mai sollevato il mio velo». La porta si richiuse sonora alle mie spalle. Fui condotta al piano superiore dove si aprivano gli alloggi delle novizie. Mi fu affidata una camera: quella sarebbe stata la mia casa per i prossimi trent’anni.
Passarono due lustri da quel giorno. Non ero più una bambina e nemmeno più una novizia. La mia bellezza sbocciava con l’adolescenza. I miei capelli castani erano cresciuti. Ora li tenevo raccolti in sei ciocche tenute insieme da una benda che avvolgevo attorno al capo, con un velo bianco fissato da una spilla. Ero una sposa pubblica, una madrina della città, mantenuta a spese dello stato, mi occupavo dei sacri obblighi e la vita procedeva tranquilla.
Gli incarichi che mi erano stati affidati sembravano piacevoli. Mi ricordavano le cose che vedevo fare a mia madre in casa quando ero bambina. Badavo al fuoco per non farlo mai spegnere, preparavo focacce a base di farro, contribuivo all’organizzazione delle cerimonie, custodivo le reliquie di culto in una dispensa segreta, nascosta dietro al focolare.
Aprile era il mese che mi piaceva di più. C’erano tante cose da fare per la primavera. Il quindici aprile, io e Lucilla ci recavamo con le altre su per le pendici del Campidoglio, dove era usanza immolare una mucca gravida ed estrarne il feto. Spettava alla nostra custode più anziana prendere il feto, bruciarlo e conservarne le ceneri. All’inizio mi spaventavo. Mettevo di nascosto le mani davanti agli occhi per non guardare. O meglio, sbirciavo tra le fessure delle dita. Chiedevo a Lucilla: «Hanno fatto? Stanno estraendo il vitello? È uscito tanto sangue?». «Togliti quelle mani dagli occhi!”», rispondeva lei, «vuoi farti vedere da tutti? Sì, stanno tirando fuori il feto». Poi però mi abituai a quello spettacolo e smisi di sbirciare tra le dita. Prendevamo le ceneri del feto e le mischiavamo con sangue di cavallo e paglia di fava. Era un preparato potente per la fertilità.
Altri anni passarono dai giorni della mia adolescenza. I miei privilegi erano tanti, ora lo sapevo. Godevo di un particolare status legale e di mezzi finanziari immensi, anche se non sapevo bene che farmene. Potevo uscire liberamente, andare in giro in carrozza, avere una guardia del corpo, un posto d’onore agli spettacoli; potevo danzare e cantare, fare testamento, ereditare beni, testimoniare ai processi. E avevo anche diritto ad una tomba all’interno delle mura cittadine, cosa impossibile per gli altri. Era tanto, tantissimo. Ma soprattutto, era tantissimo rispetto alle altre donne della mia città. Alla soglia dei miei venticinque anni, potevo dire di essere felice e mi sentivo libera. Poi, un giorno, lo incontrai.
Era il quindici maggio e si celebrava a Roma un importante rito popolare. Tutta la città andava in processione a Ponte Sublicio, dove le madrine gettavano nel Tevere ventisette fantocci di paglia con mani e piedi legati. Un monito per scongiurare la venuta degli invasori: se provate ad avvicinarvi alla nostra città vi gettiamo legati nel fiume e vi anneghiamo tutti.
Camminavo a testa bassa, occupata a controllare i fantocci che mi erano stati affidati in una cesta. Notai che i piedi di uno dei pupazzi si erano liberati, il giunco che doveva tenerli uniti si era allentato. Se si fosse sciolto del tutto cadendo nell’acqua… che malaugurio! Tentai di stringere il nodo, ma il fantoccio mi scivolò di mano e cadde a terra. Mi chinai per raccoglierlo. Una mano tesa, nervosa mi anticipò e me lo porse. Alzai lo sguardo e incrociai due occhi neri, infuocati, insistenti, che si fissarono nei miei. Deglutii. Fu lui a serrare il nodo attorno alle caviglie del fantoccio di paglia. «Meglio legarle per bene queste caviglie. Non vogliamo presagi funesti per la città, giusto?», disse. «Giusto», risposi a fil di voce. Lo ringraziai e mi allontanai col cuore in gola, accelerando il passo per raggiungere le altre. Mi voltai una volta sola: lui mi stava guardando.
Passò qualche giorno. Era il crepuscolo e la sera era mite. Mi stavo dirigendo alla fonte per raccogliere un po’ d’acqua. Ero sola. Sapevo che a quell’ora la fonte era deserta. Era l’ora più bella per starsene in pace a meditare presso l’acqua. Camminavo a passo spedito verso la sorgente ma mi bloccai sui miei passi: accanto alla fonte c’era un cavaliere dell’ordine, in sella, che mi sbarrava la strada. Era lui. Proseguii lentamente verso la sorgente, con i due secchi vuoti in mano, uno per braccio. Non dissi nulla. Lui non disse nulla. Mi inginocchiai alla fonte per raccogliere l’acqua. Con la coda dell’occhio vidi che scendeva da cavallo e si avvicinava. «Lascia, ti aiuto io. Sono pesanti», disse offrendosi di sollevare i secchi. Nel prendere i secchi, le sue mani sfiorarono le mie, indugiarono sulle mie. Il cuore mi si fermò in gola. Lo sentivo battere all’altezza della glottide. «Ti ricordi di me?», aggiunse dopo un silenzio. «Sì», risposi abbassando lo sguardo per non tradire il tumulto di sensazioni che si scatenavano in me. Con la mano, lui mi alzò il mento. I nostri occhi si incrociarono in uno sguardo lunghissimo.
Un turbamento scioccante, che mi accendeva i sensi, era qualcosa da riservare ad altre alcove, non certo alla mia. I presagi erano ovunque, lo sapevo, ma feci finta di non vederli. In quel vortice di emozioni, sentii ad un tratto le sue labbra premere sulle mie. Con la bocca serrata lo guardai fisso. Le nostre pupille erano dilatate dalla stessa paura. Un attimo, un’eternità. Poi, lentamente, abbassai le palpebre, schiusi le labbra e non vidi più nulla. I secchi pieni d’acqua caddero a terra, formando un rivolo tra il trifoglio e le piante di acanto.
Tornai alla fonte quasi tutte le sere. Ci amavamo sotto una quercia solitaria circondata da arbusti di lentisco, le nostre nudità esposte alla brezza notturna, troppo persi in noi stessi per renderci conto del pericolo incombente.
Fulmini, incendi, strane morti improvvise… Quell’anno la comparsa di presagi funesti aveva riempito la città di un sacro terrore. I romani si misero a cercare ossessivamente una causa mistica alle loro disgrazie, determinati a trovare un capro espiatorio cui imputare la rottura della pace con gli dèi. Noi, così inebriati l’uno dall’altra, così dimentichi di ogni avvertimento, commettemmo l’errore di non essere abbastanza cauti. Una sera, un servo ci vide sotto la quercia. Corse a svelare all’autorità religiosa di aver scoperto la ragione di tutta quella serie di presagi. «Sacrilegio imperdonabile! I riti sacri sono stati violati da atti impuri!». Fui allontanata dai sacra, processata e ritenuta colpevole. I declamatori si prodigarono con molto zelo a sostenere la necessità di una punizione esemplare, vista l’offesa che avevo recato alla città.
La sera in cui eravamo stati scoperti fu l’ultima volta che lo vidi. Lui ricevette la punizione esemplare e venne flagellato a morte, nudo, nel Foro Boario, come uno schiavo comune. Non ebbi neppure modo di piangerlo e dargli sepoltura. In quanto a me, non potendo essere uccisa da mani umane, mi fu comunque concesso l’inconsueto privilegio di prender parte al mio stesso funerale, da viva.
Mi vestirono con abiti funebri e un velo sul capo. Mi fecero salire su una lettiga che mi trasportava, in lugubre pompa, attraverso il Foro Romano verso Porta Collina. Dalla lettiga scorsi mia madre in lacrime, che seguiva il corteo attonito, silenzioso. Mai vidi spettacolo più agghiacciante del mio funerale. Non riuscivo neppure a piangere la mia morte. La lettiga si fermò: eravamo arrivati al Campo. Mi fecero scendere. Là mi aspettava il pontefice che, toccandomi il capo, si mise a pronunciare parole misteriose. Mi diedero una lucerna, una provvista di pane, acqua, olio. Guardai mia madre e ripensai alla mia pupilla, ai capelli appesi all’albero di loto, al giorno in cui la porta dell’atrium si chiuse dietro di me. Mi voltai, chinai il capo e scesi lentamente le scale in pietra che conducevano al sepolcro. Anche quella volta sentii la botola chiudersi alle mie spalle mentre mi muravano viva. Poi il buio. E più nulla.
***
Sono ancora qui. Sepolta per l’eternità sotto le mura di questo enorme palazzo che chiamano ministero del tesoro. Forse venti metri sotto il piano della strada. Niente più colline ricoperte di acanto e lentisco, niente fonti sacre, niente più lettighe. Solo carrozze di ferro che camminano senza cavalli. Non hanno mai neppure trovato le mie ossa sotto tutto il cemento di questo palazzo. Nessuna fonte storica cita il mio nome. Per la storia, non esisto. Del campo scellerato non c’è più traccia, solo qualche ipotesi, forse una leggenda.
La mia anima vaga ancora, inquieta, di notte, tra le strade chiassose di questa città che tanto mi diede e tanto mi tolse. Da millenni, la mia anima urla la sua rabbia per riscattare la colpa di aver amato. Da millenni, urla una verità che non ha voce, tacita, muta, inespressa, senza nessuno che l’ascolti. Lui non l’ho mai più incontrato, nemmeno quaggiù, nel regno delle ombre. E intanto, il fuoco sacro della città è stato spento per sempre dalla furia del tempo. Così sia.