Premio Racconti nella Rete 2024 “Il primo giorno” di Patrizia Carnevali
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2024Mi svegliai con un forte dolore al collo, la schiena bloccata m’impediva quasi di muovermi. Aperti gli occhi mi ritrovai seduta all’angolo di una stanza su una vecchia sedia di formica, più dura del ferro, non era la mia camera e mi chiesi cosa ci facessi in quel luogo.
Pensai a un altro dei miei balzani sogni, non mi preoccupai e continuai a restare seduta sulla scomoda sedia guardandomi intorno.
Faceva freddo, tanto freddo e non avevo nulla per coprirmi. Le pareti della stanza erano foderate di piastrelle bianche rettangolari, uguali a quelle all’interno della metropolitana di New York.
Sul soffitto una luce fioca illuminava la stanza al centro della quale, su un cavalletto in ferro, era stata posata una bara. Sul lato opposto al mio, il coperchio appoggiato alla parete.
Sul coperchio c’era una piccola croce, notai che c’era anche una targhetta in ottone su cui era scritto qualcosa, ma da quella distanza non riuscii a leggere.
Sentivo il mio corpo leggero e provai una strana sensazione, mi feci coraggio, mi alzai e guardai dentro alla bara.
La prima cosa che mi colpì furono le mani di quel poveretto o poveretta, erano sottili e bianche, poi, piano piano salii con lo sguardo e notai che il morto era una donna, mi assomigliava e più la guardavo, più vedevo me.
Non è possibile pensai, mi girai di scatto e lessi l’incisione sulla targhetta, c’era scritto il mio nome.
Non mi piaceva quel sogno, cominciai a pizzicottarmi il viso, cercai di parlare, ma non uscì nessun suono dal fondo della mia gola.
Ma allora ero proprio morta?
Mi risedetti e aspettai, se ero morta a quel punto avrei avuto tutto il tempo che volevo.
Udivo parole sussurrate da dietro la porta che a un tratto si aprì, nella stanza entrarono i miei cari e i miei amici. Ebbi ancora un ultimo guizzo di speranza, mi alzai dalla sedia e mi mischiai a loro, ma nessuno si accorse della mia presenza.
Da dietro alla bara guardai sfilare i volti e ascoltai i pensieri di ognuno, erano in tanti, ma c’era silenzio.
Quando appartenevo a questo mondo, speravo che il giorno in cui me ne sarei andata sarei stata come un albero in mezzo alla foresta, la cui cima svettava sopra tutti e tutto verso l’infinito e invece mi ritrovavo qui, albero che non produceva più linfa vitale, ma che aveva ancora bisogno di consolare ed essere confortato. Guardare le fragilità d’ognuno mi rendeva ancora viva e umana, che fatica staccarmi da tutto questo. Desideravo stringerli a me, pronunciare il loro nome e le parole che troppe volte, per dimenticanza, non avevo detto, dire a tutti quanto li avevo amati e cosa avevano significato in ogni istante della mia vita. C’era calma, in questo luogo non esisteva la fretta, quella fretta che mi aveva accompagnato in troppe occasioni. Ogni abbraccio, carezza, sorriso, risata o tramonto negato non arriverà più e sentii che tutto questo sarebbe stato l’inizio del “mio Inferno.”
Il primo a entrare fu mio marito insieme ai miei figli. I ragazzi, uno per parte, lo tenevano sotto braccio, mi guardarono e tutti e tre misero una mano sopra le mie quasi a voler portare via il gelo che mi avvolgeva. Avrei voluto sentire le loro voci ancora per una volta, ma non parlarono.
Lo sguardo esprimeva la rassegnazione che attraversava i loro pensieri per quel colpo di falce arrivato troppo in fretta, ma più li osservavo, più pensavo che avevo fatto un buon lavoro con loro. Pensieri aleggiarono nell’aria:
“Come farò senza di te? Una vita passata insieme e ora tutto è finito.”
“Il giorno della mia laurea non sarà la stessa cosa perché tu non ci sarai.”
“Avrei voluto che potessi vedere realizzati i miei progetti, mi mancherai mamma.”
Non lo sapevano, ma sarei stata con loro in ogni momento, lo avrebbero capito con il tempo. Gli mandai un bacio.
Altre persone entrarono nella stanza.
Davanti a me Rossella, la mia amica di sempre. Non le sono mai piaciuti i morti e i funerali, il giorno in cui suo padre morì non volle vederlo.
Sono stupita, ma felice che sia qui, mi dispiace che sia avvilita. Una lacrima superò la montatura dell’occhiale per cadere nel vuoto e tra sé e sé disse:
“Questi scherzi non si fanno, ora con chi andrò a passeggiare tutte le mattine.”
Indietreggiò e si diresse verso la porta d’uscita, prima d’andarsene si girò, distese la mano quasi a volermi salutare per l’ultima volta e il suo pensiero fu attraversato da:
“Non mi sembra vero.”
Si fece spazio tra la gente Vittorio. È sempre stato un uomo di tante parole, ma oggi la tristezza ha preso il sopravvento ed è la prima volta, da quando lo conosco, che lo vedo così. Ha il capo chino e un fiore in mano, lo posa sul mio petto. Solo oggi, che sono morta, scopro aspetti di lui che non conoscevo.
“Ora comprendi perché ho sempre preso in giro Dio, la chiesa, i preti e la morte. Io ateo che m’indisponevo ai tuoi arrendevoli sorrisi, di chi ha sempre creduto, a differenza di me. Sono incazzato con il tuo Dio, ma guardandoti ho la certezza che in questo momento tu sia con lui, lui che di me non ne vuole sapere nulla.”
Fuori, nel corridoio, c’era un crocchio di gente, vecchi colleghi di lavoro, erano qui in rappresentanza dell’ufficio. I loro pensieri erano altrove, la famiglia, il lavoro, la rata della macchina da pagare, il mutuo che scadrà tra trent’anni, la scelta di ricoverare i genitori in casa di riposo. Alcuni guardavano il cellulare, altri parlottavano tra loro. Mi chiedevo perché fossero venuti, potevano restare a casa, o forse erano qui per incontrare la morte, vederla in faccia, anche se quella faccia non era la loro.
Accompagnata da Ninetta arrivò mia madre, non mi aspettavo di vederla. Dopo la morte di mio padre un vento nero le aveva portato via i ricordi, non sempre sapeva chi era e dov’era, ma questo l’aveva aiutata a superare i dolori.
Aveva un’andatura regale, salutava tutti, i suoi occhi brillavano, sembrava felice. Si avvicinò, mi guardò e tirò un sospiro di sollievo. A voce alta disse:
“Finalmente ti sei truccata, senza trucco sembri morta, è una vita che te lo dico e alla fine mi hai ascoltata, oggi sei bellissima.
Ora ti saluto, vado a preparare il pranzo a tuo padre, se vuoi più tardi passa da casa che ti offro un caffè.”
Mi vennero in mente tutte le volte che avevamo litigato, ma in quel momento mi fece tenerezza, avrei voluto stringerla a me.
Il paesaggio cambiò e mi ritrovai sulla cima d’un albero che ondeggiava da una parte all’altra, mi tenevo stretta ai rami, avevo paura di cadere. Il vento s’intrufolava tra le fronde quasi a volersi prendere gioco di me, lo sentivo nemico e senza preavviso mi accerchiò, era potente, imperativo, mi vestì con la leggerezza di un mantello e mi portò via con sé.
Ti sei fatta un regalo con questo racconto sulla punta delle tue dita e lo hai fatto anche a noi.
Grazie Francesca per le tue parole.
Vola leggera Patrizia e lasciati trasportare da questo tuo vento di parole . Noi ci trovi al tuo fianco
.
Sei davvero un albero che produce linfa vitale, smuovendo l’animo con la sensibilità delle tue immagini.
Grazie Anna Rita.
Grazie Rossella.
il tema della morte incuriosisce sempre. un racconto che va veloce e fa riflettere
Brava, Patrizia! La parte che più mi ha commosso è stata quella in cui parli di tua mamma.
Grazie Rosella.
Bel racconto, davvero. Complimenti.