Premio Racconti nella Rete 2011 “Gran Mandorlato Speciale” di Elvira Scarpello
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2011Calogero Macrì aprì cautamente la porticina metallica che conduceva alla sala di lievitazione. Lo stabilimento era deserto, a parte il custode notturno, che dormiva beatamente nella poltrona della guardiola all’ingresso. Era stato un gioco da ragazzi sottrarre le chiavi dalla rastrelliera alle sue spalle, l’uomo russava sonoramente davanti ai monitors che rimandavano le immagini in bianco e nero dei diversi ambienti dello stabilimento dolciario. Immerso nel sonno il custode non si era accorto che Calogero aveva usato il proprio tesserino magnetico per oltrepassare il cancello e per entrare nello stabilimento. Aveva proprio il sonno pesante e probabilmente era un po’ duro d’orecchio, perché non lo aveva svegliato neanche il rumore prodotto dal bidone che Calogero trascinava.
“Fortuna che le telecamere a circuito chiuso non registrano!”pensò Calogero. Il principale infatti aveva installato il sistema di video sorveglianza, ma senza video registratore, per risparmiare, tanto c’era il custode notturno che vigilava. Calogero entrò nella grande sala e fu accolto da un intenso profumo di burro e di vaniglia, di canditi e di mandorle tostate. Nelle enormi vasche lievitavano quintali e quintali di impasto del famoso panettone Brambilla, il celebre “Gran Mandorlato Speciale”. La fabbrica era nata quasi un secolo prima e produceva panettoni e altre specialità dolciarie secondo antiche ricette tradizionali.
Ora però il proprietario, Ambrogio Brambilla, aveva deciso di innovare e aveva costruito un nuovo impianto computerizzato e ipertecnologico. Un computer dosava gli ingredienti, una macchina rompeva le uova, prelevava farina, lievito e burro e immetteva il tutto in delle immense vasche dove gli ingredienti venivano impastati da robuste braccia meccaniche. L’impasto poi veniva pompato nelle vasche di lievitazione e, dopo venti ore, distribuito negli stampi e inviato in forno, il tutto in modo automatico. Una volta cotti a puntino, secondo il tempo di cottura deciso dal computer, i panettoni venivano incartati nel cellophane, confezionati nelle scatole di cartone verde e oro, con stampigliato il marchio Brambilla e inviate alla spedizione. Il tutto senza che fosse mai necessaria la presenza di esseri umani. Pensava a tutto il computer.
Calogero, arrivato dalla natìa Canicattì, era stato assunto nella fabbrica artigianale, e ci aveva lavorato per quasi vent’anni, fino a quella mattina. Quella mattina il proprietario, Ambrogio Brambilla l’aveva licenziato, insieme agli altri operai. Ora che la fabbrica era completamente automatizzata, il personale era inutile e il commendator Brambilla aveva licenziati quasi tutti, incurante delle loro proteste. Calogero era andato a parlagli, facendosi portavoce dei compagni, ma il commendatore l’aveva mandato via in malo modo, l’aveva persino chiamato “terrone”. “Terrone” a lui! Calogero fremeva ancora di indignazione! Calogero amava profondamente Milano e si sentiva intimamente milanese da sempre. Ancor prima di emigrare al nord sognava Milano come la terra promessa e quando, vent’anni prima, era stato assunto nella fabbrica di panettoni gli era sembrato di toccare il cielo con un dito. Cosa c’era di più Milanese del panettone? La domenica mattina andava in piazza del duomo, e, ai piedi dell’imponente costruzione, alzava la testa, torcendo il collo il più possibile, per ammirare la fuga delle guglie gotiche che precipitavano verso il cielo grigio. Amava respirare l’aria umida e nebbiosa della città, amava il dialetto lombardo, così dolce e melodioso, così diverso dal suono secco della sua lingua siciliana. Aveva anche cercato di impararlo, il milanese, anche se ancora le “erre” gli uscivano un po’ troppo rotolanti e le “u” non abbastanza strette. Quando doveva imprecare diceva “ O Signùr” anziché “Bedda Matri”.
Calogero trascinò il pesante bidone, pieno di colorante blu, ai piedi dell’enorme vasca di lievitazione. Aveva intenzione di versarne il contenuto nell’impasto. Prima che qualcuno se ne accorgesse i panettoni color puffo sarebbero stati cotti, in modo automatico e in modo altrettanto automatico, confezionati e spediti.
Il commendator Brambilla sarebbe stato rovinato!
Si arrampicò sul bordo della vasca, in equilibrio precario, e si piegò in avanti per issare il bidone, ma un piede gli scivolò. Rimase per qualche istante in bilico, mentre il bidone rotolava lontano, finendo dietro un pilastro, infine cadde all’indietro, nella vasca. Annaspò per qualche minuto, invischiato nella massa semifluida dell’impasto che pian piano lo risucchiò come sabbie mobili. Provò a gridare, ma la massa bollosa gli riempì la bocca. D’altra parte, gridare non sarebbe servito a nulla, l’impianto di video sorveglianza non aveva l’audio. Il custode continuava a russare mentre sul monitor scorrevano le immagini di Calogero che tentava di risalire a galla in un oceano di farina, zucchero, uova e aromi naturali. Ben presto l’impasto lo ricoprì completamente, riempiendogli la bocca, gli occhi, le narici. Calogero smise di dibattersi e il suo corpo si adagiò sul fondo della vasca, in un soffice sepolcro profumato di mandorle e canditi.
Il bidone di colore, ancora pieno, e il cadavere di Calogero furono scoperti solo quando, settimane dopo, l’addetto alla manutenzione andò a svuotare le vasche di lievitazione. Il ciclo produttivo era finito, tutti i panettoni prodotti erano stati spediti. Si ripulivano le vasche per dare inizio al nuovo ciclo produttivo, quello delle colombe pasquali. L’addetto alla pulizia delle vasche, l’unico, fidato dipendente umano della fabbrica, oltre al custode all’ingresso, vide affiorare, sul fondo della vasca, un oggetto che, in un primo momento, gli sembrò un bastone di legno. Guardò meglio. Un femore umano! Corse immediatamente nell’ufficio del commendator Ambrogio Brambilla.
Il commendator Brambilla, nel suo ufficio, stava studiando il grafico delle vendite natalizie. Il “Gran Mandorlato Speciale” era andato a ruba, le indagini di mercato e i sondaggi dimostravano che i consumatori avevano gradito molto il prodotto. Gli intervistati avevano dichiarato che il panettone aveva un sapore unico, diverso dagli altri. Il nuovo impianto funzionava alla grande. Certo, aveva avuto qualche problema con gli operai, per via dei licenziamenti. C’era stato quel Calogero Macrì, quel terrone, che era venuto a discutere con lui. Parlava persino in “milanese” con delle strane “erre” troppo rotolanti e delle curiose “iu”, ripeteva in continuazione “O Signùr”. Come se bastasse sostituire “O Signùr” a “Bedda Matri” per diventare milanesi! Terrone era e terrone rimaneva, e Ambrogio l’aveva mandato a quel paese, insieme a tutti gli altri operai.
Bussarono alla porta. L’addetto alla pulizia delle vasche lo condusse nella sala di lievitazione, farfugliava concitato frasi incomprensibili. Sul fondo della vasca, ormai completamente vuota, c’era uno scheletro umano. La carne, evidentemente, era stata digerita dai lieviti e si era dissolta nell’impasto. Chissà da quanto tempo era lì. Chissà chi era. Ambrogio non sapeva chi fosse e non gli importava di saperlo. Si calò nella vasca e, insieme all’addetto alla pulizia mise i poveri resti in un sacco nero della spazzatura. Quella notte, col favore delle tenebre lo avrebbero seppellito nel giardino che circondava lo stabilimento. Magari ci avrebbero piantato sopra un bel cespuglio fiorito. L’importante era che il fatto non trapelasse, sarebbe stata una catastrofe!
Ambrogio tornò nel suo ufficio, aveva da fare. Bisognava mettere a punto il ciclo produttivo delle colombe pasquali. Rivide la ricetta, le dosi, gli ingredienti. Chissà perché, aveva la sensazione che mancasse qualcosa. Ma cosa poteva essere? Se non andava errato, una parte dell’impasto del panettone era stata conservata per essere usata come lievito madre. E se l’avesse usata anche per le colombe? In fondo l’impasto della “Super Colomba Glassata” era quasi identico a quello del “Gran Mandorlato Speciale”…. Forse quella notte poteva fare una passeggiata per le vie di Milano. Chissà, forse avrebbe trovato qualche meridionale disoccupato, qualche terrone senza tetto…….
Ciao, ho letto il tuo racconto e l’ho trovato interessante. Simpaticamente macabro, ma anche sottile e tira il lettore, suo malgrado, dentro questo “dolce horror” dall’impasto tenero: questo siciliano tradito dalla sua adorata Milano che resta inghiottito nel panettone che verrà spedito a tutta la città. Anche il sciur Brambilla è un personaggio emblematico e funziona perché è anche lui estremo, come Macrì.
Mi è piaciuto. Auguri per il premio.
Nicoletta Molinari
Ho trovato il racconto bello, interessante, mi ha incuriosita immediatamente. Come ha scritto Nicoletta, trovando le parole giuste per definirlo, “simpaticamente macabro”. Conosco già la tua scrittura e ritrovarla qui, ancora una volta così “ben riuscita”, come fosse lievitata a puntino, è davvero un immenso piacere.
In bocca al lupo, Micaela.