Premio Racconti nella Rete 2024 “La fanciulla di Venezia” di Franco Ortenzi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2024La fanciulla giunse a Venezia all’età di otto anni, insieme alla sorella e al fratello, bambini anch’essi, al seguito della madre che colà aveva conservato la casa di famiglia e ove pertanto trovarono rifugio e affetti dopo l’improvvisa morte del padre, un ricco mercante di gioielli di Padova, amante della cultura e delle arti, alle quali, costui, li aveva tutti avviati, nonostante che fossero ancora giovanissimi.
La città era, allora, al centro del mondo, lo sfarzoso crocevia di ogni traffico mercantile tra l’oriente e l’occidente, il forziere finanziario dell’Europa, il baluardo politico e militare del Mediterraneo, lo scrigno di infinite ricchezze tra le quali, imperante, il nuovo e il moderno teatro della risplendente bellezza contemporanea, la sua scuola pittorica rivoluzionaria e abbagliante, il Tonalismo di cui Giorgione prima e Tiziano, proprio in quegli anni, si erano resi gli straordinari protagonisti.
Immersa in questo effervescente clima intellettuale trascorse le sue giornate il nostro amato personaggio, dedicandosi ad apprendere e acquisire, con la struggente passione del proprio temperamento, il meraviglioso patrimonio di cognizioni e di esperienze che la sua fervida intelligenza le faceva manifesto, accompagnandola alla scoperta di chiese e palazzi, di segreti cortili e sereni oratori, luminose biblioteche e, soprattutto, della sterminata teoria di immagini e di racconti racchiusa nelle colorate luci dei quadri e degli affreschi, dei mosaici e delle vetrate disseminati per ogni dove, ovunque ella posasse lo sguardo e il suo animo porgesse, al cospetto di quella infinita costellazione. Di stagione in stagione il tempo la consegnò infine ai suoi tredici anni e all’aspetto di una giovane donna dai morbidi lineamenti, racchiuso il volto nella cornice della fluente chioma castana, illuminato lo sguardo di una serena consapevolezza. Una mattina di fine inverno irradiata di rosa, terminato che ebbe di udire la prima messa, si incamminò per la consueta passeggiata, con l’aria svagata di chi percorre i propri pensieri più che una strada o una calle finché il Sestiere di San Marco offrì inaspettatamente ai suoi passi il campo e, ai suoi occhi, la chiesa di San Samuele.
Il luogo era completamente deserto, si udiva appena l’increspatura del Canale Grande alle spalle, l’univocità del campanile definiva lo spazio, la nitidezza dei muri perimetrali degli stabili il tempo, il portone socchiuso di una sontuosa dimora attirò irresistibilmente il suo sguardo. Sarebbe inutile chiedersi quale fosse anche solo uno dei motivi che la spinsero a varcare quell’uscio, curiosità femminile, sublime incoscienza, disavvedutezza dei pericoli, il destino, semplicemente, la volle, che attraversasse il silenzioso cortile interno e che proseguisse, per il tramite delle dischiuse finestre, nel prospiciente salone, al centro del quale, circondato da ogni genere di strumenti per la pittura e illuminato dalla luce proveniente dal sovrastante lucernario, su uno scranno sedeva, assorto nell’osservazione di una tela, il Maestro in persona. Era costui un uomo nel pieno della maturità, dai lunghi capelli scuri, un accenno di barba dal taglio giovanile, indossava, secondo la moda del tempo, una bianca camicia accollata e l’ampia casacca nera, avvolte le mani in morbidi guanti, dava l’impressione di essere di passaggio e non nella sua propria bottega, la fucina delle più alte imprese dell’ingegno espressivo, della vista e dell’intelletto, mai apparse alla storia del mondo.
Vi si era recato quasi per caso, al fine di verificare se la prima luce del mattino potesse riconciliarlo con quella sua opera che l’angustiava per l’ostinata indeterminatezza, per non essersi ancora risolta dopo il breve tratteggio iniziale, della quale non riusciva nel frattempo a intravvedere non dico gli esiti ma neppure un divenire sul piano puramente estetico, gliene sfuggiva il dettato morale infatti, l’etica imperativa e trascendente che trasfonde nella materia l’immaginario divino dell’anima. Alzò gli occhi nel frangente di quelle riflessioni non per propria volontà ma per una premeditata decisione del fato e vide il ritratto perfettamente compiuto al suo cospetto. L’immagine, avvolta da una mantella appena dischiusa, di una giovane e meravigliosa creatura femminile che brillava nella penombra: i lineamenti, di una bellezza ideale, incastonavano le gemme scure delle iridi verso di lui rivolte con la luce espressiva di colei che ben conosce l’attrazione del suo sguardo; lo sovrastava il sorriso impercettibile di lei, la sapienza magnetica esercitata dalla sua figura fasciata nell’elegante broccato blu della veste d’oro trapunta, esaltato il tratto dal contrasto delle maniche di velluto amaranto, dal contrappunto di trina bianca della camicia la quale lasciava intravvedere, togliendolo all’osservatore tuttavia, il moto del respiro, quieto, sicuro. Si riebbe, le chiese chi fosse, colei rispose. Il quadro fu ultimato in quattro settimane nel corso delle quali la fanciulla si recò di quando in quando e in gran segreto ad ammirarne i progressi, sovrapponendo se stessa alla modella ideale che Sua Eccellenza aveva racchiusa nelle mente fin dal primo istante, e per certo, anche nel cuore. In quei momenti trascorsi insieme, nell’intatta solitudine di entrambe, ella gli parlava di sé, studiava canto e talvolta intonava dei motivi e allora egli smetteva di dipingere, l’ascoltava rapito e malinconico a un tempo; un pomeriggio la fanciulla promise che avrebbe composto dei versi solo a lui dedicati poiché per certo nessuno, fino ad allora, aveva potuto osare sì tanto… Quell’incontro così diretto e personale con la bellezza della gioventù e la purezza dell’intelletto lo aveva turbato e non riusciva a darsene conto.
Passati che furono quei giorni straordinari la modella del sogno fece più rade le sue visite allo studio dell’artista e questi di contro fu travolto dal turbine degli impegni che aveva rinviati, dal susseguirsi impetuoso e ossessivo delle commesse da parte dei ricchi e dei potenti che si contendevano, a peso d’oro, l’onore, il privilegio, e soprattutto il vanto, di possedere un suo dipinto. Una frizzante mattina di primavera dedicata al disordine e al soqquadro, circondato da allievi e apprendisti votati a ogni genere di sottosopra, sommerso di carte e di disegni, stava il Maestro nell’intento di raccapezzarsi tra l’andirivieni di tutti, allorquando, senza preavviso alcuno, ella gli comparve dinnanzi, come una folata di vento profumata al gelsomino. Il suo sorriso si aprì al cospetto di quell’uomo straordinario accettando la sola replica dello stupore attonito, nessuna parola si frappose, solo uno sguardo accompagnò il plico che recava con sé, dalle sue, alle mani di lui, dopodiché scomparve nell’incantata immobilità degli astanti. Titianus sedette, dissuggellò il piego dalla ceralacca sulla quale erano impresse le iniziali di colei e tanto vide “per voi, mio signore piangerò, arderò, canterò sempre…”, fu un attimo e venne meno, lasciando i presenti nel trambusto generale dei più disparati accorgimenti per rianimarlo.