Premio Racconti nella Rete 2024 “La verità” di Massimo Ubertone
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2024Faccio un bel respiro. La mia prima volta è andata. Adesso tocca al giudice.
La dottoressa Ghermandi si alza, raccoglie il fascicolo e i codici e si avvia verso la porta della camera di consiglio.
Speriamo bene. Mentre parlavo, ogni tanto lei annuiva con la testa: direi che è un buon segno.
Mi giro verso l’avvocato Ubertone che alza il pollice e sussurra: «Brava!»
«Beh, alla fine ho detto solo la verità, ho raccontato come sono andate le cose. Non può condannarlo, vero?»
Lui mi guarda con la sua aria sorniona.
«Cosa vuoi che ti dica, Sofia, tu hai fatto bene la tua parte, ma la verità è solo quella che stabilirà il giudice. Se nessuno impugna la sentenza. Se no sarà quella della Corte d’Appello. Finché qualcuno non fa ricorso in Cassazione».
Non mi ha risposto. Secondo me, comunque non possono condannarlo. C’erano due testimoni che a quell’ora lo hanno visto da un’altra parte. D’accordo, c’è anche quella registrazione della videocamera, ma è tutta buia, non si vede quasi niente.
«Come mai il tuo cliente non è comparso? Glielo hai consigliato tu di rimanere a casa?»
«No, veramente io gli avevo detto di venire. Tra l’altro deve ancora pagarmi».
L’avvocato Ubertone scuote la testa.
«Sofia, Sofia… A quanto pare, durante la pratica alcune regole fondamentali della professione mi sono dimenticato di insegnartele. Numero uno: nei processi penali farsi sempre pagare prima dell’udienza. Scommettiamo che quel galantuomo del tuo cliente non lo vedi più? Devi solo sperare che sia condannato così avrà ancora bisogno di te. Seconda regola: mai innamorarti della tua verità. Capita a tutti: se passi tanto tempo a cercare nelle carte solo gli argomenti a favore del tuo cliente alla fine la prima persona che riesci a convincere sei proprio tu. Per la difesa può funzionare: magari un po’ di convinzione la riesci a trasmettere anche al giudice. Ma stai attenta che quello è un vizio che prima o poi devi perdere se non vuoi andare incontro a tante delusioni».
«Cosa vuole dire, avvocato, vuol dire che lo condanneranno?»
«No, non ho detto questo…»
Viene interrotto da un colpetto di tosse. È l’avvocato con i baffi che mi ha prestato la sua toga. Per l’emozione della mia prima difesa mi ero dimenticata in studio quella che mi hanno regalato i miei dopo l’esame, lui mi ha vista smarrita e se l’è tolta per mettermela sulle spalle. Un bel gesto da signore.
«Oh, mi scusi, collega – gli dico – appena il giudice ha letto la sentenza gliela restituisco».
Mi suona strano chiamare “collega” un avvocato anziano, mi sto proprio sforzando per abituarmi. Il tu non mi viene ancora.
«Non preoccuparti, cara, non è mica mia. Guarda nel risvolto. Vedi: Consiglio dell’Ordine degli Avvocati. Ce lo ricamano sopra perché, è vero che siamo tutti persone perbene ma, chissà com’è, l’anno scorso qui ne sono sparite due».
Che tipo. Ha l’aria simpatica con quei baffetti strani girati all’insù.
«Senza volere ho sentito i vostri discorsi. Dai retta al mio amico Massimo che la sa lunga, la verità è molto sopravvalutata. Ascolta: la Ghermandi la conosco e prima di mezz’ora non esce, allora, visto che hai un po’ di tempo, ti racconto una storia».
Si sistema gli occhialetti tondi sul naso. Ci giurerei che è un suo gesto abituale.
«Dunque, una volta, parliamo di parecchi anni fa, mi capita in studio una signora che ha un problema serio. È dovuta scappare di casa con il figlio diciottenne perché il marito quando è ubriaco diventa violento ed è arrivato persino a minacciarla di morte con un coltello da cucina. Mi riferisce anche tutta una serie di episodi di abusi e di umiliazioni quotidiane. Una volta che aveva per sbaglio fatto cadere un po’ di salsa di pomodoro lui l’aveva costretta a mettersi a quattro zampe e pulire il pavimento con la lingua. Fa molta fatica a parlare di queste cose ma si esprime con precisone, si vede che una persona che ha studiato. Io annoto tutto e, come è mia abitudine, prima di prendere qualsiasi iniziativa convoco in studio il marito per sentire, a quattr’occhi, la sua versione dei fatti e vedere se c’è spazio per un accordo di separazione consensuale, evitando le querele.
Fissiamo un appuntamento e scopro che non è affatto il mostro che mi ero figurato nella mia testa: è un ometto magro, molto educato, con l’aspetto di uno che non farebbe male a una mosca. Mi assicura che di vero, in quello che ha raccontato la moglie, non c’è neanche una parola: lui non oserebbe mai umiliarla o alzare le mani su di lei, a volte ne avrebbe avuto la tentazione ma non è quel tipo di uomo. Inorridisce quando gli riferisco la storia della salsa di pomodoro. Il fatto è che sua moglie da un po’ di mesi ha perso la testa per un altro: per questo se ne è andata, e siccome non vuole rinunciare al mantenimento, si è inventata quelle calunnie per addossare su di lui la responsabilità della separazione. Se credo, dice, per capire come stanno davvero le cose posso parlare con Mauro, che adesso vive con la mamma.
Interpello questo Mauro, un ragazzo che ha i bei lineamenti fini della madre ma ha in faccia un’aria strafottente. Si spaparanza sulla poltroncina davanti alla scrivania e non sembra per niente in soggezione per il fatto di essere convocato nello studio di un avvocato.
Quando gli inquadro la situazione si mette a ridere.
«Allora ha proprio abboccato! E bravi i due vecchi!» mi dice.
Gli chiedo cosa significa questo discorso e lui mi spiega che i genitori sono entrambi professori di analisi dei processi sociali presso il Dipartimento di Sociologia dell’Università di Bologna. Sono una coppia molto affiatata e stanno lavorando insieme a una ricerca sulle dinamiche interpersonali nell’ambito delle professioni. In pratica mi hanno utilizzato come cavia.
Naturalmente questa cosa mi fa girare alquanto le scatole. Telefono al papà di Mauro e gli dico che devo parlare urgentemente con lui. Arriva la sera stessa, dopo che Mauro se ne è andato. Mi sembra molto dispiaciuto.
«Temevo che succedesse – mi dice. – Mauro è un ragazzo molto fragile, non ha mai accettato l’adulterio della madre e la fine del matrimonio dei suoi genitori. È già stato in cura da uno psicoterapeuta e ora evidentemente ha rimosso una realtà per lui intollerabile inventandosi questa storia della coppia affiatata di sociologi».
Il cancelliere si è alzato dalla sua postazione ed è entrato in camera di consiglio. Ci siamo quasi. Mi ero lasciata prendere dal racconto e quasi mi stavo dimenticando del mio processo.
«E qual era la verità, lo ha accertato, poi?»
«La verità? Ho rinunciato all’incarico. Sai, tra me e la verità non c’è più un gran bel rapporto. Manca la fiducia reciproca».
Accenna a un baciamano.
«Arrivederci collega, ti lascio lavorare. È stato un piacere. E in bocca al lupo per la sentenza! Ciao, Massimo».
«Ciao, Sebastiano».
Quando si è allontanato a sufficienza mi volto verso Ubertone:
«Che tipo, quell’avvocato! Allora vi conoscete?»
«Certo, lo conoscono tutti in Tribunale, ma non è mica avvocato. Viene qui ad ascoltare i processi, si mette una toga addosso e chiacchiera un po’ con tutti. È una specie di macchietta, è divertente perché ha sempre delle storie da raccontare mentre aspettiamo le sentenze».
In quel momento suona il campanello e la dottoressa Ghermandi rientra in aula. Si sistema il bavero della toga e legge:
«In nome del Popolo Italiano, visti gli articoli…»
E bravo…”avvocato” Ubertone!
Pirandelliano e ben scritto. Complimenti.
Grazie Cristina, Grazie Anna Rosa: in realtà puoi anche togliere le virgolette alla parola “avvocato”.