Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2024 “Oggi, in questo momento, un’altra volta” di Stefano Garzella

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2024

Oggi nell’aria le prime gocce che cadono in un cielo grigio pastoso; davanti ai miei occhi un giardino nel mese di marzo che vorrebbe risvegliare i propri colori e che invece resta addormentato, prolungando il sonno di un inverno.

Appoggio la mia testa sulla superficie fredda della finestra, lo sguardo puntato fermo con quella fissità che lascia i pensieri fuori dal proprio corpo. Ho un ricordo che mi riaggancia a una stessa sensazione provata quando ero ragazzo. Tante volte mi piaceva guardare al mattino il cielo, avrei voluto godere di quei momenti che erano carichi di una prodigiosa aspettativa.

Mi lascio così trascinare nei pensieri che seguono una loro esigenza.

Anche oggi scuola…sempre la stessa cosa: uscire (tra poco la mamma farà sentire la sua voce), prendere l’autobus, attraversare le solite strade, superare tre semafori e poi il punto di arresto vicino all’edificio, dove scendiamo ordinati in fila indiana con lo sguardo attento per cercare gli altri compagni che ci aspettano sul piazzale.

Mi chiama la mamma…”sono pronto, ora scendo!”; lei è sempre molto ansiosa.

Il vento costringe ancora a imbacuccarmi in un giacchetto imbottito. Alla fermata il freddo si percepisce ancora di più. Sono solo, non c’è mai nessuno a quest’ora che attenda l’autobus insieme a me; le foglie rotolano in terra, mi si raccolgono intorno ai piedi, sembrano cercarmi e darmi una consolazione inattesa.

Arriva puntuale l’autobus, lo intravedo che ha svoltato la curva. Dopo che sono salito resto in piedi, ci sono due posti a sedere dalla parte del conducente, ma preferisco così, non sono abituato ai privilegi.

Mentre il mezzo avanza inizio a riempirmi di un sentimento, l’embrione di qualcosa che non riuscirò a fermare nella sua crescita. Una vecchietta mi guarda con  occhi sbarrati, non ha vergogna, alle persone anziane tutto è concesso: è come se leggesse questo sentimento e aspettasse che facessi qualcosa, ma non ne sono in grado, so solo distogliere lo sguardo e buttarlo fuori dal finestrino nel vai e vieni delle macchine che dal lato opposto seguono i loro ritmi quotidiani.

C’è solo un ragazzo della mia età che tutte le mattine sale sull’autobus, avrà un anno di meno perché scende prima, va ancora alle scuole medie. Ha gli occhiali e mi guarda ogni tanto, forse non piaccio nemmeno a lui.

Siamo arrivati alla fermata, scendo di getto e manca poco inciampo sul gradino. Non tengo bene il peso, mi sento spesso sbilenco e lo zaino sulle spalle non mi aiuta, stavolta poteva finire male.

Eccoli là, la squadra dei quattro. I loro occhi puntati su di me come una luce accecante. Io cammino e stavolta prego: “Dio tienili buoni”. Poi lui si muove seguito dagli altri, dietro le orecchie ho una percezione esagerata, camminano amplificando il rumore dei loro passi, come se emergessero prepotentemente dagli altri suoni. Avverto come un’ombra che mi insegue e  il petto mi si gonfia di un veleno acido fino a salire in gola.

Questo è il momento, ora il sentimento che avevo ha preso forma, diventa un mostro che è pronto a divorarmi e io mi sento un verme esposto alla luce del sole, sono l’obiettivo dell’animale che ha individuato la sua preda.

Ho ancora in mente il suono delle loro voci, mentre parlano tra loro, solidali nel condividere la loro forza di gruppo. Avanzano con l’incedere sicuro di soldati, pieno di vittoria.

(Bisognerebbe registrare le parole, per conservarle…un giorno potrebbero essere utili, utili a capire come siamo cambiati anche senza capirne le ragioni…).

Gli occhi bassi a guardarmi le scarpe mentre procedo fragile, come un giunco piegato dal vento. Che cosa faranno ora mi chiedo. D’accordo, fate quello che volete ma fatelo subito cosi finirà presto questa angoscia, con la fine sarà anche la liberazione. Io non sono nulla, loro sono i più forti ed è giusto che siano loro a vincere. Io devo soccombere alle loro pretese, il mondo è dei vincenti e qui non c’è posto per me. Sono un cacasotto che solo mi spavento a ogni battito di mani portando il mio sguardo contro l’asfalto, con la faccia che vorrebbe cadere a terra.

Paolo ora mi viene incontro, la sua cartella sbatacchia a destra e a sinistra sulle sue spalle esili. Ha un gran sorriso sulla faccia. E’ un ragazzone alto, dimostra almeno due anni di più. Dietro a lui c’è suo padre.

“Eccoti, guarda cosa ho trovato…la figurina che ti dicevo, la n. 209, quella che completa la squadra del Palermo”.

Da dietro averto una ritirata, un dissiparsi di ombre che mi cadevano sulle spalle. Mi hai salvato, vorrei dirgli, ma mi vergogno e taccio fingendo di ascoltarlo. Mi prende per il braccio e mi accompagna dagli altri. Stanno giocando con le figurine, il primo che lancia la carta su una di quelle già a terra se le prende tutte! Paolo è un patito di questo gioco. Per me non è un granchè ma fingo di interessarmi. Paolo ha un mazzetto di figurine in mano, vuole partecipare, spesso ne perde la metà, ma lui insiste, non gli importa, la fortuna prima o poi passerà dalla sua parte, così dice.

Ora non li vedo più, saranno rintanati in qualche angolo pronti a una nuova strategia d’azione, non demorderanno dai loro intenti: il cacciatore non perde di vista la propria preda, anzi il durare della sfida lo esalta e ne incita la violenza, ne porta a galla il gusto zampillante, pronto a mostrarsi libero e giustificato.

Scatta poi il suono della campanella: la massa procede attratta dalla bocca dell’ingresso, come un risucchio. Vi è un accalcarsi disordinato di gente, io  resto indietro. Voglio aspettare, anzi vorrei scappare e ritornarmene a casa.

Alla fine entro, sono solo e mi indirizzo verso il bagno. Bevo un po’ d’acqua dal rubinetto, il suo sapore di cloro mi finisce giù nello stomaco. Mi guardo allo specchio, tra un cuore disegnato in rosso con due sigle M. e S. e un figurina stilizzata di due corpi che vuole rappresentare un amplesso. Lo specchio è sporco, non abbastanza da coprire la mia faccia, che avverto come una maschera: la testa tonda coi capelli neri tagliati con una linea retta, i due denti sporgenti in avanti,  la pelle con quell’accumulo sul naso di punti neri.

E poi c’è anche il resto del corpo, fatto come una carota, grasso nella parte superiore che poi finisce per affusolarsi, con due stecchini di gambe. Sembro un bimbo scemo, ma io no lo sono: è solo colpa dei miei genitori che mi hanno fatto così, o forse di Dio, se esiste.

Mi verrebbe da piangere ma mi trattengo, resto attaccato a un filo di dignità e commiserazione per me stesso che ancora mi rimane nelle ossa.  Forse qualcosa nel mio futuro cambierà, i miracoli accadono se esiste Dio, non si sa mai.

Devo andare in classe, non posso permettermi di far capire le cose agli altri. Devo resistere, lo faccio per un istinto di conservazione.

Nel mio banco non ascolto la lezione della professoressa, ho antenne e nervi allertati. Quando esco dovrò correre forte, superare le prime file per imbucarmi nell’uscita prima che loro arrivino. Il mio compagno ride e scherza con Paolo,  che sta dall’altra parte del suo banco. Li sento come una presenza statica e non riesco a condividere la loro spensieratezza, stanno lì e un po’ mi rassicura. Sono la parvenza di un altro mondo che vorrei fosse l’unica realtà. Invece esistono le guerre, le malattie, la povertà. Esistono anche persone cattive che se la rifanno coi più deboli. Perché esistono i deboli?

Distolgo lo sguardo e riprendo a essere me stesso, allontano quei ricordi, alle volte riemergono come un peso sullo stomaco che continua a premere di tanto in tanto. Alle dieci riunione coi miei collaboratori. Oggi Patrizio non potrà esserci, si è  separato dalla moglie e deve andare dall’avvocato per risolvere le sue faccende. Sono cinque anni che sono alla guida di questo gruppo, sono stanco ormai, inizio a avere una certa nostalgia del tempo che mi manca per uscire, per portare fuori i bambini, per passare più tempo con mia moglie. Ci vediamo solo la sera ormai, stanchi entrambi, appena il tempo per controllare i compiti e occuparsi dei cattivi voti da recuperare, dell’iscrizione al corso di tennis, delle tasse da pagare, di quello che avrei voluto per cena ma che ci siamo scordati al supermercato.

Vado in bagno, incontro lo specchio e la mia immagine mi avverte: oggi indossi un’altra maschera ma sotto nascondi ancora quel bambino che nella scuola sapeva di portare un fardello, niente avrebbe cambiato la sua esistenza. Il  dolore nasceva dal profondo come un richiamo, una sabbia mobile che si faceva padrona della terra. Lo spavento negli occhi, la sensazione di deriva, l’incomprensione che ricevevo da un mondo fatto per pochi, dove non esisteva l’uguaglianza che volevano insegnarci. Penso: il tempo passa ma restano delle cicatrici impresse, sono state loro il vivaio dei miei istinti. Ho voluto riemergere dal fango tenacemente,  lottando per essere  alla fine accettato. Per far questo ho creduto che ci fosse una giustizia da qualche parte pronta a salvarmi, a intervenire con misericordioso aiuto.

Dovevo riconciliarmi con la mia natura, speravo che le persone di questo mondo  potessero fare lo stesso. Oggi provo a vedermi diverso e a sopportare quel dolore sordo, o meglio a ignorarlo, sforzandomi di relegarlo in un angolo lontano da me e dal mio tempo. Non ho altra alternativa.

Si è fatta l’ora di uscire, la mia auto mi aspetta in garage. Indosso il golf, quello blu che sta bene con la camicia bianca, oggi il soprabito non lo metto, inizia a fare caldo, meglio il giubbetto leggero.

Mia moglie è già uscita, ha accompagnato i ragazzi a scuola, poi andrà in ospedale dove è il suo lavoro, non rientrerà fino a tardi. Io mi posso permettere di avere orari più flessibili, mi piace la mattina godermi questa possibilità.

Supero la soglia e scendo di buon passo le scale. Non incontro mai nessuno, molti scelgono l’ascensore in questo palazzone. Trovo il portone aperto, qualcuno che mi ha preceduto non lo ha richiuso. E’ un invito a uscire, qualcosa che si apre alla luce che sta lì fuori.

(Pazienza diceva mia nonna, devi portare pazienza per tutte le persone che ti stanno accanto, la famiglia è l’unica cosa importante, è il crinale roccioso dove arroccare l’esistenza, se si sgretola non hai più niente…)

Come mai ho le mani per terra, davanti agli occhi. Disteso sull’asfalto del marciapiede, qualcosa non va mentre cerco di fare una ricognizione … sono caduto, perché mi ritrovo così? Ho improvvisamente la cognizione di un colpo, qualcosa che è successo prima o mentre cadevo.

Avverto rumori intorno a me, non ho coraggio a guardarmi, gli occhi mirano dove possano. Si fanno pesanti, sento che non ce la faccio a tenerli aperti, una nebbia profonda sta inghiottendomi mentre qualcuno, un’ombra,  si ferma accanto a me. Il pensiero a mia moglie mi avverte del peggio, e poi quello di quando ero ragazzo: qualcosa che vorrebbe essere un ultimo richiamo. Ma si spenge nell’abbuiarsi dei sensi, non ha la possibilità di essere bello come mi piacerebbe. Nemmeno ora. Allora chissà perché ci penso in questo momento.

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3 commenti »

  1. Certe esperienze dolorose dell’adolescenza ci accompagnano e condizionano per tutta la vita, sono presenti come il tempo che hai scelto per descriverne i ricordi in maniera così efficace. E forse saranno anche il nostro ultimo pensiero prima che si spenga la luce. Complimenti Stefano.

  2. Ti ringrazio Cristina. La vita è alle volte una roulette russa, a qualcuno spara il suo colpo finale e allora? Ci sono degli interrogativi a cui non basterà un intera esistenza trovare la risposta. Un saluto

  3. Ciao Stefano, complimenti.
    Scrittura molto efficace. L’ho sentitito sulla mia pelle.
    Non ho capito il finale purtroppo…qualcuno lo colpisce? Gli prende un infarto?
    Ho fatto solo un po’ di difficoltà a capire quel passaggio…

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