Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2024 “Mia madre” di Massimiliano Ciarrocca

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2024

Aveva dei lividi sulle braccia, l’ultima settimana che abbiamo passato insieme. Era il 2014. Avevo trentacinque anni.

Quando aveva i lividi sulle braccia ed era stesa in un letto di ospedale, ogni tanto la baciavo sulla fronte, mi sforzavo di farlo. Non siamo mai stati di quelle famiglie che si abbracciano, che si tengono per mano, che si accarezzano la testa, che si dicono Ti voglio bene.

La baciavo sulla fronte e sapeva di medicine.

Una mattina di novembre, in macchina. Avrò avuto dodici anni e lei aveva fatto una lastra ai polmoni, stavamo andando a ritirare il referto. Ero sicuro che le avrebbero diagnosticato un tumore perché mio padre era troppo carino con lei e lei era pallida e troppo tranquilla. C’era un enfisema ma niente cancro, potevamo tornare alla nostra vita.

Quando avevo sedici anni è rimasta incinta e a quel punto le ho augurato di morire. È morto il feto.

Una sera, ero più piccolo, credo scuola elementare. Mio padre le ha allungato uno schiaffo mentre stava per terra e io guardavo la scena dal divano. Mia sorella se n’è andata fuori. Non era uno schiaffo, erano una serie di schiaffi. Solo sceneggiate, mai niente di definitivo. Così diceva mia sorella, per quello usciva di casa quando la situazione si metteva male. Le sceneggiate non le sono mai piaciute.

Quando aveva i lividi sulle braccia e passavo ore al suo capezzale, in attesa della prossima crisi respiratoria, leggevo un romanzo di cui non ricordo niente. È passato un medico, mi ha spiegato che quei lividi erano dovuti alle piastrine basse e a qualcos’altro. Ha fatto una pausa e mi ha chiesto del romanzo. Gliene ho parlato ma non mi è stato a sentire. Guardava mia madre e le augurava di morire. Occupava pur sempre un posto letto in oncologia da quindici giorni. Secondo loro sarebbe dovuta morire il 6 agosto. E’ morta il 21.

Come mai non muore dottore? Perché tua madre è un trattore, mi ha detto. Tua madre è un carro armato. Morirà dottore? Certo che morirà.

Una volta ha preso la borsa, stava uscendo di casa. In cucina c’era l’albero di Natale. Dove vai? Da nessuna parte. Posso venire? No. Per favore! No. Ho insistito, ha ceduto. Stava andando a comprare i regali di Natale, ecco dove stava andando. Siamo arrivati all’edicola, ha indicato alcuni giochi alle spalle del giornalaio e li ha pagati. Io ero terrorizzato dall’idea che potesse mettersi a piangere per papà, per la solitudine, per sua madre che non l’amava o per il fatto di averle rovinato la sorpresa di Natale, andando con lei. Non ha pianto e due giorni dopo ho scartato i regali facendo finta di non sapere. A quel punto si è messa a piangere e mia sorella è uscita di casa. Tutte sceneggiate, mi avete rotto il cazzo, diceva mia sorella. E siccome era la Vigilia di Natale, ho pianto pure io.

Quando piangevamo insieme era la cosa più triste e patetica del mondo.

Quando stava per passare la nube da Cernobyl, tutti erano chiusi in casa; invece, io e lei siamo rimasti fuori. Avevo paura e mi voleva fare vedere che la nube non era proprio una nube. La nube, diceva, non era proprio niente di niente. Non mi teneva per mano, mi parlava, era il suo modo di consolarmi, di abbracciarmi, di dirmi che mi voleva bene.

Un giorno sono entrato dalla porta-finestra del giardino, di soppiatto. Mi sono infilato sotto la sua sedia e le ho stretto la caviglia in una morsa. Aveva un’albicocca in mano che è volata via per la paura. Mi ha rincorso fino a che non è riuscita mollarmene una e poi un’altra. Mi ha riempito di parolacce e non mi ha parlato per un giorno intero.

Un’altra volta ho finto di essere morto nella vasca da bagno. Ho rimediato schiaffi e parolacce. Più tardi, dopo cena, si è messa a piangere. Io ero vivo, stavo solo scherzando, ma non bastava perché il problema non era lo scherzo. Il problema era papà. Senza di lui non ci riusciva, non le tornava qualcosa. Non le tornavano nemmeno i conti per arrivare alla fine del mese.

Maledetto il giorno, diceva. E sbatteva i piatti nell’acquaio. Maledetto il giorno. E si asciugava le lacrime sul braccio. Io le dicevo Mamma, piantala. Mamma falla finita e lei mi diceva che avevo ragione. Però continuava a piangere.

Ho pisciato a letto per un sacco di tempo. Lei si svegliava e mi insultava, poi puliva tutto e mi rimetteva a letto. È andata avanti così per un po’, poi ha capito che mi serviva uno psicologo e non le sveglie di notte per pisciare. Lo psicologo aveva detto Non si dice pisciare a letto, signora. Si dice enuresi notturna. Lei aveva detto E come si chiamano i materassi con le macchie gialle?  Lui l’aveva fatta uscire e poi avevamo parlato. Di cosa, non me lo ricordo. Ho smesso di pisciare a letto.

Una volta, forse avevo quindici anni, le ho dato una spinta perché non mi aveva permesso di andare a una festa e mi stuzzicava per farmi uscire dal silenzio che mi ero imposto. Ha fatto per reagire ma non ha reagito e se n’è andata in cucina a piangere. Questa volta piangeva per me, papà era fuori per lavoro e mia sorella era via con delle amiche. Un periodo abbastanza felice se non fosse stato per il figlio adolescente che ero.

Eravamo molto bravi a rovinare le cose, quando sembravano andare meglio.

Un’altra volta le ho mandato un SMS dicendo che non sarei tornato a casa a dormire. Mi ero innamorato ed ero pronto ad andarmene.

Poi, un giorno, si è ammalata. E allora tutta quella rabbia, tutta quella tensione, la paura che da un momento all’altro potesse scoppiare un casino in casa, tutte quelle cattiverie, tutte quelle delusioni. Tutto è sparito. I lividi sulle braccia le sono venuti molto dopo l’ossigeno, le terapie, i pianti, il busto per tenere dritta la schiena e i Mangia, dai, per favore mamma. Mangiare perché? Di fatto era già andata.

E non riusciva a morire.

Sono uscito dalla stanza, una notte. Ho cercato una siringa nella stanza delle infermiere e l’ho trovata. Mi sono avvicinato al letto e ho guardato il suo petto andare su e giù, come se fosse il petto di un robot, come se dei pistoni le comprimessero e rilasciassero la gabbia toracica. Ho aspirato un po’ di ossigeno dalla siringa e l’ho avvicinata al braccio. Si è svegliata e ha detto Spegni i termosifoni. Cosa mamma? Spegni i termosifoni, non lo senti che caldo? Mamma, quali termosifoni? Non fare lo scemo, ha detto. Non fare lo scemo perché mi incazzo. Va bene mamma, li spengo. Ecco, e non mi prendere più in giro, capito? Capito mamma. Si è riaddormentata. Mi è caduta la siringa, l’ho raccolta. Quando gliel’ho infilata nella vena, il braccio si è mosso per un riflesso. Ho aspirato un po’ di sangue.

Una volta mi ha portato al cinema, abbiamo visto Jurassic Park. Sembravamo due alieni. Tutti erano a loro agio, a me sembrava di commettere un peccato, di dovermi vergognare, di non essere capace. Eravamo impacciati, ridicoli e non so nemmeno perché. Poi hanno spento le luci ed è cominciato il film e io ho pensato che quelle cose non fossero roba da noi. Noi stavamo bene a casa. Fuori eravamo ridicoli.

Ho guardato i lividi lungo le braccia. Con la sinistra le ho preso la mano e poi ho premuto lo stantuffo. 5 ml di aria in vena.

Fuori, alla macchinetta del caffè c’era un’infermiera che parlava con chissà chi al telefono. Si lamentava dei turni e del marito. Dopo un po’ ha messo giù. Le ho offerto un caffè e abbiamo parlato un po’ del più e del meno. Le ho raccontato di quando mia madre mi ha trovato per strada, in un posto in cui non sarei dovuto essere. Le ho raccontato anche di quella volta in cui, dopo aver comprato un letto a castello, è rimasta tutta la notte su una sedia a controllare che non cadessi. Le ho detto dell’ansia che aveva di ammalarsi di Alzheimer, di soffocare con la mozzarella o il prosciutto, del fastidio che provava se mimavi con la bocca quello che stava dicendo. L’infermiera rideva. Prima di tornare in turno mi ha detto Tua madre era proprio simpatica.

Sono rimasto ancora un po’ davanti alla macchinetta del caffè chiedendomi se fosse passato abbastanza tempo. Quando sono tornato in stanza, mezz’ora dopo, il petto di mia madre faceva ancora su e giù e il battito era stabile. L’ho guardata, sorrideva. Era quel sorriso che faceva quando voleva dirmi che ero un’incapace, un buono a nulla, uno che non sa nemmeno beccare la vena.

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8 commenti »

  1. Massimiliano!!! Intenso e commovente.

  2. Grazie Rossella!

  3. Tragicamente ironico, vero come sa solo chi ci è passato, con la dolcezza che mitiga i rimorsi per quello che si è, anche solo per un momento, desiderato che accadesse. Grande Max.

  4. Grazie mille Francesco.

  5. A commentare si ha quasi paura di affondare il dito in una delle cicatrici fresche disseminate. L’ironia amplifica la tragicità, ma consente di reggerne il peso. Bravissimo!

  6. Grazie Caterina

  7. Registro azzeccato e coerente.
    Capacità di descrivere la tragedia con ironia.
    Complimenti, bel racconto.

  8. Massimiliano, la tua speciale ironia rende questo racconto ancora ancora più drammatico e così profondamente vero. Complimenti!

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