Premio Racconti nella Rete 2024 “Le maiuscole della Guerra” di Antonella Zanca
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2024
Da ragazzi amavamo sentir raccontare delle storie.
Non eravamo tanto originali: ci trovavamo, in gruppo, si chiacchierava e si dicevano sciocchezze o grandi paroloni, poi qualcuno nominava Nonno Milò ed era tutto un «Sì, dai, andiamo – Facciamoci raccontare – Oggi gli chiediamo di quella volta che ha dovuto scappare giù dalla finestra.»
Si rideva. I ragazzi riescono a ridere della guerra, anche se è quella con le maiuscole, La Prima Guerra Mondiale. Nonno Milò accettava col sorriso di iniziare il racconto del suo rientro; era un insieme di fughe e ripari, di fienili e belle donne e noi lo prendevamo in giro in quelle sere d’ottobre davanti al camino con bicchieri di vino rosso e castagne abbrustolite come solo Nonna Maria sapeva fare. Il Nonno raccontava di avventure e tutti amano le avventure, che siano di donne o di viaggi. Maliziosi, chiedevamo e ridevamo e poi guardavamo Nonna Maria che ridacchiava pure lei e scuoteva le spalle. «Nonna, non sei gelosa?» «Ma no, per niente. Lui è arrivato da me, alla fine!»
Adolescenti e sicuri di aver capito il mondo, ci riempivamo di film contro la guerra, di manifestazioni contro gli americani, di simboli e slogan. Nessuno di noi sapeva cosa volesse dire davvero fare la guerra. Qualcuno lo chiese al nonno e lui rispondeva sempre in modo diverso: «Farsi degli amici.» «Soffrire il freddo.» «Cercare di non farsi prendere.»
Noi capivamo poco e ridevamo molto, anche quando le emozioni avrebbero dovuto farci restare seri.
Sempre ridendo, si cominciava a cantare, a mezza bocca e poi da vero coro, le canzoni del Piave, quelle che avevamo imparato coi gruppi della montagna, in pullman, in gita. Arrivavamo a “Il capitan della compagnia” e ci guardavamo facendoci dei cenni, assaporavamo il seguito, sapevamo bene cosa sarebbe successo.
Era il nostro giochino perverso, il modo per finire le serate con la cattiveria dei giovani che vogliono buttare tutto in divertimento, anche i sentimenti veri di altri che certo non capivano.
Il culmine, la cima della tristezza e del ricordo doloroso, si raggiungeva con
L’ultimo pezzo alle montagne
Che lo fioriscano di rose e fior
Sulla erre finale Nonno Milò guardava fuori, verso la montagna più alta, senza vedere, gli occhi ormai colmi di lacrime.
Noi cantavamo con maestria, Nonno Milò piangeva in silenzio, e Nonna Maria si avvicinava: gli accarezzava le spalle, lo faceva alzare e lo portava di là, senza una parola, con amore lo coccolava e lo lasciava ai suoi ricordi.
Tra noi qualcuno rideva ancora, qualcuno cominciava a vergognarsi, un paio riuscivano a piangere; successe anche a me, una volta. Piansi e cancellai la vergogna; non tornai più col gruppo a trovare Nonno Milò, ci andai da sola: restavo in silenzio davanti al camino, lui mi raccontava delle noci, dei merli, del bosco. Finché un pomeriggio mi disse: «Non fatela, la guerra, è brutta, ti resta dentro anche se non sei morto.»
La Seconda Guerra Mondiale, invece, era viva in casa ogni giorno: la frase «quando c’era la Guerra» era consueta per le abitudini di tutti i giorni, per farci fare i bravi («Voi non avete visto la Guerra») e per ricordarci che nulla ci era dovuto.
I racconti di fame e freddo, di bombe e case distrutte erano le nostre storie, il Nonno Paolo e la Nonna Anna con un materasso e una sveglia, uniche due cose rimaste dal bombardamento di Milano dell’agosto del ’43 erano per noi il pane quotidiano; eravamo pure un po’ stufi, io e i miei cugini, di sentire sempre le stesse storie. Restavamo comunque affascinati dai partigiani, zio Vincenzo che morì in montagna, i medici delle SS che insegnavano il tedesco alle ragazze del bar a Merlara, un partigiano ucciso all’istante perché aveva la cravatta rossa, un ragazzino che portava biglietti in bicicletta, Erano tutte piccole storie ma ci avvicinavano alla gente che la guerra l’aveva vissuta tutti i giorni, cercando di sopravviverle.
Da grandi, le guerre erano quelle del Vietnam, fate l’amore non la guerra, Joan Baez, i grandi “No!”, i sogni e le ideologie.
Guerra era la parola che ci permetteva di stare contro e fare gruppo, essere insieme, rabbrividire di gioia per quanto si potesse diventare amici in un attimo grazie a un’idea.
Arrivò, in una diretta che non ci faceva capire nulla ma ci affascinava, la Guerra del Golfo.
Televisione presente, orrori in onda, tutto che pareva un film, tranne gli sguardi dei giornalisti che ai più attenti facevano paura. Chissà cosa ci stavamo perdendo, cosa non ci si raccontava.
Seduti sui divani, le discussioni ci allontanavano dalla gente. Non sapevamo neppure come si chiamassero da quelle parti là. Per noi erano tutti arabi, come a Bologna gli immigrati li chiamavano tutti marocchini. Il distacco dal disastro arriva quando cancelli la gente. Sono numeri o confini o terre, mai un nome, mai una famiglia.
Arrivò l’agosto del 1991 e ci trovammo a Mostar: una pausa di viaggio tra risate, il caffè turco a dipingerci i denti e un ragazzino, Sasha, che tra italiano e inglese ci fece vedere la sua casa, ci raccontò della scuola, di mamma e nonna. Gli regalammo una scatola di biscotti e lui corse via felice. Nel viaggio di rientro in Italia la guerra raggiunse la Iugoslavia, toccammo con mano ore di blocco militare, di controlli coi fucili puntati, di sguardi duri e di vicini di coda spaventati.
Ricordo la sensazione di superiorità: no, a noi non sarebbe successo niente, gli italiani li avrebbero lasciati andare. Nella paura, la sopravvivenza aveva la meglio anche in noi che avevamo imparato quegli slogan che lì non servivano più, la guerra era già arrivata. E precipitò nelle nostre case tranquille quando nel novembre del 1993 arrivarono le foto del crollo del ponte, a Moster. Era proprio lì che avevamo incrociato gente vera, un ragazzino che ora doveva essere ragazzo e che non sapevamo se sarebbe diventato uomo.
Non si trattava più di raccontare di Guerra, ma di Sasha: ce l’avrebbe fatta? Nel mondo dove la comunicazione cominciava a svolgere la parte principale, non c’era spazio per le persone, ma solo per le masse, per i numeri. Così non sapemmo mai se Sasha fosse cresciuto, se mai fosse riuscito a farsi una famiglia, se la casa l’avesse ricostruita, se lui, proprio lui, avesse superato la guerra.
Da lontano le persone son puntini e i puntini non fanno la storia, diventano sfondo ai racconti dei grandi che coi loro vestiti migliori si trovano a parlare ai tavoli ricchi di fiori, porcellane e cristalli e pure di sorrisi benché parlino di morti.
Ma i morti non contano, nella guerra. Come non contano i vivi. Sono gli obiettivi strategici a farla da padroni e a riempire bocche e cervelli.
Ma i cuori?
Ci sono ancora, i cuori, in questo mondo di guerre?
Cercando in rete pare ci siano in atto circa centosettanta guerre, oggi. Se i numeri hanno un senso significa che in centosettanta luoghi del mondo ci sono gruppi di persone che si ammazzano. Che famiglie intere soffrono per la perdita di anche solo uno di loro, morto per guerra. Uno, nessuno, per noi. Uno, fondamentale, per i cuori della gente in guerra, Quell’uno è morto con un nome, un figlio, una madre, un amore. Quell’uno ha dimenticato, la mattina, di dire alla moglie quanto l’amava. Quell’uno non ha mai finito di intagliare quella culla da bambola che sua figlia gli aveva chiesto.
Uno, nessuno.
E nelle case arriva la guerra della vicina, vicinissima Ucraina e siamo di nuovo attaccati ai televisori, alle bombe, paiono più vere, sono vere le case sventrate e le donne che piangono in una lingua che da sempre mi pare lingua di lacrime. Paiono un po’ più vere, perché sono così vicine, queste sofferenze. Ci avvicinano alle paure, per la prima volta ci sfiora il dubbio che potrebbe succedere anche a noi.
La parola Guerra, che ci accompagna da sempre, ha la sua presenza anche nel nostro cuore, ora, e lo fa tremare.
Passano i mesi e diventa un’abitudine. Passano i mesi e si finisce di raccogliere ciò che potrebbe servire agli ucraini; basta coi vestiti, col cibo. Pare che finita la novità anche l’emergenza si allontani dai nostri pensieri. Riprendiamo l’abitudine tra lavoro, casa, affetti; i nostri: per gli altri c’è poco spazio.
Ancora: i nomi di chi davvero sta male non arrivano fino a noi.
Finché non arriva un altro Sasha. Papà parla un po’ di tedesco, mamma solo ucraino, Sasha si arrangia con italiano e inglese. Non hanno più niente. I nonni sono morti, erano poveri là e hanno perso la casa. La mamma stringe al petto una borsa di pelle, mi guarda e dice qualcosa che non capisco. Sasha dice: «Ha solo borsa.» Sorridono, tutti e tre, chiedono aiuto. «Casa», ripete Sasha. I genitori annuiscono e continuano a ripetere: «Grazie, grazie, grazie.»
Dietro di loro, in coda per mangiare, c’è Oumar, stessa età di Sasha. Lui parla bene il francese, viene dal Mali. Non ha più niente, oltre alla guerra ci sono state lotte politiche, problemi che non sono arrivati fin qui. È nato coi problemi, Oumar, e nei problemi è abituato a vivere.
Così, pur non parlando la stessa lingua, riconosce in Sasha la stessa faccia della sua famiglia.
La parola che li accomuna è “niente”.
Paiono capire che la guerra è questo. Che la vita è questo. Resta in testa, la Guerra; resta nel cuore, la gente.
Così Oumar, con il suo sacchetto pieno di biscotti e tonno in scatola, riso e olio, allunga una mano verso quella di Sasha.
Si guardano negli occhi. Oumar lo tira verso di lui, gli fa vedere la strada. «Viens avec moi!»
Noi abbiamo da fare, la pratica degli aiuti richiede attenzione, anche noi scavalchiamo la gente, ci affidiamo al lavoro e mettiamo da parte i cuori. Ma il nostro angolo di mondo pare fermarsi quando Sasha e Oumar si prendono per mano e camminano via, verso un chissà dove che non sappiano.
Così ci concentriamo sulla speranza e costruiamo un mondo dove il Chissà Dove è un paese bellissimo: si studia, si fa sport, si parlano tutte le lingue del mondo, ci si guarda dritto negli occhi e Sasha dice che vuole fare l’elettricista, che sa che con l’energia solare si può muovere il mondo. Intanto Oumar ride, lui vuole l’ombra, il sole l’ha visto al suo paese, ora ha bisogno di stare tranquillo e vuole studiare i batteri. Dice proprio così, vuole vedere un microscopio, vuole inventare le medicine.
Noi sogniamo con loro mentre prepariamo i pacchi di riso e impiliamo le scatolette di tonno.
Il tonno piace a tutti.