Premio Racconti nella Rete 2024 “Cielo a pecorelle” di Salvatore Pisani
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2024All’inizio Chiara era entusiasta delle foto che le facevo vedere. Non sono un fotografo professionista, ma con questi moderni smartphone siamo tutti bravi a fare belle foto. È l’effetto della globalizzazione, dice lei: son tutti capaci di qualcosa che prima non sapevano fare, e scompaiono i mestieri. Chi pensa ormai ad aprire un negozio di fotografia?
Tutto era cominciato per gioco un tardo pomeriggio, dopo una visita alla rocca d’Angera. Quando eravamo scesi per una passeggiata sul lungolago, ci attendeva un cielo spettacolare. Lo spettacolo era la lunga teoria di nuvole che si addensavano verso la costa piemontese del Lago Maggiore. Alcune riflettevano i raggi del sole prossimo al tramonto. Un cumulonembo, con la sua consistenza soffice come un enorme sbuffo di schiuma da barba, s’indorava verso ovest e acquistava in basso il colore scuro della terra dissodata.
Io non sapevo che cosa mi attraesse delle nuvole. Forse quel loro incedere etereo nel cielo, quel comparire e scomparire, quel loro misterioso conformarsi in vario modo, quell’implicito ammiccare al divino. Forse l’aver riletto di recente l’omonima commedia di Aristofane, dove Socrate osteggia l’ontologia delle divinità dell’Olimpo, così meschine, colleriche e invidiose da raggrumare le peggiori qualità degli umani; e viceversa ha fiducia in queste dee naturali e benefiche, che ristorano la terra con la pioggia. Ricordo d’aver declamato alcuni versi a Chiara.
Nuvole eterne,
leviamoci visibili nella nostra rorida agile natura
dal muggente padre Oceano
sulle chiomate vette dei monti eccelsi…[1]
Belli, mi dice, di chi sono? Aristofane, quinto secolo avanti Cristo, o giù di lì, le rispondo: quello del primo sciopero sessuale delle donne per dissuadere gli uomini dalla guerra, narrato in Lisistrata. Interessante, fa lei. E il dialogo si fermò qui. Interessante davvero, pensai, o interessante così per dire, come una possibilità remota da approfondire?
Io comunque avevo continuato a dedicarmi al tema collezionando scatti che inquadravano le nuvole. In alcuni campeggiavano indisturbate, assolute protagoniste dello sfondo. In altri decoravano il paesaggio dando un tocco di mistero, nel dispiegarsi di forme spesso indecifrabili. Chiara agli inizi era contenta di un gioco con cui un marito farfallone si trastullava, lasciandola in pace a curare le sue cose. Dopo qualche mese, però, s’accorse che non si trattava solo di un sano passatempo: appena io scorgevo un nembostrato minaccioso, o un cirro particolarmente ricurvo, o un ammasso di altocumuli cavalcanti in direzione del sole, piantavo qualsiasi cosa stessi facendo in quel momento per brandire il telefono e scattare delle foto, vittima inconsapevole di un inesplicabile automatismo.
Così, in lei cominciò a serpeggiare una sana diffidenza. Non era più, come all’inizio, la ricerca di una bella immagine. Era una sorta di nuova dedizione di cui le sfuggiva l’essenza. Ogni tanto, con le amiche che le domandavano di me, le scappava qualche battuta ironica. È con la testa tra le nuvole, diceva. Oppure raccontava del mio strano hobby monotematico di fotografare nuvole e del mio disdegno per altri soggetti, come persone o panorami.
Avevo accumulato tanto materiale che facevo fatica a classificarlo. Una nube che mi piaceva molto, immortalata a Castelluccio di Norcia, aveva la forma di una testa di cane. L’avevo avvistata sdraiato con Chiara su un prato coltivato a lenticchie. Il cane, si sa, indica fedeltà, ed ero ben lieto di quel presagio, mentre stavo con mia moglie mano nella mano.
Un’altra a forma di farfalla mi aveva inquietato. Secondo molti simboleggia frivolezza, ma poi, leggendo un racconto di Tabucchi,[2] appresi che nuvole di quella foggia sono di buono auspicio, in quanto le persone che hanno dissensi esistenziali cesseranno di averli.
Eppure, riflettevo, nonostante la trasparenza, sono corpi visibili e si trasformano in preziose precipitazioni d’acqua che scompaiono misteriosamente nel terreno.
Siamo nuvole
acqua soffiata dal vento
condensata in pioggia
inghiottita dalle viscere
della terra.
Lessi questi versi a mia moglie una sera, e mi guardò con diffidenza. Di chi sono, chiede. Miei, rispondo. Non mi piacciono, aggiunge. Grazie dell’incoraggiamento, dico. L’idea che qualcosa di bello, mi spiega, finisca sotto terra m’inorridisce: lo so, è la natura fisica delle cose, ma per favore, non me lo ricordare.
Messaggio ricevuto, pensai, senza aggiungere altri commenti. Ma poi quel concetto della natura fisica delle nuvole non mi lasciò in pace. Quella loro essenza di corpi senza limiti m’intrigava, come pure quella sensazione di corporeità che sfumava nell’etereo, nell’indeterminato, come una divinità inafferrabile che tende all’infinito.
Ero ormai succube di un’attrazione inspiegabile. Nulla meglio delle parole di Fernando Pessoa descriveva il mio stato d’animo nel catturare in una foto ammassi di vapore vaganti nell’immensità del cielo.
Nuvole… Esisto senza che io lo sappia e morirò senza che io lo voglia. Sono l’intervallo tra ciò che sono e ciò che non sono, tra quanto sogno di essere e quanto la vita mi ha fatto essere, la media astratta e carnale tra cose che non sono niente, più il niente di me stesso. Nuvole… Che inquietudine se sento, che disagio se penso, che inutilità se voglio![3]
Mi sentivo come chi, attraverso le nuvole, cerca di scoprire i misteri della vita. E la mia stessa vita, in fondo, si stava trasformando in una semplice (o complessa?) operazione di nefelomanzia. Ma forse le nuvole non nascondevano un gran mistero, forse nelle loro forme e nel loro mutare non c’era nulla di esoterico. Il loro passaggio era solo un casuale errare nel mondo, come in fondo è la nostra stessa esistenza. E a quel loro dire misterioso si sovrapponeva la chiarezza di un semplice messaggio. Questo spiegava il mio errare stupito e il maniacale istinto che mi spingeva a fotografarle. Alla fine, meglio di me descrivevano il traguardo di questa mia pulsione alcuni versi di Patrizia Cavalli.
E fuori la stessa luce di ieri, lo stesso azzurro
aprono altre distanze
e chiedo alla gentilezza delle nuvole
di intervenire, meglio grigie che bianche,
per svelare l’imbroglio degli azzurri
che fingono la grandezza, fingono l’infinito,
la luce effimera – la ladra.[4]
Dopo due anni che convivevo con questo anancastico trasporto, Chiara era convinta che non fossi tanto normale e che soffrissi di qualche turba psichica. Non era così: se uno aspira al trascendente o guarda in verticale e orienta la sua bussola verso le nuvole, sottrae tempo alle relazioni orizzontali, sfuggendo alla cosiddetta normalità. La mia amata occupazione era ormai la sua prima preoccupazione: è la naturale evoluzione dei rapporti coniugali, avrei pensato un tempo, prima l’amore incondizionato, poi la tolleranza benevola e infine l’insofferenza malcelata degli incomprensibili, disprezzati passatempi altrui.
Una volta mi pedinò mentre guadagnavo il sommo del tetto e mi sorprese a fotografare dei cirrocumuli. Ma tu sei pazzo, mi grida dietro, rischi di cadere per una stupida foto, scendi da lì. Lo feci a malincuore e le mostrai tutto contento il frutto del mio operato. Da lì sopra avevo avuto modo d’inquadrare il cielo senza l’inquinamento visivo di tetti, antenne, terrazzi e abbaini. Ammassi cementizi aggiunti alla rinfusa a una città che, appesantita, stentava a inerpicarsi sulla collina. Le nuvole cotonavano col loro candore un cielo blu indaco, che faceva una gran fatica a venir fuori dalla trama di un ricamo fitto fitto.
È un cielo a pecorelle, dice lei, ora che l’hai fotografato che te ne fai? D’improvviso capii cosa stavo facendo negli ultimi due anni. Inseguivo un sogno, l’azzurro che sta dietro le nuvole, inafferrabile e inalterabile. E capii pure che i sogni si frappongono alle relazioni, le ostacolano, le turbano. Fino al punto che quest’ultime chiedono il conto, diventano esclusive, pretendono il principio di realtà, facendo fuori tutto il resto.
Il giorno dopo mi alzai di cattivo umore. Fuori il presagio di quell’ultima foto s’era avverato sciogliendosi in un’abbondante pioggia a catinelle. Un cielo buio e tetro, che un meteorologo non avrebbe esitato a descrivere invaso da nembostrati, non lasciava spazio ad alcuna traccia d’azzurro. Che fai lì impalato alla finestra, domanda Chiara. Già, che faccio qua, continuo a guardare le nuvole?
M’era passata la voglia di fotografarle. Piuttosto, osservavo la pioggia rigare i vetri della finestra. Le gocce, giunte con scrosci battenti, poi scendevano giù, silenziose e tristi come lacrime.
Quasi a consolare i sogni infranti.
[1] Aristofane, Le nuvole in Le Commedie, Einaudi, Torino 1972.
[2] Tabucchi A, Nuvole in Il tempo invecchia in fretta, Feltrinelli, Milano 2009.
[3] Pessoa F, Il libro dell’inquietudine di Bernardo Soares, Feltrinelli, Milano 2020.
[4] Cavalli P, Fra tutte le distanze la migliore possibile in Poesie, Einaudi, Torino 1992.
Le nuvole ci danno la nostra dimensione terrena facendoci spaziare, e questa sensazione è resa efficacemente nel racconto.
Soggetto interessante, ben scritto, da cui emerge la tua indiscutibile voce poetica.