Racconti nella Rete 2009 “Vita compressa” di Aldo De Michelis
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009Aveva voglia di urlare.
Forte, il più forte possibile.
Voleva farlo per rompere il cerchio della consuetudine, della noia, dell’essere buono, paziente, amichevole.
Ne aveva fisicamente bisogno.
Un bisogno che si trascinava dalla nascita.
Un bisogno sempre represso.
Questo non si fa’, quest’altro non si dice, saluta, sorridi……
Aveva creduto che diventare grande avrebbe significato poter fare a meno di tutte quelle stupide convenzioni.
Quanto si era illuso!
Ricordava bene i giorni della ribellione. Sempre appena accennata. Sempre sedata.
Quanti sogni.
Quanti personaggi interpretati per sfuggire alla monotonia di una esistenza già scritta.
Il ragazzino timido che diventava rosso anche quando, semplicemente, si parlava di lui si trasformava in impavido avventuriero.
Bastava un libro di avventure e, a volte, anche solo la fantasia.
Eccolo pronto per mirabolanti avventure: esploratore di foreste, pilota di aerei velocissimi, cowboy a cavallo di fedeli destrieri.
Forse era stato il periodo dove fantasia e realtà si assomigliavano maggiormente.
La scuola.
I primi tempi furono di divertimento.
Non ricordava di capire.
Lo fregavano gli occhietti vispi.
E’ un ragazzino così intelligente, dicevano.
Lui continuava a fare attenzione, gli avevano detto che bisognava fare così, ma non capiva tutti quei segni, non riusciva a comprendere cosa volesse dire che 3 per 3 faceva nove.
Fu obbligato ad impararlo, ad accettarlo: 3 x 3 faceva davvero 9….. lo dicevano tutti, doveva essere per forza vero.
Ancora una volta il conformarsi alla massa?
No, questa volta, era davvero così.
Ma ci volle molto per capirlo veramente.
Amava disegnare.
Mescolava i colori, rappresentava la sua voglia di vivere.
Un sole perennemente sorridente: lui non aveva bisogno di fingere, lui bruciava, lui illuminava.
Ecco la ragione del suo sorriso!
Poteva essere quello che realmente era.
Lo invidiava.
Un giorno gli dissero di disegnare una fontana. Una fontana.
Cosa poteva esserci di libero in una fontana? Nulla.
La disegnò, non poteva fare altrimenti, ma da quel giorno smise di divertirsi nel mescolare i colori e, dopo breve tempo, smise anche di disegnare.
Non lo avrebbe più fatto.
Si guardò intorno.
Dal suo punto di osservazione poteva vedere muovere ed agire molte persone.
Molte le conosceva, alcune bene.
Fingevano.
Di non avere tempo, di pensare solo al bene altrui.
Giudicavano.
Egoismi, cattiverie, bassezze.
Si sentì meno solo.
Era il mondo ad essere così.
Riandò con la mente a molti anni prima.
L’inizio dell’adolescenza.
Atteggiarsi da duri era una necessità.
Uniformarsi agli altri vitale.
Gli atteggiamenti di sfida al mondo degli adulti.
Sapeva essere estremamente scostante se voleva e, spesso, lo faceva.
Non ne andava molto fiero, ma sul momento si sentiva appagato. Segnava una differenza tra lui ed un mondo a cui sentiva di non appartenere.
Lo voleva? Probabilmente solo in piccola parte. In realtà fingeva di volerlo per uniformarsi, per aumentare la sua fama di duro.
Ancora le maledette convenzioni. Desiderava liberarsene e se ne creava di nuove.
Atteggiarsi a duro quando non lo era.
Ecco perchè desiderava urlare a squarciagola.
Perchè voleva sentirsi davvero libero.
Poi venne il tempo dell’interesse per l’altro sesso.
Piaceva.
Ci volle un po’ di tempo per accorgersene ma lo capì.
Malgrado ciò trascorreva ore a curare il proprio aspetto, con tutte le esagerazioni del caso.
Gli venne da ridere vedendosi ora: non c’era più alcunché di curato nel suo aspetto.
Gli amici furono il passo successivo.
Anche a loro era necessario adeguarsi; loro lo avevano fatto nei confronti di altri.
Una catena che non doveva e poteva spezzarsi.
Provò ad osservare meglio quello che vedeva al di fuori del suo privilegiato punto di osservazione.
Tante piccole formiche, tra loro sorridenti, interagivano odiandosi profondamente.
Ma tutte con stesso ipocrita sorriso.
Se avessero potuto leggere gli uni nei pensieri degli altri! Che sorprese!
Lui poteva leggere le loro menti, conosceva i loro pensieri più nascosti. Lui sapeva!
Il passato tornò a farsi largo nella sua mente.
Si affacciò il periodo del servizio militare.
Il conformismo in quel caso era almeno dichiarato. Bisognava essere soldati.
Che ridere.
Soldati!
Giornate trascorse a vagare senza alcuna meta eseguendo ordini impartiti da menti dementi.
Soldati!
Formichine vestite di verde con pesanti scarponi che giocavano a chi pisciava più lontano.
Soldati!
Un branco di falliti in difficoltà a leggere i fumetti a cui veniva demandata la responsabilità di far “diventare uomini”, anzi, soldati, ragazzi che non avevano alcuna intenzione di crescere.
Chi mentiva?
Entrambi.
Come sempre.
Anche in quella occasione si trattava del gioco delle parti.
Fu la prima occasione della sua vita in cui cercò davvero di “uscire dal branco”.
Anche allora la necessità di URLARE forte.
Forte, il più forte possibile.
Si astenne dall’osservare le regole.
Le ignorò tutte.
E non lo fece per posa.
Ne pagò le conseguenze, naturalmente.
Il sistema non ammette i dissenzienti.
Neppure gli “originali” a meno che non siano da considerarsi sessualmente “interessanti”.
E lui non lo era.
Ancora oggi il ricordo di quel periodo lo rattristava.
Aveva tentato di affermare se’ stesso ed era stato schiacciato.
Non è ammesso sgarrare, si deve stare tutti allineati e coperti.
Era arrivata l’ora di pranzo.
Sentiva il trillo della campanella.
Il pranzo era pronto.
Aveva fame?
Se lo chiese.
La risposta fu negativa.
Ma era ora di mangiare, doveva andare.
Decise che non lo avrebbe fatto.
Avrebbe digiunato.
Per contravvenire le regole o proprio perché gli mancava l’appetito?
Vennero a chiamarlo.
Vieni a tavola. Poi non si mangerà sino a questa sera.
Attento!
Si lasciò convincere.
Mentre si accomodava a tavola gli sovvenne di quando situazioni simili gli capitavano da ragazzo. Anche allora la minaccia era identica. Era trascorso molto tempo ma le situazioni si assomigliavano.
Guardò i suoi commensali: qualcuno mangiava con regale distacco, altri ingurgitavano grandi quantità di cibo guardandosi attorno con occhi spiritati. Pareva temessero un furto.
Gli parvero animali rinchiusi.
Spaventati, affamati, umiliati.
Ne provò pena.
Sbocconcellò il pranzo.
Era simile a quelli passati.
Si concluse, come sempre, con una pillola.
Dicevano loro che serviva ad aiutare la digestione, ma lui aveva capito: si trattava di una pasticca che modificava la sua coscienza.
Volevano annientarlo.
Perché sapevano del suo potere, sapevano che lui poteva leggere nelle loro menti, nei loro cuori.
E lo temevano. Temevano il suo urlo.
Seduto sulla poltrona del salone ricordò il periodo in cui lavorava.
Era un lavoro che, in un certo senso, gli piaceva.
Si sforzava di essere assolutamente professionale nei contenuti.
Lo era stato.
Non ricordava di aver mai, volutamente, confuso le carte durante le sue esposizioni. Mai.
Cosa lo aveva indotto a smettere?
Sempre la solita ragione: la necessità impellente, prepotente di urlare.
Forte.
Non ne poteva più di essere accomodante con tutti.
Non ne poteva più di ascoltare con attenzione chiunque pensasse di avere qualche cosa da dire.
Aveva sentito troppe assurdità, aveva asserito a troppe sciocchezze.
La voglia di urlare era troppo forte per ignorarla.
Fu la prima occasione in cui urlò.
Un urlo lungo, dai toni profondi, accompagnato da parole irripetibili.
Ricordava gli sguardi smarriti di chi lo circondava.
Le facce stravolte di chi aveva avuto modo di sentirlo.
Che pace!
Che godimento!
Una esperienza magnifica.
Non poteva più pensare di farne a meno.
Immediatamente la sua mente aveva realizzato: non poteva ripeterla.
Lo desiderava, in quel momento stava bene, troppo bene, ma non avrebbe potuto ripeterla. Gli bastò osservare gli sguardi attoniti delle persone che aveva intorno.
Aveva rotto un tabù. Aveva detto quello che davvero pensava.
Non era permesso!
Come aveva osato?
Cercò di recuperare.
Sorrise.
Farfugliò qualche frase sconnessa di scusa.
Ritornò alla “normalità” e si rivide immerso nella ipocrisia.
Le esplosioni di personalità –ora le chiamava così- capitarono di nuovo intervallate da momenti di “normalità”.
Si sentiva come un serial killer.
Aveva necessità fisica di quella sensazione, sentiva l’esplosione avvicinarsi, si sentiva sotto pressione, desiderava poter esplodere, gli provocava godimento solo immaginarlo.
La necessità aveva tempi di attesa sempre minori.
Ormai le esplosioni avvenivano a intervalli sempre più brevi, intorno a se’ si era creato il vuoto.
In giro si parlava della sua pazzia.
Pensa –diceva- ieri ha detto ad un cliente che non capiva un cazzo.
Capisci? Gli ha detto proprio così.
Lui lo sapeva benissimo. Era perfettamente consapevole di quanto diceva.
Sapeva del suo lugubre urlo che precedeva gli accessi di “personalità”.
Non era incontrollato.
Ragionava sulla giustezza o meno dell’urlo.
Quando urlava lo faceva a ragion veduta.
A volte lo faceva nel corso di incontri tra pseudo-amici.
Decine di complimenti per nulla sentiti.
Proposte truffaldine.
Consigli non richiesti.
Lezioni di vita per nulla utili.
L’urlo saliva lentamente……. ci pensava……….. non farlo, si diceva; non urlare, lascia che si facciano male tra loro, non intervenire, che cosa te ne frega in fondo???
Nulla, ma non riusciva più ad accettarlo.
E urlava!!!
Urlava!
E stava bene!
Un giorno non riuscì a trattenere l’urlo in una occasione piuttosto importante.
Venne chiamata l’ambulanza.
Ricordava benissimo il viaggio a sirene spiegate.
Gli infermieri tentavano di tranquillizzarlo. Stia tranquillo, si calmi, passerà –dicevano.
Lo visitarono medici, professoroni.
Ognuno aveva approcci diversi. Chiamavano il “disturbo” in maniera diversa.
Solo la conclusione era la stessa: DISADATTATO.
Sono trascorsi quasi 5 anni da quel giorno.
Non ho più bisogno di trattenermi.
Qui siamo quasi tutti così, non abbiamo timore di cosa pensano gli altri.
Urliamo spesso.
Soprattutto quando è giorno di visite.
Vengono parenti e amici.
Credono di trovarci migliorati solo perchè i medici ci sedano un po’ di più.
Ma l’assurdità della recita a cui non siamo più abituati è troppa.
E allora, tutti insieme, come un coro di lupi URLIAMO e ci ribelliamo alla triste recita della vita.
Non so’ dire se qui sono felice. No, probabilmente no. Anche qui sono costretto a molte costrizioni.
Anche qui non posso dirmi completamente libero………ma, in fondo, chi lo è?
Non male ma mi pare inferiore rispetto al primo.
Mi sembra non perfettamente concluso.
Sempre scorrevole e coinvolgente lo stile di scrittura