Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2024 “Il grande telo” di Pier Luigi Brunori

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2024

Fumavo hierba de diablo seduto sull’ampio balcone di casa. La serata era magnificamente luminosa e fredda, le dolci nuvole di fumo dello spinello si disperdevano nell’aria gelata e il mio sguardo poteva spingersi fino al piazzale della stazione. Osservavo le tre file di automobili che risalivano il viale alberato. Poi i palazzoni di vetro e cemento sui controviali. Il Broletto, riconoscibile per l’orologio, le palafitte, la facciata senza finestre e gli inserti in rame. Lo sfondo di luci e scie luminose sulla strada e la neve ammonticchiata ai margini.

Osservavo e ricordavo con estrema precisione com’era il quartiere prima della creazione del Centro Direzionale. La dislocazione dei vecchi opifici sorti nella prima metà dell’altro secolo attorno alla stazione. L’ex-fabbrica della Perugina sulla destra. La fabbrica della Colussi a sinistra. La fabbrica della Mausa. Vecchi capannoni di mattoni marroni o grigi. Tetti a volta. Tegole rosse. La pasticceria di Nicolini che faceva angolo tra il viale della stazione e via Canali. Dalla cucina arrivava l’eco del giornale radio con le principali notizie del giorno.

Neve a Roma autostrade in tilt. La ripresa è incerta giù le borse. Julio Velasco: la mia Argentina mi ricorda la Repubblica di Weimar.

Poi fu la volta del notiziario regionale. Tutta la regione sottozero. Bufera di neve tra Gaifana e Boschetto. L’insidia del ghiaccio rende faticoso il collegamento verso l’Adriatico.

Le notizie erano state lette di seguito ma tra Gaifana e Boschetto successe qualcosa. Come se il giornalista non conoscesse quel tratto della Flaminia. La specie di buco che interrompe la continuità dell’Appennino umbro marchigiano, favorendo accumuli di neve sulla strada. Strano. Come se il giornalista venisse da chissà dove e si esprimesse in una lingua straniera.

La hierba de diablo era finita. Chiusi la porta finestra e rientrai in casa. Spensi la radio, attraversai l’appartamento dirigendomi in cucina. Accesi il televisore. La signorina buonasera della Rai, che somigliava straordinariamente ad Andrea, la mia compagna berlinese, stava annunciando i programmi della serata in tedesco.

Non feci neppure in tempo a realizzare che, ecco, voci sulle scale. Un gruppo di persone non più giovani, metà uomini e metà donne, probabilmente le due famiglie che abitavano al secondo piano. Risalivano le scale e parlavano animatamente tra loro. Spalancai il portoncino per ascoltare meglio. Dialogavano in francese.

Decisi immediatamente di scendere in strada.

Per quello che potevo udire, la poca gente che risaliva lentamente il controviale, o attendeva alla fermata dell’autobus, faceva risuonare l’aria fredda degli idiomi di tutte le lingue. Ovunque mi girassi sentivo rimbalzare frasi in inglese, tedesco, francese, spagnolo, olandese, portoghese, arabo, cinese, giapponese, ungherese e indi, forse.

Mi posizionai proprio davanti alla palazzina anni ’30, dove abitavo. Mi allontanai di una ventina di metri, fino quasi alle vetrine della profumeria. Davo le spalle a tutta la parte nuova. Cercai il punto in cui si potevano inquadrare insieme le Fonti di Veggio e il viale che sale fino al Rettifilo e alla Piaggia Colombata.

La trovai. Rimasi a osservare qualche minuto. Il tempo necessario per verificare che corrispondeva, era una visione della città rimasta com’era. Ma la faccenda non mi diede alcun sollievo. Mi girai e di fronte ai miei occhi troneggiava il centro Direzionale.

Rientrai in casa. Tornai al balcone. Osservai di nuovo le tre file di automobili che risalivano dal piazzale della Stazione. I controviali. I palazzi di cemento e vetro. Intanto l’aria risuonava di voci di persone che continuavano a parlare in tutte le lingue. Era possibile tutto ciò? Era davvero successo l’irreparabile? Andai in cucina. Afferrai un coltellaccio da dentro il cassetto. Con quello decisi di correre giù per le scale a regolare la questione. Non ricordai neppure di indossare un soprabito.

Appena giunto fuori dell’uscio di casa, ecco il primo ostacolo. Andrea. “Andrea, ma che sorpresa!”. Andrea saliva lentamente le due file di scale nella mia direzione. Tentai subito la manovra di ripiego. Rinculai fino al pianerottolo di casa, socchiusi l’uscio, nascosi il coltello dietro la schiena. Andrea mi venne incontro. Anche da lontano era possibile intravedere una nota di biasimo nel suo sguardo. La nota di biasimo di tutte le donne innamorate che si sentono messe da parte.

Andrea avanzava leggera tra i coni di luce dei pianerottoli. Quasi danzante, con quel carnato che si confondeva con il lucore diffuso della tromba delle scale. Danzavano anche i suoi biondissimi capelli di tedesca bionda. Intanto rimanevo impalato con l’uscio socchiuso, cercando di nascondere il coltello dietro la schiena.

Andrea mi individuò e prima ancora di avermi raggiunto, senza aver bisogno d’altro, con tutta la forza e l’ostinazione di una donna innamorata che si sente trascurata da te, disse: «Si può sapere cosa stai combinando?».

«Non parlarmi in tedesco, faccio fatica a capirlo!»

«Sto parlando in italiano, amore» rispose e cominciò a spingere per entrare.

«Non puoi spostarmi!»

«Oh, certo che posso!» rispose lei, spingendo con una forza e un’autorità inedite.

«Se sei passata per il telo non ce la fara mai a spostarmi!»

«Il telo? Che telo? Devo assolutamente entrare»

«Perché?».

«Ho novità importanti».

«Io ne ho più importanti ancora. Per questo stavo uscendo a risolvere la questione»

«Le mie sono più importanti» e mi mollò un pugno nello stomaco.

Mi piegai in due. Andrea ne approfittò per entrare. Il coltello mi scivolò dietro la schiena. Cominciò a ruzzolare per le scale.

Piegato in due, cominciai a tossire e a vomitare. Il pianerottolo divenne il minuzioso inventario sensoriale di tutto quello che avevo ingerito nel pomeriggio. Mandarino a pezzetti, il marroncino di un caffè zuccherato, purè di biscotti secchi, afrore di un bicchiere di whisky bevuto dopo pranzo.

Andrea si era fermata per assistere impassibile allo spettacolo. Poi si girò elegantemente di lato e vomitò pure lei direttamente sul corridoio. Mi feci forza e mi tirai su. La presi per un braccio e, superando il tappeto di vomito, la portai fino al balcone.

«Ecco» dissi mostrando il piazzale della stazione, le tre file di automobili che risalivano il viale alberato, i palazzoni di vetro e cemento sui controviali e il Broletto.

«Ecco, cosa?»

«Non è mostruoso?»

«Cosa?»

«Non scherzare. È tutto così evidentemente mostruoso»

«Non scherzare»

«Devo lacerare il telo»

«Quale telo?»

«Non puoi capire. È una faccenda per noi indigeni» risposi tossendo.

«Non sono indigena ma non vedo niente di speciale, a parte il fatto che mi sembri un po’ fuori di testa. Non è che quella roba, quella hierba de diablo,ti batte un po’ in testa?».

«Non ti sei accorta che la vecchia città è nascosta dietro quel telo?»

«Dietro il telo?»

«Dietro il telo, certo»

«Dietro il telo cosa? Cosa c’è di così importante dietro ‘sto telo?»

«La vecchia fabbrica della Perugina, la vecchia fabbrica Colussi, la vecchia Mausa, la vecchia via Canali, la vecchia pasticceria di Nicolini. In una parola la nostra vecchia città».

«Sono decenni che la zona è stata demolita e ricostruita. Io l’ho sempre vista così!»

«No, è chiarissimo invece. C’è un grandissimo, invisibile, telo sul quale proiettano, con un enorme macchina da presa, l’immagine della città moderna. Se tu lo attraversi perdi consistenza e cominci a parlare in tutte le lingue del mondo. Sembra impossibile non averlo capito prima. Solo il viale e gli alberi sono gli stessi. Il resto è coperto dal telo. Tutta la prospettiva che dai tetti si allarga sui vecchi opifici di mattoni biondi e sul diritto viale alberato della stazione è coperta da quel telo».

Il pensiero mi si era delineato con precisione. Ma era così orrendo che ricominciai a vomitare.

«E con l’arnese cosa volevi fare? Dimmelo un po’» chiese lei indagando il mio sguardo.

«Con cosa?»

«Il coltello. Cosa volevi fare con quel coltello?»

«Rompere il telo, tornare a com’era prima».

Le labbra di Andrea divennero bianche. Cominciò a tremare. Poi mi guardò. Ed ebbi la conferma che anche lei aveva attraversato il telo ma, stranamente, non aveva perso la sua consistenza.

Intanto le labbra di Andrea ripresero colore. Smise pure di tremare.

«Tornare a quand’eri bambino? A quando non ti conoscevo neppure?»

«Forse».

«Troppo tardi, bello. Aspettiamo un bambino. Stai per diventare padre!» disse.

Non credo di aver compreso male. Lo disse in tedesco o in qualche altra lingua straniera.

«Sono incinta» ripeté.

E non aggiunse altro.

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