Premio Racconti nella Rete 2024 “Viaggio di ritorno” di Manuela Fabbrini
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2024Ancora poca strada e poi la rivedrò.
È successo tutto così in fretta, che ancora non riesco a realizzare cosa mi abbia portato a intraprendere questo viaggio assurdo, dopo quasi trent’anni di assenza.
Dopotutto, la mia vita, quella vera, si è costruita altrove. Se mi guardo allo specchio, so di avere tutto ciò che si possa desiderare: una cattedra in filologia romanza, una famiglia rispettabile, un’esistenza di continue ascese, conquiste, premi, trofei. Storie immortalate su pagine, pagine rilegate in libri, libri divenuti best seller, interviste, strette di mano; dediche a persone sconosciute, impresse su pergamene ingiallite, improvvisate di corsa alla fermata del treno.
Eppure, senza sapere come né perché, una forza magnetica e soprannaturale mi sta riportando là, come una calamita verso l’assidua ricerca del suo polo opposto.
Percorro le ultime due curve, dopo otto ore di guida ininterrotta e finalmente mi appare di fronte, come una cartolina invecchiata di altri tempi, rimasta prigioniera di una camera oscura.
La mia chiesa. Con la sua inconfodile facciata giallo ocra, il portone verde rigorosamente serrato, che ogni domenica mattina, come consueta tradizione, spalanca le sue braccia ai devoti fedeli.
Il mio campanile, con le sue trame di mattoncini grigi e rossicci. Una sentinella disarmata, che continua incessantemente a scandire il tempo in un luogo in cui il tempo sembra ormai essersi fermato.
La mia Rocca millenaria.
Una fortezza senza guerra e senza guerrieri, che può concedersi ora di riposare in pace sul suo morbido colle.
Una genitrice premurosa, che ogni notte conta le sue rughe per conciliare il sonno dei suoi figli.
Parcheggio l’auto sotto la quercia secolare e mi sporgo per ammirare il fiume. Il suo scorrere placido e silenzioso mi infonde una serenità ignota e familiare al tempo stesso. Il suo letto rassegnato, che pian piano si restringe oltre l’orizzonte, fino a confondersi con il rosa antico del cielo, mi riconnette con una dimensione remota, già vissuta. Mi siedo sulla panchina rossa, ai piedi della grande quercia, e in un istante mi ricongiungo a un bambino dai capelli neri come la pece, la frangia ribelle e gli occhi spalancati e curiosi. Sta camminando lungo il fiume mano nella mano con un uomo e una donna un po’ curvi, con le chiome ingrigite dal tempo. Si ferma di colpo, e raccoglie un sasso piatto. Chiude gli occhi e, con tutto il coraggio che ha in corpo, lo getta nell’acqua scura. Il sasso rimbalza tre volte, come un danzatore inesperto. I suoi sogni volano leggeri, oltre la sponda opposta.
Qualcuno li raccoglierà un giorno. Forse. Chissà.
Riapro gli occhi, mi alzo, e mi volto a sinistra. Vedo un lungo viale alberato, ricoperto di neve. Tre bambini stanno giocando davanti a una casa con la facciata bianca, vicino a una pianta di alloro. La bambina più piccola indossa un cappellino di lana fatto a mano, dal quale fanno capolino morbidi riccioli ribelli. Raccoglie la neve con le mani nude e sorride per una sensazione nuova. Ne fa una palla e punta il viso del fratello maggiore, che abbassa la testa appena in tempo. La neve si infrange nel muretto alle sue spalle. Tutti e tre ridono a crepapelle.
Mi volto a destra e inizio a camminare nella nebbia fitta. In lontananza, avverto un suono primitivo, figlio di in un altro tempo. Quel suono sembra uscirmi dalle viscere e si confonde con i battiti del mio cuore. D’istinto, lo seguo come un sonnambulo in balia della notte, finché non riesco a distinguerlo. Sembra il tintinnio di campanelli. Nella nebbia, intravedo i contorni di un carro, trainato da un trattore, seguito da un corteo di persone. A bordo ci sono bambini, giovani e adulti, che intonano nenie antiche come il mondo. Al centro, una vecchia con la gobba, la scopa e un sacco di iuta pieno di dolciumi e balocchi sembra compiaciuta dai canti in suo onore.
Senza pensarci, seguo il corteo e mi unisco al coro. Sono pervaso da un senso di familiarità e di ritorno nel grembo materno. Fisso quei volti uno ad uno e mi pare di conoscerli tutti, anche se nessuno di loro sembra far caso a me.
Il carro procede lentamente finché non si ferma davanti ad un cancello socchiuso. Mi affaccio per vedere oltre. Sullo sfondo, intravedo un edificio con la facciata decadente, con due rampe di scale che convergono verso un portone accostato. Il cortile di fronte, fatto di prato e ghiaino, accoglie dei piccoli banchetti, per allietare la festa di grandi e piccini. Sono tentato di entrare, per partecipare a questa gioia, che straripa da ogni angolo, dalle mura, dagli alberi. Ma poi mi sento di troppo, faccio un passo indietro e in modo defilato inverto la rotta.
Mentre cammino a passo svelto a testa bassa, con le mani intirizzite dal freddo rannicchiate nelle tasche, sento che l’atmosfera di gioia e calore si fa sempre più lontana. Avverto una sensazione di gelo e solitudine che mi sorprende e mi avvolge come un mantello nero. Mi fermo di colpo, alzo la testa e mi ritrovo di fronte alla chiesa. Il portone è stranamente spalancato, nonostante non sia domenica mattina.
Una folla di persone, con il volto mascherato di tristezza e le vesti scure si annida sugli scalini e nella piazza. Sembra un corteo funebre. I tre rintocchi gravi delle campane rimbombano tra le mura delle case per ricordare a tutti che è il momento delle lacrime.
Varco l’uscio della chiesa e scorgo un feretro, ricoperto da una corona di rose rosse. Di fianco, un bambino girato di spalle abbraccia con fiducioso conforto la sorellina minore, mentre l’altra mano tremante stringe quella di una giovane donna, in piedi vicino a lui.
Il bambino si volta di scatto con gli occhi offuscati di lacrime, fino ad incrociare il mio sguardo.
Mi sembra di conoscerlo. È il bambino del fiume.
D’improvviso, come in un flash repentino, avverto il suo dolore vivo e mi sento parte di esso. Il cuore mi esplode nel petto, esco dalla chiesa ed inizio a correre a perdifiato. Vorrei spogliarmi di questa sofferenza e strapparla dal corpo, ma ormai fa parte di me come un vestito cucito addosso.
Piango senza controllo e senza inibizioni. Mi sento leggero e libero.
Risalgo il ponte e mi dirigo verso la macchina, sotto la grande quercia. La cerco, ma non la trovo. Al suo posto, appoggiata al tronco dell’albero secolare, c’è una piccola bicicletta verniciata di rosso, con un cestino di paglia, contenente una palla a strisce bianche e blu. Mi fermo incredulo e mi guardo intorno, confuso. Da dietro l’albero, spunta lo stesso bambino. Avanza verso di me a piccoli passi, mentre accenna un sorriso di intesa. Il suo sguardo mi penetra dentro, come se mi conoscesse da sempre. Come se fosse parte di me. Di colpo, realizzo che è l’unica persona con cui sono riuscito ad interagire da quando sono arrivato in questo luogo, così familiare ed estraneo al tempo stesso.
Allunga la mano nel cestino, afferra la palla e la getta verso di me, all’altezza delle ginocchia. Di istinto, la paro di tacco e ricambio con un palleggio. Giochiamo come due compagni di scuola in mezzo a una strada deserta, in una dimensione oltre lo spazio e il tempo.
«Come ti chiami?» mi domanda.
«Giuseppe».
«Che buffo, ti chiami come me», risponde compiaciuto.
Mi prende per mano e mi conduce sopra una muraglia calpestabile in cemento armato, che separa il fiume da un canale, contornata da un corrimano di ferro battuto. Mi lascio trascinare lungo questo corridoio surreale, sospeso tra acqua e cielo. Ci fermiamo a metà della muraglia, e ci sediamo su un piccolo terrazzino sporgente, protetto da una ringhiera.
«Venivo sempre qui con mio padre a osservare le stelle. Sai, gli somigli molto».
«Anche tu somigli a qualcuno, ma non riesco a ricordare chi», rispondo di getto.
«Mio padre amava le stelle, e mi portava sempre qui quando ero triste, perché da qui si possono vedere a occhio nudo, senza bisogno di telescopio» mi confida, mentre con il dito indice traccia il contorno del Piccolo Carro.
«Anche mio padre amava le stelle e, come il tuo, mi ha lasciato troppo presto», gli confesso con spontaneità, mentre realizzo dentro di me che questo particolare lo avevo rimosso da tempo.
«Mio padre diceva che ogni stella custodisce un sogno che le viene affidato. Non occorre che cada perché si realizzi, ma è sufficiente avere fede. E crederci».
«Che bella cosa hai detto. E dimmi, i tuoi sogni si sono realizzati?», gli domando con sincero interesse.
«Be’, direi che sono sulla strada giusta. Per il primo è stato piuttosto semplice. Sul secondo, ci sto ancora lavorando».
«Sarebbe bello se tu potessi confessarmeli», continuo fiducioso.
«Certo, come no. Nessuno, ormai, crede più alla storia che i desideri non si possano svelare. Partirò dal sogno su cui sto lavorando…vorrei imparare a raccontare storie. E magari a scriverle, un giorno».
«E quello che si è già esaudito?»
Abbassa la testa, per mascherare il lieve rossore comparso sulle guance paffute.
«Ho imparato ad essere felice», risponde con fermezza.
Lo guardo commosso e mi perdo nei suoi occhi puri.
«Forse sono i miei stessi desideri», bisbiglio con un sorriso accennato. «So scrivere e raccontare storie, mentre sull’altro… ci sto ancora lavorando. Forse».
Alzo lo sguardo verso il cielo dipinto di stelle e ne scelgo una, la più brillante. Mi tuffo nella sua luce bianca, chiudo gli occhi e inizio a nuotare in lei.
«Ora ti devo salutare piccolo. Credo che sia arrivato il momento di ritornare indietro».
Allungo un braccio per afferrargli la mano, ma lui non c’è già più.
Riapro gli occhi e la stessa luce bianca continua ad accecarmi la vista.
«Dottore, dottore, si è risvegliato!».
Lei mi sta tenendo la mano. Incrocio i suoi occhi e percepisco lo smarrimento, la rabbia, la paura. So che vorrebbe gridare, piangere, strapparsi i capelli, ma l’unica cosa che riesce a fare è cingere il mio corpo in un abbraccio senza fine.
«Come hai potuto farlo? Perché?»
«Perdonami amore mio. Ora ho capito tutto. So che non è troppo tardi e che non potrà mai più accadere».
«E come puoi esserne certo?»
Volto il capo, per nascondere il tenue rossore comparso sulle mie guance scavate.
«Ho imparato ad essere felice».
Un andare e tornare della memoria e della vita sugli stessi ineludibili desideri.
Una storia che si sdoppia e si snocciola su uno stesso binario: una memoria che sostiene un amore che, altrimenti, coglierebbe impreparati.
Un racconto che insegna che bisogna sapersi guardare indietro per ritrovare la memoria e, in definitiva, se stessi.
Una storia costruita allo specchio che si chiude su se stessa. Bello come può esserlo il racconto di tanta vita.