Premio Racconti nella Rete 2011 “Nel niente sotto il sole*” di Valeria Minaldi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2011Gli occhi le si aprirono di scatto: la musica della radio-sveglia aveva annunciato le sette e dieci sulle note di “I’ve Got a Life” degli Eurythmics. Con una smorfia infastidita stiracchiò braccia e gambe fino a sentire un leggero scricchiolio dalle ginocchia. La punta del piede sinistro, uscita per sbaglio da sotto il piumone, assunse all’istante il noioso ruolo del termometro. Sforzandosi si alzò piano piano cercando di riprendere i contatti con la realtà. Ancora annebbiata si infilò le pantofoline azzurre mentre mentalmente riordinava i pensieri ancora legati al sogno appena interrotto. Con gli occhi socchiusi si avviò verso la cucina. All’improvviso ad ogni passo cominciò ad accompagnarsi un imprevisto scricchiolio. Le suole delle pantofole si appiccicavano e spiccicavano ad ogni movimento. Nonostante l’intontimento generale immediatamente intuì la natura del problema. La gatta, da qualche parte, aveva spruzzato quel suo fastidiosissimo “umore”. La seconda smorfia percorse il viso addormentato. Arrivò in cucina dove la madre, come ogni giorno, la salutò con “il caffè è pronto!”. Un sorriso di riconoscimento accolse il contatto verbale mentre si allungò verso la guancia del viso noto “buongiorno mamma!Che giorno è oggi?” “Il primo di dicembre!” “Ah!di già?”. Si sedette sullo sgabellino di paglia per cominciare la colazione. Latte,perché il latte fa bene,biscotti e caffè. Come nei primi mattini invernali, la luce non aveva ancora restituito colore alla città. Tutto sembrava riflettere quel senso di “appannato” tipico del risveglio. Gli arti indolenziti da una notte dormita sul fianco si facevano sentire mentre il liquido nero le riscaldava la gola. Apparve il padre che, come ogni giorno, le disse “Guarda che è già tardi!” “buongiorno papà!”. Quando finalmente la colazione ebbe fatto il suo effetto corse in bagno per lavarsi velocemente, si infilò quattro cose stirate giusto per sembrare civile ed, infine, uscì dalla porta di casa per affrontare l’esterno. Nella strada fischiettò allegramente il motivetto della sveglia con un nuovo sorriso tra le labbra che l’accompagnò fino al cancello della scuola da cui da cinque anni entrava. Mentre con lo sguardo ammirava le sue scarpine nuove, raggiunse le scale principali dell’edificio. Incontrò tizio “Ciao!A che piano devi andare?” “Bene tu?” “Ehm anche io…ciao!”. Con il sopracciglio aggrottato, salì a tre a tre i gradini grigi fino ad arrivare proprio davanti alla sua aula. Affannata salutò amichevolmente in una sola volta i pochi compagni già seduti. Ignorò una lite nelle ultime file e si unì alle risate di alcuni vicino alla finestra. I soliti scherzi ovviamente ma lei ormai sentiva di farci più caso. La noia veniva volutamente sostituita dal divertimento effimero. Iniziò la lezione: ecco che saliva la solita ansia snervante per l’interrogazione, ecco la solita rabbia per interventi stupidi ed interessati da parte di alcuni, ecco la solita noia nei tempi morti. Finalmente suonò l’assordante campanella. In un secondo la classe, come sempre, si svuotò del tutto. Scese affamata sopportando divertita, come di norma, le spinte dei frettolosi estranei che, ovviamente, non potevano aspettare un momento di più. Alla luce del sole nel cortile salutò gli amici dietro di lei “A domani!” “A domani!”. Si immerse completamente nella nube degli scarichi cittadini tirando sospiri tesi ad ogni atto incivile dei prepotenti guidatori. Un ragazzetto con la musica a palla, che sentiva l’impellente bisogno di condividere con tutti, rischiò di investirla per una non curanza. Un attimo prima che il semaforo si facesse verde, come puntualmente succedeva sempre, i clacson la invitarono gentilmente a sbrigarsi. Arrivata a casa pranzò con il fratello davanti alla tv: le pubblicità a ripetizione invitarono i due a parlare del tempo nuvoloso. Quando poi iniziò la sigla di un telefilm americano, l’apparecchio venne spento del tutto. Una volta che si fecero le quattro si ricordò d’improvviso la necessità di fare delle fotocopie per l’indomani. Infilò le scarpe e ripiombò nel caos delle strade. In cartoleria ovviamente beccò una signorina dalla congenita incapacità a compiere il suo lavoro ed una cassiera scontrosa e molto minacciosa.
Tornata a casa si dedicò alle equazioni goniometriche chinata sulla scrivania bianca. Ma mentre il seno stava per essere trasformato nel suo equivalente angolo, la suoneria polifonica riempì la stanza della sua melodia.
“Pronto?” “Confermato per le nove al solito posto?” “Certo!Perché no?”.
Alle nove nel suo vestito viola si avviò verso il luogo dell’appuntamento. Le natiche contrite affrontarono la solita porzione di pietra lavica della scalinata dove già gli altri si erano posizionati. Il gruppo entrò facilmente nel momento di massima ilarità e passò così buona parte della serata. “Facciamo qualcosa di nuovo!” “Cosa?” “Andiamo a mangiare messicano!” “Ah!”. Si divertirono a sperimentare piatti dai colori accesi e dai sapori piccanti. Poi si congedarono sorridendo e sbadigliando rumorosamente. Così lei tornò a casa e, dopo le solite procedure di preparazione per il letto, si infilò sotto le coperte. Aprì il libro sul comò e continuò la lettura dal volantino arancione usato come segnalibro. Ma il suo sguardo si fermò su un pezzo: “Magari scopriranno un sesto senso e se ne serviranno per cose mirabolanti, ma la vita resterà sempre la stessa, fatica, mistero e felicità. E fra mille anni l’uomo sospirerà: <Ah, che pena vivere!> ma avrà paura di morire, proprio come adesso, e si aggrapperà disperatamente alla vita.”**
Emise un lungo sospiro e chiuse di colpo il libro. Domani doveva svegliarsi presto: c’era compito.
* da “Non trattare” di Vinicio Capossela
** da “Tre sorelle” di Cechov
Bello il modo in cui descrivi il metodo che noi esseri umani, comuni mortali, ci siamo inventati per rimanere aggrappati alla vita, cioè per sopravvivere: avere così tanti impegni da non poter fermarsi a riflettere mai..perchè se ci soffermiamo a pensare… è finita.
Una storia che potrebbe essere utilizzata in qualche manuale di psicologia sociale come chiosa a corredo della spiegazione del termine routine. Parlo di quella sequenza pressoché invariata di azioni, di procedure, che si susseguono un giorno dopo l’altro con incontrastata, ma forse anche pressoché incontrastabile, monotonia. Insomma il solito trantran che ci illudiamo di modificare, ma che, spesso, ci tiene inesorabilmente imprigionati. Un racconto che è quasi una fotografia