Premio Racconti nella Rete 2011 “Il Giardino” di Giacomo Maria Arrigo
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2011Si ritrovarono nel giardino di una villa abbandonata. Erano tre. Sdraiati per terra, ripresero conoscenza. Dapprima aprirono gli occhi e, quando videro i rami spogli di un albero stagliati contro un cielo nuvoloso, si alzarono improvvisamente. Uno di loro, Cristoforo, si toccò la testa in preda a un forte malore. Il dolore durò un paio di secondi. Dopo si guardò intorno, e l’unica cosa che riuscì a distinguere fu desolazione e tristezza: una villa, segnata indelebilmente dai secoli di vita che si portava dietro, regnava il paesaggio, ed intorno ad essa c’era un giardino incolto.
Gli altri due, Eva e Cesare, appena si destarono, provarono lo stesso malore di Cristoforo. Poi Eva, dopo aver fatto una panoramica generale di quel luogo tetro, fu la prima a parlare, rompendo quel silenzio fastidioso: «Do… dove siamo?»
Cesare aggrottò la fronte. Non disse nulla, si limitò ad inspirare rumorosamente con il naso. Cristoforo guardò dritto negli occhi Eva: non la conosceva, eppure sentiva che l’aveva già vista da qualche altra parte. Disse: «Non lo so. Chi siete voi?» Pronunciò queste parole con una calma quasi innaturale, ma che riusciva ad infondere negli animi della gente una certa serenità.
Cesare assunse un’espressione tipica degli indifesi. «Non ricordo nulla…»
«Neanche io» gli fece eco Eva. «Ho un vuoto di memoria. Mi sento… strana, stordita».
«Già» Cristoforo sospirò. «Lo stesso vale per me. Dove diavolo siamo?»
Improvvisamente una quarta voce si aggiunse nella discussione. Non apparteneva a nessuno dei tre. «Venite qua».
Cristoforo si voltò subito verso l’uomo che aveva parlato. Questi era fermo ai margini del giardino, in prossimità di una arco di pietra ricoperto di piante arrampicanti: al di là di quella soglia c’era l’oscurità più assoluta. Questo nuovo individuo era bianco come un fantasma ed indossava un elegante abito da sera: teneva le braccia raccolte davanti al corpo, e gli occhi, gelidi e completamente inespressivi, fissavano il vuoto.
Cristoforo senza esitare nemmeno un istante si avvicinò all’individuo bianco cenere. «Chi sei?» Dietro di lui sopraggiunsero Cesare e Eva.
L’uomo dall’abito da sera sembrò destarsi da un lungo sonno. Le pupille erano completamente dilatate, e le labbra, viola scuro, erano nettamente in contrasto con il pallore del volto. I capelli arrivavano fino alle spalle ed erano neri come la pece. Aprì la bocca per parlare: i denti erano neri. «Entrate» sussurrò con voce stridula e gracchiante. Indicò l’arco di pietra con un cenno.
Cristoforo esitò. Guardò con un pizzico di timore l’uomo bianco. «Chi sei?» ripeté.
«Sono colui che indica la via. Non mi è concesso varcare questa soglia. Tocca a voi scegliere. Avete due possibilità: stare nel vostro mondo imperfetto, dove la gente lotta per un po’ di serenità e felicità, dove il male è un virus difficile da sconfiggere e la corruzione regna sovrana; oppure varcare questa porta e vivere nel Bene assoluto. A voi la scelta. Io sono colui che indica la via». Detto questo, calò nel più profondo silenzio.
Cesare aggrottò la fronte. Non ribatté nessuno.
Eva balbettò qualche parola incomprensibile, in cui gli altri riuscirono a distinguere solamente “conveniente” e “bene”. Poi, per prima, superò l’arco sormontato da piante arrampicanti. A seguirla fu Cesare. Cristoforo vide i due scomparire nell’oscurità oltre la soglia. Ora era il suo turno. Lanciò un’occhiata all’uomo bianco. «E’ un imbroglio, vero? Il Bene assoluto… Idiozie. Non è così? Uno sporco trucco del Diavolo».
«E se anche così fosse? Siete voi uomini il marcio del mondo, voi, le vostre stupide credenze e la vostra inspiegabile ed insaziabile voglia di conoscenza. Ebbene, vi dico: divertitevi, sguazzate nel Bene, vi concedo l’ultima opportunità. Però all’uscita dal Giardino, dimmi cosa si prova nell’avere tutto perfetto, preciso, incorrotto; dimmi cosa si prova nel vivere nella perfezione a cui voi uomini tanto aspirate. Voi siete animali, ricorda, soltanto animali a cui è stato concesso accidentalmente il dono della ragione, una ragione che proviene dalla dimensione divina e che aspira alla Perfezione inesistente in un mondo sostanzialmente imperfetto. Siete un accidente di Dio». Fece una pausa durante la quale il suo sguardo ritornò atono, privo dell’interesse di cui era impregnato prima: tornò a fissare il vuoto. «Non più altro mi è concesso dire. Entra, io sono colui che indica la via».
Cristoforo scrutò con fare incerto l’arco di pietra. “Il Bene…” La ragione lo spingeva ad entrare. C’era un’attrazione irresistibile fra l’intelletto e ciò al di là di quella soglia. Entrò, lasciandosi alle spalle il mondo.
Riusciva a percepire solo rumori indistinti, ma la vista era totalmente annebbiata. Portò avanti le braccia per evitare di andare a sbattere contro qualcosa. «C’è nessuno?» Brancolava senza una meta nell’oscurità più totale. Fino a quando una luce accecante lo abbagliò: la luce si affievolì lentamente, e l’ambiente circostante si rischiarò lentamente. Ci vollero parecchi secondi prima che la vista di Cristoforo si abituasse all’illuminazione: la prima cosa che distinse fu un albero di fronte a lui. Constatò di trovarsi in un giardino molto grande, di cui non si vedeva la fine all’orizzonte: gli alberi, sparsi qua e là, impedivano con i loro rami e le loro foglie che passassero i raggi solari. La penombra era sovrana. Cristoforo spalancò gli occhi più che poteva. «C’è nessuno?» ripeté a voce più alta.
«Siamo qua» disse una voce femminile. Era Eva.
Cristoforo si affrettò verso una zona seminascosta da due alberi. Là trovò Eva. La donna stava mangiando i frutti che pendevano dai rami di un albero. «Che fai?» domandò Cristoforo perplesso.
Eva non rispose subito: finì di mangiare un’arancia che aveva appena colto e, sazia, si pulì le mani sul jeans. «Mangio. Non hai visto che bel luogo? E’ pieno di alberi da frutta, e tutti sono rigogliosi. E’ un peccato non mangiare».
Cristoforo aggrottò la fronte. «Non capisco… Non sappiamo neanche dove ci troviamo e tu mangi tutto quello che ti capita davanti, indifferente a tutto e tutti?»
In quel momento spuntò Cesare, rimasto nascosto dietro un albero, immerso nella penombra per osservare ma non essere visto.
Cristoforo lo vide con la coda dell’occhio: era sul punto di parlare, ma quando vide che l’altro aveva della frutta in mano si trattenne. Incredibile, pensò, come l’unico che si interrogasse sul luogo fosse lui solo. Indietreggiò lentamente. «Ma perché mangiate?»
Eva, con la bocca piena, pronunciò una frase incompleta e insensata: «E’ buona… mangi… la conoscenza…»
Cesare d’un tratto disse: «Mi sembra di essere morto».
Calò un silenzio tale che si sentiva solamente il rumore delle fronde degli alberi. La discussione stava degenerando nel non-senso.
Cristoforo squadrò l’altro uomo. «Come?»
Cesare, continuando a mangiare come se niente fosse, disse nuovamente: «Credo di essere morto. Per questo sono qua. E di conseguenza siete morti anche voi. E’ semplice. Questo deve essere il Paradiso. Frutta sempre succosa e matura, giardino perfetto… l’unico particolare che non c’entra molto è la penombra, ma per il resto, sono sicuro che questo è il Paradiso».
Eva non mostrò segni di sorpresa, anzi si comportò come se lo sapesse già, come se l’avesse sempre saputo. Continuava a mangiare.
Cristoforo spalancò gli occhi. Paradiso? Era morto? No, no… Eppure aveva intuito vagamente una cosa del genere, sebbene continuava a pensare che quello fosse soltanto un sogno. Sogno o realtà? Illusione onirica o vita post mortem? O nessuna delle due?
Cristoforo si appoggiò ad un albero per non cadere sotto il peso di tal pensiero. Con la schiena aderente alla ruvida corteccia, iniziò a guardarsi intorno per trovare una risposta ai nuovi interrogativi. Inquadrò un frutto pendente dall’albero. Era un fico maturo, che emanava un odore invitante. Allungò la mano per coglierlo.
«Mangia. E’ buono» lo incitò Eva.
Lui staccò il frutto dal ramo. Aveva effettivamente un certo appetito. Già, un frutto non avrebbe fatto male a nessuno. Lo avvicinò alla bocca per dare il primo morso. Non riuscì neanche a toccare con le labbra il fico: Cesare, con un movimento felino non comune in un uomo della sua età, strappò via il frutto dalle mani di Cristoforo e lo mangiò in un sol boccone. Sotto gli occhi increduli degli altri due, Cesare impugnò un resistente ramo di legno e lo tenne davanti a sé con fare difensivo ma nello stesso tempo minaccioso. «Il Giardino è tutto mio. Non azzardatevi a toccarlo. Tutto quello che vedete è mio, solo mio. Andatevene».
Cristoforo rimase fermo con uno sguardo confuso stampato sul volto, invece Eva, seppure prestando ascolto alle parole di Cesare, continuava a mangiare come se niente fosse.
Cesare aveva una strana espressione. I suoi occhi erano spalancati e fissavano il vuoto. Minaccia e follia…
Cristoforo non si mosse e si limitò a guardare l’altro. Si sentì il verso di un gufo nascosto tra le fronde degli alberi. Da quel misterioso giardino, che sembrava un fitto bosco, provenivano strani versi di animali e di insetti, versi misti al rumore delle foglie mosse dal vento. In quel momento sembrò che tutto si fermasse. Tutti trattennero il respiro.
«Ma che dici?» chiese infine Cristoforo, sbloccandosi da quella immobilità. «Cosa dici?»
Cesare mosse il bastone. «Tutti questi alberi, questi frutti perfetti, questo luogo metafisico, è solo mio. Andatevene o vi uccido». Le parole erano ferme, decise, sembravano recitate, come se le avesse preparate in precedenza.
Eva continuava a mangiare. Finito il frutto che aveva fra le mani, si girò verso un albero e ne staccò un altro. Cesare sbarrò gli occhi: velocemente colpì con il bastone il braccio della donna e le strappò dalle mani il frutto. «E’ mio» disse.
Cristoforo fece un balzo verso Eva per sorreggerla. Guardò incredulo Cesare che ingurgitava voracemente la frutta. «Tu sei pazzo» gli disse.
Cesare lo fulminò con lo sguardo. Sollevò il bastone, pronto a colpire. Cristoforo ed Eva si scostarono velocemente e schivarono il colpo, cominciando a scappare da quel folle. Cesare li guardò fuggire e scomparire nell’ombra, ma mantenne quella sua calma apparente. Camminò verso quei due come se avesse a disposizione tutto il tempo del mondo, come se fosse consapevole che da quel giardino non vi fosse via d’uscita.
Cristoforo teneva per mano Eva, quasi trascinandola con forza. Si inerpicava con una certa goffaggine fra i rami, ma riusciva a mantenere una velocità costante. La donna aveva invece cambiato atteggiamento: ora fissava le cose con sguardo spento, come se fosse sotto l’effetto di droghe; accennava qualche sorriso ebete quando riusciva a vedere di sfuggita un frutto maturo ed allungava un braccio per coglierlo, ma, trascinata via da Cristoforo, vedendo che si allontanava dal frutto, assumeva un’espressione triste, malinconica. Fino a quando, con una vigorosa spinta, si liberò dalla presa dell’uomo. Cristoforo si fermò e fissò la donna, confuso. Disse: «Andiamocene. Quel pazzo ci vuole uccidere». La sua voce aveva un’inflessione di disperazione.
Eva storse la testa. «No. Questo posto è bello, troppo bello». Aveva la stessa voce di Cesare, cantilenante: Cristoforo pensò che non fosse lei a parlare, ma che un’entità misteriosa si fosse impossessata del suo corpo. La donna continuò: «Questo luogo è perfetto. Questo luogo è mio». Detto ciò, si abbassò per raccogliere una pietra. Cristoforo intuì le sue intenzioni: l’avrebbe scagliata contro di lui. Indietreggiò lentamente e poi prese a scappare correndo.
Eva lanciò la pietra ma ormai il bersaglio era troppo lontano. Improvvisamente, come se si fosse destata da un lungo sonno, colse una mela da un albero e la addentò. E proprio in quell’istante apparve Cesare. «Cosa stai facendo?» le chiese con fare minaccioso.
Eva lo trafisse con uno sguardo pungente. «Vattene da qua. Tutto questo è mio».
Cesare strinse con maggiore forza il bastone nelle mani. «Ti sbagli. Sono io il padrone di questa terra».
I due si guardarono con aria di sfida. E contemporaneamente, Eva con un sasso e Cesare con il bastone, si colpirono a vicenda. Caddero a terra, privi di vita, morti in un angolo dell’universo, riflesso di un altro riflesso, gioco di specchi, illusione eterna nello spazio infinito.
Cristoforo si accasciò su un albero. Era sfinito. Si guardò indietro. Si chiese cosa mai fosse successo a Eva e Cesare. Sembravano impazziti senza motivo, corrotti nell’animo da quel luogo.
Staccò da un ramo una mela. Non aveva ancora mangiato nulla. Dapprima la odorò e il profumo inebriante gli aumentò la fame. Portò il frutto alla bocca e lo morse. In quel momento gli apparve chiaro tutto quanto.
Aveva la risposta a tutte le domande. Chi è Dio? Chi ha creato l’universo? Quando è stato creato? Esistono il Bene e il Male? Che senso ha la vita dell’uomo? Queste e altre domande si accavalcavano nella mente di Cristoforo, e lui aveva la risposta a tutto. In quel momento era l’essere più potente di tutto l’universo ed era consapevole di esserlo.
Alzò le braccia al cielo. Tutto era suo, tutto gli apparteneva. Sapeva tutto riguardo gli alberi, i frutti, il cielo, la terra, i fiori, l’aria… Conosceva tutte le leggi che regolano la natura e conosceva anche le cause e i fini di tali leggi. Ma, nonostante tutto, era un solo puntino insignificante in un universo sconfinato. Poteva sconvolgere il corso della Storia, ma, paradossalmente, non aveva minimamente idea di dove si trovasse. Conosceva la posizione esatta della Terra nell’universo, ma, pur sforzandosi, non riusciva a capire dove si trovasse lui. Quel misterioso giardino in cui era capitato non appariva nella cartina geografica dell’universo: sembrava essere fuori dallo spazio, in un luogo metafisico a lui imperscrutabile. Quel giardino era una prigione.
Cristoforo mangiava con ingordigia. Sbarrò gli occhi. La rabbia lo accecava. Che scherzo era mai questo? si chiese. Non sapeva dove si trovava, ma conosceva tutto l’universo… Staccò dagli alberi più frutti che poteva e li mangiò velocemente. Doveva sapere, doveva conoscere. Forse uno di quei frutti conteneva l’ubicazione esatta del Giardino e l’uscita da esso.
Lanciò un grido disumano. Continuò a mangiare senza sosta, accecato dalla rabbia, corrotto dalla conoscenza, triste, disperso nell’infinito, solo.
Fuori dal Giardino, l’uomo bianco rideva silenziosamente. E, ridendo, si trasformò in un serpente.
Ho letto il tuo racconto e mi è venuta una grandissima ansia: che strano posto è questo Giardino? Non riesco davvero a concepirlo, distante com’è dall’idea del Paradiso di chi crede in Dio, ma anche da un “paradiso ateo” di scienza e conoscenza assoluta a cui può aspirare chi crede solo in ciò che tocca e sperimenta. Descrizione e narrazione decisamente inquietanti…Credo che nessuno di noi, una volta morto, possa scegliere in che direzione andare…Il libero arbitrio appartiene ai vivi e secondo me il bene è un tesoro che ti costruisci dentro giorno per giorno con le tue azioni, non qualcosa di esterno a te di cui ti puoi impossessare a discapito di qualcun altro…Per questo nessuno te lo può portare via…
Questo luogo è ovviamente parente prossimo del giardino dell’Eden, è una sorta di sua inospitale succursale (o forse è la sede centrale? Chissà).Come l’apparentemente idilliaco ambiente primordiale però, è governato dalla stessa regola: più sai, più sarai condannato all’infelicità. Non ho mai capito il perché di questa logica punitiva rispetto al bisogno di apprendere degli esseri umani. Forse perché la gerarchia che ci sovrasta non vuole concorrenza e la conoscenza deve rimanere appannaggio di pochi?Giacomo sa riportarci ai nostri primi dubbi esistenziali circa ferree e dogmatiche regole. Una preghiera al proprietario del latifondo: occorre cambiare il custode, quello in servizio è viscido ed inaffidabile.