Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2023 “Tempo di Pace” di Arturo Tripiciano

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2023

E. Toussaint sedeva con il capo chino e le gambe incrociate, la schiena poggiata sul tronco della grande quercia che si ergeva sulla cima della collina, sotto un cielo di azzurro assoluto. Se solo avesse alzato di un poco la testa, da lì il suo sguardo avrebbe potuto spaziare su tutto l’accampamento che si allargava nella pianura sottostante, e poi ancora più in là verso Sud, oltre i colli e le foreste dell’Alvernia, lontano oltre il Rodano scintillante, fino alle Alpi che andavano sfumando in lontananza, le cime aguzze ancora innevate in quella mattina di primavera. Era il venti di Aprile -o, come si sarebbe detto fino a un paio d’anni prima, Greffoir, l’ultimo giorno di Germinale-. Tuttavia, non erano né lo splendido panorama indorato dal sole del mattino, né tantomeno particolari riflessioni di ambito calendaristico a interessare la mente di Toussaint. Ciò a cui continuava a pensare, senza sosta e senza riposo, era che questo venti di Aprile sarebbe stato il giorno della sua morte.

Era successo la notte scorsa,  ma i ricordi erano fragili e sfocati. Nel richiamarli, a Toussaint sembrava di dover mettere insieme forme riflesse sulla superficie increspata di uno stagno: c’erano sprazzi, immagini e suoni che si sovrapponevano, ma ciò che mancava era l’ordine, e la calma per avere una visione d’insieme. C’era la sala buia e fumosa, illuminata a stento dalle braci del camino e da qualche candela, di una taverna della periferia di Langeac. C’era il volto di una ragazza (gli sembrava di averla già vista, forse in giro per il campo). C’era della musica, e delle canzoni roche che cantava stonato insieme agli altri ufficiali. Aveva bevuto troppo,  come al solito. Negli ultimi mesi, beveva sempre di più. Le rare volte in cui si soffermava a pensarci, nelle mattine in cui la testa gli doleva in maniera veramente insopportabile, solitamente dava la colpa alla pace. Toussaint aborriva la pace, perché era in quegli interminabili momenti di attesa e torpore che i ricordi della guerra lo raggiungevano strisciando insieme alle ombre della sera. Lo raggiungevano i campi disseminati di corpi di Ulm e Austerlitz, Eylau e  Schöngrabern, le urla e i volti dei soldati, l’odore della morte.

Della guerra aveva paura, ma la pace lo terrorizzava. E ora che le firme di Tilsit e Poznan avevano consegnato all’Imperatore la sua ultima vittoria, quell’inferno silente aveva di nuovo avvolto Toussaint come un sudario.

Così, la sera prima aveva bevuto troppo, e qualcosa era andato storto. Cosa, esattamente, continuava a sfuggirgli. Ricordava però il volto pieno d’ira del Catalano, a un palmo dal suo, e gli altri ufficiali che a stento riuscivano a trattenerlo. Doveva averlo insultato da ubriaco, o forse aveva insultato la sua famiglia, o il suo paese. In ogni caso, l’aveva offeso profondamente, ed erano usciti sulla strada barcollando. Lì, quando il Catalano si era visto negato dall’intervento dei loro commilitoni la vendetta mediante la più diretta via della rissa, l’aveva sfidato ad un duello di pistole da tenersi all’indomani.

Toussaint, traboccante di vino e fiducia, aveva accettato.

Seduto sulla cima del colle, appoggiato alla grande quercia, teneva tra le mani una pistola, e tremava. Era la sua pistola da ufficiale: il marchio di fabbrica recitava “Manifatture Imperiali di Charleville”. La osservava, cercava di memorizzarne ogni più piccolo dettaglio, ogni graffio e ogni decorazione in maniera ossessiva.  Era più piccola e leggera di quella che avrebbe usato nel duello, più rozza. Toussaint possedeva un paio da pistole da duello: grandi, pesanti e finemente decorate con motivi classici, erano un regalo di un suo vecchio amico, ma non aveva mai seriamente pensato che un giorno avrebbe potuto averne bisogno. Non che potessero essergli d’aiuto, ora, riposte al sicuro in un’elegante scatola di noce nella sua casa a Parigi -tanto grande quanto fredda e solitaria- a quattrocento chilometri di distanza.  No, per il duello avrebbero usato le pistole del Catalano. Toussaint ripose l’arma, e si prese la testa fra le mani.

Al limite del suo campo visivo, scorse una figura muoversi alla base della collina. Il cuore gli balzò in gola, poi riconobbe che si trattava di Courbet, il suo secondo. Un vento freddo aveva iniziato a spazzare la pianura, e l’uomo incedeva stringendosi nel mantello e reggendosi il cappello per non farlo volare via.

Quando l’uomo lo raggiunse, Toussaint alzò lo sguardo. Doveva avere un aspetto miserabile, perché Courbet lo squadrò da capo a piedi, e poi gli chiese se avesse dormito affatto quella notte.

Senza riuscire a parlare, Toussaint scosse la testa.

L’altro lo guardò con aria grave. “Mi hanno mandato a riferirti il regolamento,” disse.

Toussaint lo guardava con espressione vuota, al che Courbet proseguì.

“La disputa si terrà alle tre del pomeriggio. Inizierete schiena  a schiena, e la distanza proposta è di dieci passi. Nel caso in cui entrambi i contendenti manchino il bersaglio, le pistole saranno caricate nuovamente e avrà luogo un nuovo scambio, fino ad un massimo di tre volte in totale. Allo stesso modo, lo sfidante si dichiarerà soddisfatto nel terminare la disputa al primo colpo andato a segno.”

Ci fu un momento di silenzio.

“Toussaint,” disse Courbet, “ora dovresti dirmi se sei d’accordo con questa proposta, o se hai intenzione di presentare un’alternativa.”

Toussaint sentì la bocca aprirsi,  ma la voce rimase dentro. Annuì.

“Sì, cosa?” chiese Courbet, confuso.

“Sì… accetto le condizioni.” Ogni parola aveva richiesto uno sforzo immane.

I due rimasero in silenzio, mentre il vento soffiava ancora più forte, portando sulla collina l’odore dei fuochi che i soldati all’accampamento iniziavano ad accendere. Courbet si aggiustò i baffi, con aria imbarazzata.

“Non hai mai partecipato a un duello, vero?” chiese infine.

Di nuovo le parole erano bloccate, di nuovo Toussaint scosse la testa. Non conosceva bene l’altro uomo, e aveva l’impressione che si fosse proposto di fargli da secondo più per pena che altro.

“Beh,” continuò quello. “È una faccenda breve, soprattutto con le pistole. Finirà subito.”

La cosa non lo rassicurò per nulla. Conosceva la fama del Catalano. Della carriera che nella Grande Armée Toussaint aveva fatto grazie alla sua ricca famiglia, lui ne aveva sudato ogni passo con fatica e determinazione. Era un luogotenente giovane, appena promosso, con un temperamento focoso come il sole che ardeva nella sua terra natìa.

Quello, e al contrario di Toussaint, una mira eccezionale.

Era questo che lo spaventava più di ogni altra cosa. Non l’attesa del duello in sé, ma la consapevolezza di essere completamente superato in quanto a capacità. La sensazione che aveva di star camminando verso un’esecuzione si era annidata sul fondo del suo stomaco ed era sempre più pesante con ogni minuto che passava.

“Dimmi, Courbet,” trovò la forza di mormorare. “Tu credi che possa farcela?”

Courbet gettò uno sguardo veloce verso l’accampamento, poi si rivolse a lui. “Senti,” disse, “non dovrei darti consigli, ma ascolta. Quell’uomo è un diavolo con la pistola, e non mancherà il bersaglio,  questo posso assicurartelo.”

Toussaint sentì una stretta di ferro chiuderglisi sulla gola.

“Però,” continuò l’altro, “è anche superbo e arrogante. Sa che sei spaventato, e si aspetta che sparerai alla prima opportunità. Non colpirà per primo: vorrà prima vederti sbagliare. Puoi avere un attimo -il tempo di un battito del cuore, bada- in cui aggiustare la mira. Lo prenderà alla sprovvista, e quella sarà la tua opportunità, capito? Colpisci per primo, ma al momento giusto.”

Toussaint annuì.

“Ora devo andare, buona fortuna,” disse Courbet facendogli un cenno col capo, e iniziò ad incamminarsi verso l’accampamento.

Quando vide che l’uomo si era allontanato abbastanza, Toussaint lasciò uscire un lungo sospiro. Aveva nel petto una sensazione indecifrabile. Il consiglio l’aveva rincuorato, ma ora che si rendeva conto di avere una possibilità, sentiva anche l’obbligo schiacciante di dovervisi attenere: non poteva più nascondersi dietro la certezza di essere già morto.

Trasse un profondo sospiro, si alzò, e lasciò vagare lo sguardo. Prima in lontananza, sui profili lontani delle montagne che svanivano man mano nell’azzurro del cielo, e poi più vicino, tra le tende del campo. Un gruppo di tre individui, presi da una conversazione di fronte a uno dei padiglioni che sorgevano vicino alla base del colle, attirò la sua attenzione. Anche a quella distanza, riconobbe immediatamente il Catalano, dai ricci neri e carnagione olivastra. Stava parlando con due sottotenenti di cui non ricordava il nome, presenti la notte precedente nella taverna, quando uno di essi fece un gesto verso la collina.

Il Catalano si voltò, e il suo sguardo incontrò quello di Toussaint.

All’inizio pensò di essersi sbagliato, dovevano trovarsi a più di cento metri di distanza, non era possibile. Eppure, aveva la sensazione che gli occhi scuri del Catalano fossero piantati dritti nei suoi.

Toussaint sentì l’anima distendersi.

Non riusciva  più a muoversi.

Il vento smise di soffiare, o forse ne dimenticò il suono.

I limiti della sua visione divennero tremuli, mentre ciò che guardava era messo a fuoco alla perfezione.

Annaspava, non riusciva più a respirare.

Lo vedeva, era lì davanti a lui.

Vedeva lo sguardo fatale e ineluttabile, scevro di qualsiasi forma di pietà e di risentimento.

Toussaint iniziò a tremare. Era prigioniero di quell’attimo, inchiodato sulla cima della collina dal tempo immobile che si rifiutava di lasciarlo andare. Non poteva gridare, non poteva fuggire, poteva solo continuare a fissare all’infinito quegli occhi che promettevano morte.

Uno sguardo pieno di tutto ciò che a lui era sempre mancato.

Ma se il tempo era immobile, il suo cuore non lo sapeva, e batteva furiosamente. Sempre più forte, mentre il panico montava, sempre più veloce, più assordante, nel petto e nella testa. E all’improvviso non era più il suo cuore: era il rombo delle batterie di cannoni, il crepitio delle scariche di moschetto, il fragore delle  grida  di uomini che si confondevano con il nitrito selvaggio dei cavalli.

Un’immagine gli si parò davanti agli occhi, reale tanto quanto lo era stato Courbet poco prima.

Austerlitz. Un corazziere a cavallo, con la sciabola sguainata, incedeva al passo a fianco della sua compagnia. Nel caos senza fine della battaglia, il fischio improvviso di una palla di cannone. Il cavaliere veniva centrato in pieno petto, passato da parte a parte, l’armatura squarciata come un foglio di carta. Con un buco nel torace grande quanto la sua testa, l’uomo scivolava dalla sella, rovinando a terra senza emettere alcun suono, mentre i soldati continuavano a marciare.

E poi, di nuovo, tornarono gli occhi del Catalano. Ora, Toussaint era certo nella maniera più assoluta che lo stesse guardando davvero.

Quell’attimo, durato quanto l’eternità, passò.

La sua mente, già fragile, andò in frantumi. Ogni pensiero razionale era scomparso. Il prezioso consiglio di Courbet, disperso come cenere. Anche la paura aveva cambiato forma.

Toussaint era finito. Ogni volontà di opporsi, finita. La salvezza non era che un ricordo lontano, dopo aver incrociato quello sguardo. Lo sguardo che quel pomeriggio si sarebbe posato sul suo cadavere. Senza dubbio, senza scampo. Aveva perso il duello.

Vacillando, fece un passo. Aveva le vertigini, quasi cadde a terra.

Nella sua mente, c’era solo una cosa che potesse fare ora. Solo una cosa l’avrebbe salvato, solo una cosa avrebbe potuto liberarlo.

Con il cuore che continuava a martellare e il respiro boccheggiante incominciò a discendere la collina, incespicando. Aveva gli occhi sbarrati, e sentiva il sudore colargli sulla fronte e lungo la schiena. Sembrava uno di quei fantasmi, superstiti per puro caso, che barcollanti si aggiravano per il campo di battaglia coperti di sangue e fuliggine, con lo sguardo vuoto.

Giunse all’accampamento e percepì appena su di lui sguardi allarmati. A pochi passi di distanza, il Catalano e i due ufficiali.

Uno di questi cercò di fermarlo, dicendo qualcosa che Toussaint non percepì appieno. Cosa fai, non puoi stare qui, devi mandare il tuo secondo.

Nuovamente, il Catalano si voltò verso di lui, nuovamente Toussaint si trovò sotto il peso inesorabile dei suoi occhi.

“Sei venuto a implorare pietà, per caso?” chiese quello, sprezzante.

C’era solo una cosa che potesse fare, ora. Solo una cosa che potesse liberarlo.

Rantolando, senza rispondere, Toussaint estrasse la pistola, gliela puntò al petto, armò il cane e tirò il grilletto.

Una deflagrazione, e poi grida ovattate. Braccia che lo afferravano, che gli toglievano l’arma fumante dalle mani.

In tutto questo, non staccò mai gli occhi da quelli castani del Catalano.

Si spensero in un istante, mentre l’uomo cadeva, ma Toussaint ebbe l’impressione che dietro di essi fosse passata l’eternità.

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