Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2023 “Mustafà” di Luisa Patta

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2023

«Arriva Mustafà!» La sua voce è un caldo benvenuto al profumo di spezie e passo lento, che affonda nella sabbia. Mustafà, un uomo del Senegal dall’età indecifrabile e i denti ormai radi, è per noi uno di famiglia.

Lo conosciamo da vent’anni, da quando io ero poco più di una ragazzina e mio padre era ancora un gran chiacchierone. In tutti questi anni, mentre la nostra famiglia cresceva, lui ha continuato a solcare la sabbia cocente. Avanti e indietro, incessante come il moto del mare. Da destra a sinistra, da sinistra a destra. Nel nostro immaginario lui rimane sempre qua, sul palcoscenico d’arenile.

Invece Mustafà migra, come gli uccelli migratori. D’inverno torna in Senegal dalla sua famiglia, che d’estate diventa solo parole e mancanza. Toglie i carichi dalle spalle e le cianfrusaglie dalle tasche. A Dakar, la sua città, lo aspetta una stagione da pescatore al largo o da conciatore di pelli. Poi, ogni estate, ritorna a calcare le sue orme stanche sulla sabbia. Noi al riparo sotto l’ombrellone, lui ambulante come sempre.

Ondeggia, sommerso di teli, bracciali, cavigliere, maschere tribali e una pila di cappelli in testa, che a ogni passo allunga e accorcia la sua ombra, come una fisarmonica. Noi prima di tutto vediamo il suo sorriso, un tempo bianchissimo, ora un po’ sdentato. Ma sempre sorriso.

«Arriva Mustafà!», la sua voce è sempre più vicina e si fa largo tra le onde e il vento. Noi ci prepariamo ad accoglierlo sul nostro telo, nella nostra ombra, come fosse casa. Perché Mustafà è uno di famiglia. Gli chiediamo dei suoi cari lontani, della moglie, dei figli, di come se la passano in Senegal. Lui si inginocchia, appoggia i teli e toglie dalla testa i cappelli, mostrando la nuca di un nero lucente. «Aici aici», dice – che in sardo significa così così – accompagnando con i gesti le parole. Il suo italiano è buono, ma spesso risponde usando il dialetto. Forse è qualcosa che lo fa sentire uno di noi, ancor più di quando parla in italiano. Lo si intuisce dal leggero ghigno che gli ammorbidisce il volto, scavato, asciutto. Gli offriamo acqua, frutta, yogurt. Lui è di un’educazione elegante e compassata che ti fa dimenticare il rito della compravendita e tutto il resto, e lo vorresti a tavola con te. Per quel gioco delle parti che non esiste. Mustafà ricambia le domande, si interessa di noi, di tutta la parentela della nostra grande famiglia e ogni anno fa l’appello. Chi manca? Chi c’è? Chi arriva? Chi parte?

Negli anni la famiglia è cresciuta e oggi anche i miei figli sono amici di Mustafà. Lo aspettano, lo salutano ogni volta, anche se lo vedono passare venti volte al giorno davanti all’ombrellone. Il saluto a Mustafà è un rito, scandisce le giornate. «Mustafà non riposa mai? Non sente caldo? Non si brucia i piedi? Non va mai a fare il bagno?» Mi domandano, preoccupandosi per lui.

Stasera, mentre andavamo a prendere un gelato, appartato dietro il chiosco, abbiamo visto Mustafà. Era in terra, ma non stava vendendo, i teli erano accatastati poco lontano. Mia figlia lo ha notato subito.

«Mamma, guarda, Mustafà sta facendo yoga.»

Io le ho sorriso e ho pensato a quanto sono buffe le intuizioni dei bambini.

«No, amore, Mustafà non sta facendo yoga. Sta pregando.» Le ho sussurrato, per non disturbare il raccoglimento di Mustafà.

Poi, ancora con il sorriso sulle labbra, ho capito che a farmi sorridere non sono le intuizioni dei bambini, piuttosto la loro straordinaria capacità di riconoscere e interpretare la realtà, partendo dai pochi elementi che padroneggiano.

«Cosa vuol dire pregare?»

«Pregare significa parlare con Dio», le ho risposto.

«Perché lo fa in terra? Sembra che fa ginnastica!» ha continuato lei, buttando il passo avanti e l’occhio indietro, verso Mustafà.

«Nella sua religione, che si chiama Islam, si prega in questo modo. E il suo Dio si chiama Allah.

Sai, non esiste solo una religione nel mondo. E non esiste solo un Dio. Ne esistono molti.»

«Certo mamma, ognuno può dare un nome diverso al suo Dio. Io il mio lo chiamo Angelo, come gli angeli. Perché mi piacciono gli angeli, hanno le ali. Come si chiama il tuo Dio?»

Io non le ho risposto.

Mi aspettavo la solita conversazione su quale gelato avremmo scelto. E invece ero lì, tra lo sguardo curioso di mia figlia e la preghiera intima di Mustafà. Due immagini in apparente contrapposizione che, senza parlarsi, dialogavano tra loro. La mia mente si è allontanata. In quei pochi passi che mi dividevano dal chiosco ho percorso territori sconfinati, ho pensato alle religioni, alle culture, alle forme di tolleranza, al rispetto tra i popoli.

Ci siamo sedute al tavolo, io e la mia bambina, con il gelato in mano. Nella quiete dei suoi silenziosi morsi al cremino, i miei ricordi hanno cominciato a fluire. Ho iniziato a raccontarle del primo viaggio in cui ho incontrato l’Islam. Lei, al mondo da quattro anni, ascoltava. Io, al mondo da trentasette, raccontavo. Che forse è il mio unico modo per rispondere alle sue domande. Le ho parlato della Giordania, del richiamo del muezzin, dei tappeti nelle moschee, del profumo di cumino, dei suk già affollati di primo mattino, di qualcosa che sembra così lontano, ma in realtà è più vicino di quanto immaginiamo. Lei spalancava la bocca, sgranava gli occhi, domandava. E penso che mi abbia capito.

«Guarda mamma, Mustafà ha finito di pregare. Vado a salutarlo!» mi ha detto mia figlia, correndo verso il mondo a braccia aperte, come una rete pronta a raccogliere tutto.

Ad accoglierla, il bianco sorriso sdentato di Mustafà.

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1 commento »

  1. Un bel racconto, che ha il pregio di descrivere con leggerezza, ma non superficialità, un particolare personaggio e l’incontro tra culture e tra culture e generazioni.

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