Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2023 “Quell’immane dolore” di Antonio Coppola

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2023

   Restava affacciata per ore fuori dal cortile. Con una mano appoggiata al muro e l’altra sul fianco destro guardava su verso Largo Costantinopoli e poi giù verso Palazzo Strafella. Con lo sguardo abbracciava, speranzosa, tutta via de le sterne. Sarebbe passato di là. Doveva per forza passarci a meno che non avesse imparato a volare. Come quella volta che col padre anziano andò a Lecce.

   “Guarda, tata, andiamo a 150 all’ora.”

   Gli occhi del padre diventarono una stretta fessura mentre serrava le mascelle.

   “A 150 all’ora” ebbe a commentare poi il padre “se uno pneumatico ti scoppia sei bell’e spacciato.

   Se lo scopo era stato ingenuamente quello di stupirlo con effetti speciali, beh, non era stato raggiunto.

   Il padre, infatti, non aveva apprezzato mentre lui credeva di volare. Ma qui, su via de le sterne, non si può andare a 150 all’ora. A dirla tutta, è anzi meglio andare a piedi. E allora lo avrebbe sicuramente visto passare. Cosa le costava aspettare? Nulla. Solo quelle continue ed incontrollabili scariche di adrenalina come un innamorato che non vede l’ora e nello stesso tempo ha paura d’incontrare la persona amata, interrogandosi sulle cose da dire e su quelle da tacere.

   E poi il cuore in tumulto prima o poi si sarebbe placato come ogni temporale, come ogni tempesta.  Lei avrebbe aspettato guardando i bambini giocare per strada, inseguire le rondini nel loro volo radente fin quasi a sfiorare l’asfalto, ruzzolare per terra e prontamente rialzarsi con le ginocchia sbucciate. Avrebbe visto tornare il vicino con il suo scirabbà facendo schioccare la lunga frusta vicino alle orecchie del suo cavallo affaticato. Avrebbe visto lo stesso scavezzacollo sopraggiungere fischiettando con la sua bicicletta, pedalando in fretta e facendo lo slalom per strada scatenando le vibranti proteste delle comari che tornavano dalla fontana con le capase traboccanti d’acqua.

   Soprattutto avrebbe visto sopraggiungere le prime ombre della sera e laggiù scorgere la figura del marito che tornava a casa a passo spedito. Poteva aspettare ancora.

   Chissà. Di là sarebbe passato prima o poi. Suo marito? Lui sarebbe rientrato a casa, si sarebbe seduto al piccolo tavolo da cucina e avrebbe trinciato un panetto di tabacco da fumare il giorno dopo.

   “Credi che passerà?

   Suo marito si limitò ad un’indifferente alzata di spalle.

   Suo figlio era tornato dalla Svizzera da tre-quattro giorni. Aveva cominciato il rituale giro per salutare i parenti. Le sorelle, il fratello, gli amici.

   La vecchia madre aveva cominciato ad aspettare, fiduciosa, dal primo giorno, da quando aveva saputo del suo arrivo. Ed ogni giorno si affacciava dal cortile sperando di vederlo comparire con quell’andatura così simile alla sua. Ma fino a quel momento le sue speranze erano andate deluse. Lui non era passato a salutarla. Naturalmente avrà avuto i suoi impegni. Non poteva certo aspettarsi che, appena tornato al paese, si fiondasse a casa degli anziani genitori. Ma alla fine sarebbe passato, no? Ecco perché aspettava. Era sicura che non sarebbe ripartito senza salutare. Eh no, che non sarebbe successo. 

   E invece, adesso, mentre aspettava, un tarlo fastidioso le si era insinuato nella mente e nel cuore diffondendo una terribile sensazione di gelo in tutto il corpo.     

   Il cielo si era pian piano riempito di stelle mentre lassù una luna rossa come fuoco pareva voler imitare il sole appena tramontato.

   Ecco che cominciavano ad accendersi i lampioni diffondendo per strada la loro luce incerta. Ecco i primi pipistrelli svolazzare nel buio seguendo imperscrutabili traiettorie, mentre la gente alla spicciolata cominciava a uscire per strada trascinandosi dietro una sedia impagliata o uno sgabello di legno per godersi il fresco della sera. La gente sapeva. La gente mormorava. La gente la compativa. La salutava. Lei rispondeva al saluto.

  “Bonasera, cummare”

 “Bonasera cumpare”.

  E intanto lo sguardo continuava a vagare da largo Costantinopoli al Palazzo Strafella, temendo quasi le sfuggisse un movimento o quel suo modo di camminare. No, quella sera non lo avrebbe visto. E allora sarebbe rimasta ad aspettare l’indomani e gli altri giorni ancora fino a quando non fosse ripartito.

   “È passato prima del tramonto ma non si è fermato a salutare.”

   “L’ho visto entrare da sua zia C…”

   “Come? È andato dalla zia e non da sua madre?

   “Chissà se lei lo ha visto passare!

   “Forse no, ma continua ad aspettare.”

   “Sono tre giorni che resta lì in attesa fino a quando non fa buio.”

   “Ecco, adesso rientra…”

   “Povera!
   Era rientrata a casa triste e delusa, battendo le mani sulla vantili, come per scuoterne la polvere. Una volta in casa, spostò e rimise a posto le sedie vicino al tavolo da cucina. Passò in rassegna il pesante telo di cotone che copriva il focolare, le pennele di pomodori rossi e gialli appese appena sotto la scanzia su cui erano riposte, rosse e lucide, le bottiglie di vetro colme di salsa per l’inverno. In quella casa lui era cresciuto. Tante e tante volte l’aveva aiutata a tenere ben teso il grosso spago su cui venivano appesi i pomodori d’inverno, o a togliere il picciolo, a lavare e schiacciare i pomodori maturi per farne una densa e rossa salsa aromatizzata con cipolla e foglie di basilico profumato.

   Sospirò. Mille interrogativi le si affollavano nella mente. Perché? Perché? Perché? 
   Il figlio di comare C. le aveva detto di averlo visto. 

   “Davvero, figlio mio? Sei sicuro?

   “Sì che sono sicuro. Era proprio lui. L’altra volta mi ha regalato la cioccolata.”   

   “Hai visto dove andava?

   “L’ho visto entrare nel cortile della nunna C.

   Sua cognata. Dalla zia sì, dalla madre no. Ed allora restava lì 
ad aspettare. Prima o poi sarebbe uscito. Si sarebbe diretto su verso Largo Costantinopoli o giù verso Palazzo Strafella. E se si fosse diretto giù, sarebbe passato di lì e lei lo avrebbe fermato e lui si sarebbe dovuto fermare. Non avrebbe proseguito facendo finta di non vederla. Eppure… Era trascorso l’intero pomeriggio. Era sopraggiunta sera ed ora era notte. Di lui nessuna traccia. Colpa sua, era stata disattenta. Sarà uscito e si sarà diretto a casa del fratello. Non può essere stato che così. Si stava accingendo ad andare a letto. La sua povera veste ordinatamente ripiegata su una sedia. Il marito che continuava a fumare la sua pipa seduto sullu limmatare mentre una piccola radio gracchiava le sue notizie faziose ed improbabili.

   Guardò la finestra lassù. Ora la luna era candida e luminosa. Nella piccola stanza s’era diffuso un chiarore argenteo che proiettava piccole ombre sulle pareti. Mormorò una preghiera guardando le foto dei defunti sul comò. Loro sapevano.  Non avrebbe smesso di aspettare. Proprio come alcuni anni prima quando violente e dolorosissime coliche ne avevano imposto il ricovero in ospedale. Calcolosi renale. Fu necessario un intervento chirurgico. Tutti i figli le si strinsero attorno. Ne mancava uno, il suo primogenito. Lei lo cercava spasmodicamente con lo sguardo. Chiedeva agli altri figli se avevano sue notizie.  Lui, il suo amatissimo primogenito, aveva fatto sapere che non poteva muoversi, che non sarebbe andato a trovarla e a starle vicino, che solo in caso di morte sarebbe tornato.

   Lei aveva pianto stringendo nervosamente il cuscino ma era riuscita a farsene una ragione giustificandolo e proteggendolo dalle critiche degli altri suoi figli alquanto contrariati. 

   Evidentemente non era stato proprio possibile ottenere un breve permesso dal datore di lavoro. Che volete? Poteva darsi il caso che ci fosse troppo lavoro e lui, figli miei, era lu cheffu, il responsabile. Da lui dipendevano direttamente diversi lavoratori. E lui ne rispondeva al datore di lavoro. Altrimenti, sì che sarebbe tornato in Italia, sarebbe andato a trovarla, figuratevi!

   Con quello stato d’animo e convinta delle buone ragioni dell’unico figlio assente, aveva affrontato il temuto intervento chirurgico. Era stata dimessa dall’ospedale. Si era ripresa. L’episodio era stato dimenticato. Ma ora? Ora cosa poteva giustificarne il comportamento? Era andato a trovare zia C., sua cognata, ad appena settanta metri di distanza. Lì era andato suo figlio. Lei lo aveva aspettato tutto il pomeriggio e fino a sera. Lui non si era fatto vedere né sentire.    

   Non riusciva a spiegarselo. Né intendeva parlarne con suo marito che l’avrebbe immancabilmente investita con una delle sue filippiche risentite e rancorose. 
Lui intanto era rientrato. Aveva chiuso rumorosamente la porta di casa. Tossiva e imprecava. Imprecava e tossiva, riacquistando fiato sufficiente solo per dire:

   “Maledetti americani. Sporchi capitalisti ed imperialisti. Porco qua…porco là.”

   Radio Tirana produceva sempre lo stesso effetto: un colossale ed insopprimibile giramento di scatole del quale l’America faceva puntualmente le spese. Ecco perché lei tirava un sospiro di sollievo non appena la radio smetteva di gracchiare tra una scarica elettrica e l’altra. Ma quella sera non ci aveva badato. Aveva lasciato che lui si sfogasse prima di addormentarsi russando rumorosamente. 
   Tornata la quiete, si era rigirata su un fianco, il volto illuminato dalla luna. 
Lacrime copiose avevano cominciato a rigarle il viso senza che avesse cura di asciugarle. Lei avrebbe fatto in modo che continuassero a scorrere fino a quando non si fosse finalmente sciolto quell’immane dolore che le si era annidato dentro e le opprimeva l’anima e il cuore, lasciandola ancora una volta e ancora di più sfinita e disperata.                                                                     

   14 agosto 2019                                                                                   

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