Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2023 “A te che resti” di Fabrizio Giannandrea

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2023

A mezzanotte piangono tutti come bambini. Aprono gli occhi e si sentono di aver già oltrepassato quell’oscurità che non sembra neanche più vita. Qualcuno grida inutilmente: “Luce…luce!”.  Ma nessuno risponde. E allora torce le caviglie e cade sul linoleum ingommato sul pavimento, con le coperte che lo tengono ancora aggiogato al letto. E’ ancora vivo. L’urto al fianco lo rincuora. E poi sente la puzza degli altri coscritti dalla malattia che gli stanno vicino, presenze anonime ma simili a lui. Un altro essere umano è talmente pallido e smagrito che pare un alieno e flauta come un mantra il nome di Silvana, l’infermiera burlona che accorre: – No, non è ancora ora Francè, statte tranquillo. E riposa in pace! Aspè …. nun quella pace eterna che te piace tanto, me raccomanno!”. E intanto Francesco fa gli scongiuri, strofinando un crocifisso dalla doratura lacera, tenuto premuto forte sopra il petto, come se dovesse interrompere un fiotto copioso di sangue che fuoriesce da una ferita immaginaria.

Quando spengono le luci in quel sinedrio soffocante di nove pazienti in un reparto oncologico, ognuno si domanda se sia più di là che di qua. La tetra oscurità della stanza evoca il passaggio eterno, quello di cui sono certi e che raggiungeranno presto. Questione di giorni,  poche settimane, o forse qualche mese. Magari un anno per i più fortunati che hanno piene le vene del veleno buono che rintuzza “Er Granchio”, come  lo chiamano qui l’indomabile assassino tentacolare. Ma nel caso manchino solo poche ore alla dipartita terrena, chiedono a Silvana di tenere sempre accesa quella capricciosa luce al neon ad intermittenza, congelando il suo claudicante baluginio per non essere colti all’improvviso da un infarto a causa del banale equivoco dell’oscurità.

Gino si dimostra tra quelli più timorosi.  La diagnosi di tumore cerebrale è avvenuta una settimana prima del suo matrimonio con Silvia, compagna di una vita ormai abbreviata. Ricorda a quello del letto di fronte che dopo il vomito e la perdita dei sensi, l’hanno infornato come un panetto bollito in un tubo di metallo giù nella Radiologia. Il cinico responso è stato di una grossa patata grigia covata non si sa da quanto tempo nel suo tessuto cerebrale. Ora ha un respiro flebile che si raggomitola in un rantolo gracchiante, ferocemente fastidioso. Quando riapre gli occhi cade in un’improvvisa agnosia, come se fosse proiettato in un mondo del tutto sconosciuto. E’ talmente confuso che non sa nemmeno dove si nasconda più la voce. Non la trova neppure per chiamare Silvana. Con le dita tremolanti cerca allora di scansare qualunque oggetto gli capiti sotto tiro sul comodino. Intercetta un bicchierino di plastica che frana a terra col suo contenuto gelatinoso, e si riversa sul pavimento. Lo schiocco del bicchiere di plastica lo risolleva, come la piacevole sensazione di un ghiacciolo alla frutta sotto la lingua. Deve essere evidentemente ancora su questa terra, né nota luci accecanti che trapassano le pareti come nei film. E poi in Paradiso – si sente così sfortunato da meritarselo – mica camminano. Non ha pavimenti il Paradiso e nessuno oggetto cade, non esiste la gravità, neanche dei pensieri cattivi, lo sanno tutti.

Alfonso invece si dimostra quello più coraggioso. Essendo un indomito magistrato antimafia, all’ipotesi della morte si è assuefatto meglio di altri. Chiama Silvana solo per sincerarsi di un cavillo giuridico sul fine vita che da sapiente uomo di legge vuole approfondire…da un punto di vista pratico, si intende. “Mi devi dire…se quando sarà il momento io soffrirò?”

Silvana ha appena divorziato da Giulio, il viceprimario della Rianimazione che si è rifatto una vita con una seducente ferrista salentina di trenta anni più giovane. E’ ancora incarognita per il tradimento subito e versa in uno stato di astiosa diffidenza nei confronti di tutti i maschi fedifraghi. Il suo secondo scopo nella vita, appassionato quasi quanto la cura dei pazienti, è perciò il ferimento dei didimi infedeli attraverso la parola. “Signor Giudice, io a sta domanda te posso pure risponde. Però tu me devi promette che na sera me fai conosce uno degli amici tuoi, uno di quei giudici sotto scorta, nobili persone che rischiano la vita tutti i giorni. Cosi quanno me risposo di nuovo non dovrò penà pè troppo tempo co’ n’arto omo attorno …che armeno c’avrà già pensato la Mafia a farlo ….prima che se prenda troppa confidenza con n’artra mign…” Si affrettò a precisare, come se il concetto non fosse abbastanza chiaro. Poi osservando la titubanza del giudice a quelle parole e vedendo che la moglie occhieggiava rattristata da dietro uno stipite della stanza, gli fece con voce mutata e seriosa, questa volta improvvisamente più delicata quasi come quella di un sacerdote confessore che garantisce l’assoluzione a ogni peccato: “Certo, non te devi stà a preoccupà Signor Giudice. Te prometto che ci sarò io e tu non sentirai nulla. Te lo garantisco, statte tranquillo. Oggi abbiamo una terapia del dolore molto buona, che è na panacea… “. Glielo comunica mettendogli la mano a piatto sulla fronte sudata e poi gli aggiunge appena: “Cerca solo di stare vicino a tua moglie che soffre molto per te. Ti ama tanto quella pora donna. Lo so perché anche io c’ho amato così n’uomo, ma non ho avuto la tua stessa fortuna.” Il giudice colse la premura dell’infermiera, avvantaggiandosene con una richiesta che stimò fosse molto delicata: “Cosa accadrà quando me ne andrò? Dopo, starai tu vicino a mia moglie? Tu che resti?. “Signor Giudice, questo glielo dico in confidenza, sennò mi prendono pure pe’ pazza. Io so per certo che le anime non se ne vanno subito da questo monno. Restano per un po’, prima di salire..”

Il giudice annuì con gli occhi, con espressione scettica e aggiunse:

“Anche se sono molto colpito da quello che mi dici, promettimi comunque che starai vicino a mia moglie quando me ne andrò”, e  chiuse le palpebre subito dopo preso dal sonno che lo sfiorò delicatamente come la carezza di una madre.

Il giorno dopo Silvana tornò al capezzale del giudice. Incartata vicino al letto nel cellophane trovò una magnifica rosa rossa. Silvana pensò che il pensiero del giudice fosse andato alla moglie, secondo le raccomandazioni che gli aveva impartito e per cui si era tanto prodigata il giorno prima. Eppure sulla lettera spillata alla carta trasparente capeggiava il suo nome. La rosa era per lei, quindi. Silvana aprì la lettera con tenerezza, mentre il giudice si attardava al piano di sotto nell’esecuzione di un esame. Sul bigliettino c’era scritto: “A TE CHE RESTI. GRAZIE”

Silvana trattenne a stento la commozione, e inserì la lettera nel camice. Capì che quello era una sorta di impegno per il dopo, a cui non poteva mancare. Il giudice l’aveva nominata sua consulente per il passaggio. Un atto di riconoscenza per lei che c’era stata e d’amore per la moglie che lo avrebbe perso e che sarebbe stata più sollevata se ci fosse stata anche la presenza della donna. Forse non credeva alle cose che gli aveva confidato, era lo scetticismo di un giudice che diffidava di quel buio oltre la vita. Ma da uomo  pratico immaginava una presenza fisica, non di un’anima, ma di un corpo umano. E quel corpo era il suo, quello di Silvana in quanto donna terrena.

Fu poi distolta da una telefonata: “Muoviti a Silvà, che papà sta male.”

Era Carlo, suo fratello. Silvana non era pronta a quella eventualità. Per trent’anni aveva accompagnato la fine di tanti sconosciuti. Ma adesso si trovava a dover dare un’ultima parola di conforto al padre. Quasi non voleva, per timore di risultare inadeguata di fronte alla morte del proprio genitore: “Io però non posso lasciare i miei pazienti.”, proferì Silvana seria al Caposala pensando alla doppia promessa che aveva fatto al giudice, che non avrebbe mantenuto per colpa di quella assenza.  “Ma che stai a scherzà Silvana. E’ tuo padre, le fece fraternamente il Caposala  guardandole le mani che teneva intrecciate a un rosario di perle colorate e capendo che il suo non era per nulla un distacco anaffettivo nei confronti del genitore morente.

Silvana partì il giorno dopo. Il padre era davanti a lei con gli occhi pesti e marcati dalle occhiaie dopo l’infarto. Gli si accomodò di fronte al letto, raccontandogli di come era scontenta di aver abbandonato i suoi pazienti. Silvana amava tremendamente il suo lavoro di infermiera con i malati oncologici e glielo ribadì in tutte le salse. Il padre le sussurrò: “Sei sempre la stessa, non cambi mai” e poi spense la luce sul comodino, sorridendo per la morte scampata. La stanza privata della Cardiologia era completamente annerita dall’oscurità che ricordava il buio del suo reparto, solo che lì nessuno strepitava dalla paura. “Il cuore fa le bizze ogni tanto, ma poi risorge. E quando accendi i tuoi occhi, è difficile che possano spegnersi di nuovo con tutti quei tubicini attaccati e farmaci salvavita che ti circolano dentro per ravvivarlo. Il cancro è invece imprevedibile e subdolo. E una metastasi può esploderti all’improvviso, senza lasciare scampo, anche se ti sembra maledettamente più lenta di un infarto. Ma è una metastasi che non puoi vedere, perché non lascia sintomi la metastasi, come fa al contrario quel maledetto infarto”, andava ripetendo il suo ex marito quando squadernava agli amici le sue esperienze come medico rianimatore. Se lo ricordò Silvana mentre si addormentava sotto un plaid di lana che teneva sulle gambe, cercando di recuperare il sonno arretrato. Sognò tanto, molto della sua infanzia, senza ricordare l’essenza del sogno. Quella notte il sogno le disegnò due dita gelide che le stringevano la guancia sinistra, come un pizzicotto molesto. La sensazione la fece rabbrividire per un attimo. Sentiva ancora quelle dita che la sfioravano quando si ridestò, ma non c’era nessuno in quella stanza, tranne suo padre che dormiva profondamente come un sasso. Accese allora la luce e vide che l’orologio al quarzo indicava le “03.23”, la fascia oraria dove si muore più spesso, pensò svagatamente. Suo padre rimaneva ancora nel letto e non si era mosso. Era ancora vivo, per bontà del cielo che lo aveva risparmiato. Controllò che respirasse regolarmente. Il respiro c’era, imprigionava fremiti d’aria in un profondo russare sommesso. Ripensò a quella strana sensazione, e si riaddormentò, fin quando la luce del giorno non ritagliò i contorni di un mazzo di fiori bianchi adagiati sul davanzale, facendola svegliare.

Il padre di Silvana venne dimesso quella stessa mattina. Il rientro in reparto il giorno dopo fu assai difficile. Diversi pazienti a cui era affezionata si erano spenti all’unisono come candele al passaggio di un unico soffio di vento. Anche Gino e il giudice erano deceduti quasi all’alba. La moglie del giudice era sparita. Nessuno seppe dirle come era stata, se qualcuno le era stato vicino. Sapeva solo che lei aveva fallito come anima e come infermiera, perché non c’era stata. Aveva tradito la promessa legata alla rosa. Quella che aveva giurato a se stessa di mantenere.

Guido le fece un cenno della mano per chiamarla al suo capezzale: “Mia moglie mi ha lasciato. Non se la sente, questo tumore è un fardello troppo forte anche per lei. Non so biasimarla.” Le parole tristi di Guido però non la toccavano. Era troppo preoccupata di capire se il giudice aveva sofferto quell’ultima notte,

Silvana infilò la porta della Sala Medici e dal carrello scivolò improvvisamente una cartella clinica fino ad aprirsi ai suoi piedi. Uno strano magnetismo la catturò fino al desiderio di sapere. Il faldone conteneva gli ultimi dettagli clinici sulla morte del giudice, scritti a mano su un foglio di carta intestata dell’Ospedale. Nell’ultima ora critica il giudice non aveva sofferto. L’infermiera di turno aveva appuntato solo due dita annerite e fredde al tatto, forse a causa di un processo ischemico. Silvana avanzò con coraggio fino alla riga riguardante l’ora del decesso. Aveva forse le traveggole, gli occhi le diventarono lustri. Se li stropicciò per guardare meglio, magari non riusciva a leggere bene. Poi lasciò cadere la cartella sul pavimento, senza raccoglierla, e giunse le mani.

Sulla cartella, alla pagina sette veniva contrassegnato chiaramente l’orario del decesso e una breve nota scritta con calligrafia elegante e minuta, come se fosse stata aggiunta in un momento successivo.

Orario della morte:

Ore 03.23

A te che resti.

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